Riflessioni sull'efficacia della sentenza penale nel processo tributario

Quale valore ha la sentenza penale che verte sui medesimi fatti all’interno del relativo processo tributario? L’argomento è molto discusso… ecco i recenti orientamenti della Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza nr. 8129 del 23 maggio 2012, è nuovamente tornata a pronunciarsi in merito alla vexata questio dei rapporti tra il procedimento amministrativo tributario ed il processo tributario da una parte ed il processo penale dall’altra, affermando che:

  • nel giudizio tributario nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano quelli stessi che fondano l’accertamento, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, con rilievo probatorio in materia di determinazione dell’IVA, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Di conseguenza, l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena (per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste), può essere ritenuto responsabile fiscalmente, qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario;

  • il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c., deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare e del tutto legittimamente, nell’esercizio dei suoi poteri di valutazione del comportamento delle parti e degli elementi probatori desumibili dagli atti, verifica la rilevanza della sentenza penale assolutoria ai fini dell’accertamento materiale dei fatti riguardanti la fattispecie al suo esame, quale elemento di prova, ancorché privo dell’efficacia del giudicato.

 

 

La Suprema Corte, nella dianzi citata pronuncia, richiama, altresì, la pozione espressa nella recente sentenza n. 1416 del 2007 ove affermava chiaramente che

“È censurabile, sotto il profilo dell’obbligo di motivazione, la sentenza del giudice del merito il quale abbia omesso di esaminare e pronunciarsi sui fatti ed elementi addotti dall’Amministrazione finanziaria a sostegno dell’accertamento della maggiore materia imponibile imputata al reddito del contribuente meramente rimettendo al contenuto della decisione del giudice penale.

Pur rimarcando le differenze fra il principio di formazione della prova del processo penale, nel quale non è ammissibile l’utilizzo di presunzioni accordate dalla disciplina tributaria, il giudice del merito non ha tratto le dovute conseguenze incorrendo nel malgoverno delle norme che presiedono alla motivazione ed all’efficacia del giudicato penale nel processo tributario.”

 

Come è ben noto, i rapporti tra i due procedimenti sono stati ri-disciplinati ad opera dell’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000 in virtù del quale il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.

La disposizione normativa di riforma del diritto penale tributario, inoltre, con l’art. 25 ha espressamente abrogato l’art. 12 della Legge n. 516/1982 che contemplava un sistema di “vasi comunicanti” in ragione del quale la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativa a reati previsti in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto aveva autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali oggetto del giudizio penale.

In altre parole, il sistema disciplinato dal D.Lgs. n. 74/2000 prevede una piena autonomia dei due procedimenti con la conseguenza che, come sottolineato dalla Circolare del Min. delle Finanze 04/08/2000 n.1 54, trovano applicazione le disposizioni ordinarie di cui all’art. 654 c.p.p. che prevede un’efficacia vincolante delle sentenze penali di condanna o di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo a condizione che i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purchè la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.

Il rapporto tra i procedimenti, così come disciplinato dal combinato disposto di cui all’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000 e all’art. 654 c.p.p. è stato foriero di oscillanti interpretazioni da parte della dottrina, della giurisprudenza e della stessa prassi ministeriale.

Infatti, se l’amministrazione finanziaria con la circolare n. 154/E di cui sopra ammette la possibilità condizionata del giudicato penale in quello tributario, fatta salvo il rispetto della differente lex probatoria e, quindi, solo ove la sentenza penale non sia connessa strettamente con l’utilizzo di prove non ammesse nel processo tributario ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha in più occasioni smentito tale linea interpretativa affermando il principio dell’impossibilità di fare valere il giudicato penale nel processo tributario1.

Infatti, nella sentenza del 12 febbraio 2001 n. 1945 della Cassazione Civile, sez. tributaria, viene affermato testualmente che

“L’art. 654 del nuovo codice di rito penale ha implicitamente abrogato l’art. 12 l. 7 agosto 1982, n. 516, limitando l’efficacia del giudicato penale soltanto ad alcune specifiche previsioni.

Conseguentemente, l’assoluzione dell’imputato avvenuta in sede penale perché il fatto non costituisce reato non ha automatici effetti favorevoli al contribuente innanzi il giudice tributario.”

 

Allo stesso modo, nella sentenza della Suprema Corte del 24 febbraio 2001 n. 2728 si sottolinea il fatto che l’art. 654 c.p.p. stabilisce l’efficacia vincolante del giudicato penale nel giudizio civile o amministrativo a condizione che la situazione controversa dipende dai fatti materiali oggetto del giudizio penale rilevanti ai fini della relativa decisione, sempre che sia fatta valere nei confronti di chi abbia partecipato al giudizio penale e la legge civile non ponga limiti alla prova del diritto controverso; di conseguenza, a detta dell’organo giurisdizionale

“ne segue, pertanto, che il giudicato penale non può essere fatto valere nel processo tributario, pur se l’amministrazione finanziaria si sia costituita parte civile, poiché in esso sono posti limiti alla prova del diritto controverso.”

 

Ex pluribus, nella sentenza della Cassazione civile, sez. trib., 23 ottobre 2001, n. 13006 si afferma che, in ragione dell’esistenza nel processo tributario di limitazioni alla prova del diritto controverso ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, il giudicato penale non può fare stato nel processo tributario.

Per quanto concerne la valenza della decisione assunta in sede amministrativo-tributaria nel processo penale avente ad oggetto gli stessi fatti, l’impossibilità di prevedere un’efficacia vincolante discende soprattutto dalla necessità di salvaguardare il differente regime probatorio vigente nei due sistemi, posti a tutela di differenti interessi giuridici.

Infatti, l’Amministrazione Finanziaria, nell’esecuzione dei compiti istituzionali attribuiti dall’ordinamento al fine di quantificare e qualificare l’esatta capacità contributiva del cittadino che si presume essere stato infedele, è legittimata, al ricorrere delle condizioni previste, all’utilizzo di determinate presunzioni legali che, in quanto prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c. e all’art. 192, c. 2 c.p.p., sono state definite “semplicissime”2.

 

A tal proposito, si ricorda che:

  • Ai sensi dell’art.32, comma 2 del D.P.R. nr.600/1973, i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati presso le banche, la società Poste italiane Spa, per le attività finanziarie e creditizie, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio e le società fiduciarie, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei rapporti od operazioni de quibus;

  • Ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. n. 633/1972 e dell’art.1 del D.P.R. n. 441/1997, si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti. Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa;

  • Ai sensi dell’art. 39, c. 2 del D.P.R. n. 600/1973, disciplinante il c.d. accertamento induttivo o extracontabile, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a determinare il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, qualora: il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione; dal verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più scritture contabili, ovvero quando le scritture stesse non sono disponibili per causa di forza maggiore; le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica; il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, c. 1, nn. 3 e 4, del D.P.R. n. 600/1973 e dell’articolo 51, comma 2, numeri 3 e 4, del D.P.R. n. 633/1972.

 

Le presunzioni semplicissime, largamente utilizzate dall’Amministrazione Finanziaria nell’ambito di accertamenti induttivi, secondo conforme parere della giurisprudenza e della dottrina3, sono del tutto inidonee a supportare una decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, poiché quest’ultima non può essere affermata sulla base di una ricostruzione meramente ipotetica e presuntiva considerato che, mentre il procedimento amministrativo-tributario, dotato di regole proprie, è finalizzato al recupero a tassazione di quanto occultato all’Erario, il processo penale, anche e soprattutto in virtù del principio di colpevolezza di cui all’art. 27, c. 2 della Costituzione, vincola l’emissione di una condanna alla certezza della colpevolezza del soggetto.

Infatti, il Tribunale Tortona, con sentenza del 23 maggio 1997 ha chiaramente affermato che

“La parificazione disposta dall’art. 32, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, dei prelevamenti dai conti correnti bancari del contribuente e da quest’ultimo non giustificati a ricavi da questo conseguiti, non può essere assimilata ad una presunzione “iuris tantum” ed equiparata ad un indizio.

È, invece, una presunzione “iuris tantum” l’accertamento induttivo, a condizione che l’elaborazione degli indici di reddito sia corretta e che vi sia un’apprezzabile discordanza tra reddito dichiarato e reddito determinato per mezzo dei coefficienti.

È, pure, una presunzione “iuris tantum” il c.d. redditometro, a condizione che la sproporzione tra reddito dichiarato ed accertato non sia minima o il minor reddito dichiarato non sia comunque sufficiente a giustificare la disponibilità dei beni utilizzati come indici presuntivi.

È, infine, una presunzione “iuris tenum” il c.d. ricavometro, purché anch’esso sia sottoposto ad un vaglio di coerenza logica e concordanza. Peraltro, sia l’accertamento induttivo, sia il redditometro, sia il ricavometro devono essere sottoposti a rigoroso vaglio critico da parte del giudice penale, trattandosi di indizi, che, in quanto disciplinati dall’art. 192 c.p.p., devono essere sottoposti ad una verifica di serietà, precisione e concordanza.”

 

Ex pluribus, nella sentenza del 31 agosto 1996 del Tribunale di Pesaro si legge che “La presunzione “assoluta” di cui all’art. 53 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 – secondo cui si presumono ceduti, senza fatturazione e contabilizzazione, i beni che, una volta acquistati, non vengono rinvenuti nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, ma in luoghi diversi – non vincola il giudice penale, dovendo la stessa essere parametrata alle regole sulla prova di cui all’art. 192 c.p.p.”

 

In altre parole, il giudice penale non può utilizzare le presunzioni tributarie ma deve

“ai fini della formazione del libero convincimento valutare tutti gli elementi in fatto portati al suo esame alla luce delle regole proprie del processo penale e con l’esclusione di qualsiasi prova con efficacia vincolante.”4

 

sentenza corte di cassazione

La sentenza della Corte di Cassazione, nr.8129 del 23 maggio 2012, rappresenta una conferma di quell’orientamento giurisprudenziale teso ad affermare l’esistenza di una c.d. “terza via” nell’interpretazione delle disposizioni disciplinanti i rapporti tra i due procedimenti; in virtù di questa posizione interpretativa è possibile affermare che non si può escludere che il giudice tributario possa, in modo del tutto legittimo, esaminare il contenuto delle prove acquisite nel processo penale, ricostruendo il fatto storico in base alle medesime circostanze già oggetto di esame da parte di quest’ultimo, a condizione che venga posto in essere un distinto procedimento valutativo degli elementi probatori stessi e secondo le regole vigenti in campo tributario.

La sentenza penale, pur non costituendo una prova dei fatti materiali controversi, può configurare un documento5 nel quale viene presentata l’esistenza e il contenuto di prove assunte in sede penale, le quali, lungi dall’essere vincolanti per il giudice tributario, possono, comunque, essere soggette alla sua valutazione critica, piena ed autonoma, nel rispetto del principio del libero convincimento.

 

Infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza 22 settembre 2000, n. 12577 ha sostenuto che il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento anche sulle prove acquisite nel giudizio penale, purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori. Questo perché, a detta della Suprema Corte,

” il risultato raggiunto in sede penale non rappresenta un qualcosa di completamente avulso dal gravame tributario, in quanto il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale, purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori.”

 

In altre parole, come affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 2 dicembre 2002, n. 17037, costituiscono consolidati principi6 quelli secondo cui il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento anche in base alle prove acquisite nel giudizio penale ed anche nel caso in cui questo sia stato definito con una pronuncia non avente efficacia di “giudicato opponibile” all’Amministrazione finanziaria in sede giurisdizionale diversa da quella penale,

“purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, i quali possono, quantomeno, costituire fonte legittima di prova presuntiva”.

 

Allo stesso modo, la sentenza della Cassazione, sez. trib., 16 maggio 2005 n. 10269, nel riaffermare che nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, riconosce comunque al giudice tributario la possibilità di procedere ad un’autonoma valutazione, secondo la lex probatoria vigente nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale.

In altre parole, il giudice tributario, se da una parte non può estendere automaticamente gli effetti di una sentenza definitiva in materia di reati tributari con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, dall’altra è legittimato, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.p.), a verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare7.

La Corte di Cassazione, sezione V, con la sentenza n. 19251 del 30/09/2005 ha chiaramente affermato che la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art.444 c.p.p., quando il reato concerne la tassazione di proventi da attività illecite, costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell’avviso di accertamento emesso per la ripresa a tassazione del cespite omesso; pertanto, a detta della Corte, nel caso in cui il giudice di merito intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale avrebbe prestato fede a tale ammissione. Sulla stessa linea interpretativa si pone la sentenza della Corte di Cassazione n. 19505 del 19 dicembre 2003 in ragione della quale

“La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito…

Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento.”

 

In conclusione, la sentenza della Corte di Cassazione nr.8219 del 2012, nel riaffermare il principio secondo il quale, in virtù di quanto disposto dall’art.654 c.p.p., la sentenza penale non ha un’automatica valenza di cosa giudicata nel processo tributario avente ad oggetto gli stessi fatti, si pone sulla medesima linea dei più recenti orientamenti giurisprudenziali ammettendo la possibilità che il giudice tributario possa avvalersi delle risultanze emergenti dal processo penale e, di conseguenza, procedere, utilizzando le specifiche disposizioni vigenti nel proprio comparto, comprese quelle che disciplinano il differente regime probatorio, ad una valutazione logico-giuridica del tutto autonoma degli elementi de quibus.

 

Sull’argomento leggi anche:
Assoluzione in sede penale e responsabilità fiscale: quali implicazioni?
Effetti del patteggiamento in sede penale sul processo tributario
Il fiscale non si avvantaggia del penale

 

4 agosto 2012

Nicola Monfreda e Fabrizio Stella

 

NOTE

1 Vgs. sul punto ANTONACCHIO F. – MONFREDA N., Il patteggiamento della pena come elemento di prova per il giudice tributario: la sentenza n. 19251 del 30 settembre 2005, in Il Fisco nr.45/2005.

2Vgs. sul punto TRAVERSI, Presunzioni tributarie e prove penali, in I reati in materia fiscale a cura di P. Corso e L. Stortoni, Torino, 1990, 778; IZZO, Accertamento induttivo e prova penale, in Il Fisco, n. 27/1990; PALLADINO, Presunzioni fiscali semplici tra diritto penale e diritto tributario, in Il Fisco, n. 27/1994.

3 Vgs. sul punto, CATARINELLA P., Sull’utilizzabilità delle presunzioni tributarie nel processo penale, in Giur. Merito 1997,3,586; CUTRONA M., Rilevanza probatoria nel processo penale del criterio di accertamento induttivo in materia di imposte sui redditi e di Iva, in Giur. Merito 1997,6, 1014.

4 Sono le considerazioni di CATARINELLA P., Sull’utilizzabilità delle presunzioni tributarie nel processo penale, op.cit..

5 La sentenza penale può essere prodotta come documento nel giudizio tributario sulla base del congiunto disposto degli articoli 24 e 32, comma 1, e 58, comma 2, del D.Lgs. 546/1992.

6 A tal proposito la Suprema Corte richiama la posizione espressa dalla già analizzata sentenza nr.12577 del 2000.

7 La sentenza n. 9109 del 21 giugno 2002 della Corte di Cassazione afferma che “il Giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione dell’imputato in materia di reati tributari e ad estendere automaticamente gli effetti della stessa con riguardo all’azione accertatrice del singolo Ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cpc), deve in ogni caso verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui il compendio probatorio è appunto destinato ad operare.”