Interpelli facoltativi e obbligatori, giuridico-interpretativi e fattuali

Una corposa guida all’istituto dell’interpello: i casi in cui è obbligatorio, quelli in cui è facoltativo, gli effetti dell’interpello sia positivo che negativo, l’interpello antiabusivo, il caso delle società di comodo…

Il diritto di interpello – Aspetti generali

interpello agenzia entrateIl diritto di interpello, affermatosi soprattutto a seguito dell’emanazione e dell’attuazione dello Statuto del contribuente, costituisce il «pilastro» fondamentale sul quale si intendeva costruire un rapporto paritetico e collaborativo tra contribuenti e Fisco.

L’obiettivo è ambizioso, e deve essere letto – a parere di chi scrive – in una prospettiva «programmatica», nei termini della piena attuazione del disposto costituzionale.

L’interpello appare principalmente quale strumento volto alla precisazione e alla spiegazione degli aspetti interpretativi di una fattispecie, in ordine alla quale il contribuente (privato, impresa, ente, etc.) manifesta un dubbio.

Gli altri utilizzi dello strumento dell’interpello, via via divenuto funzionale alla «presentazione» di situazioni di fatto note al contribuente ma non anche all’amministrazione, si situano piuttosto in un contesto «limitrofo» rispetto alle attività di accertamento, offrendo ai contribuenti la possibilità di promuovere la disapplicazione di disposizioni antielusive, mediante una produzione di idonei riscontri documentali.

Il presente contributo si propone di tracciare una mappa dei vari interpelli disponibili allo stato della normativa vigente, con i relativi consigli quanto al loro impiego e alla loro gestione.

La tutela dell’affidamento nell’ordinamento tributario

Il rapporto tra contribuenti e amministrazione – sul quale si «costruisce» lo Statuto del contribuente e con esso il diritto di interpello – ha accolto i principi di buona fede e di tutela dell’affidamento, i quali costituiscono una garanzia generale posta a presidio dei rapporti intercorrenti tra i privati relativamente alle varie vicende negoziali.

Può a tale proposito essere osservato che le disposizioni dello Statuto, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali (art. 1, primo comma, L. n. 212/2000).

Inoltre, è stato stabilito – nel successivo secondo comma dell’art. 1 – che le eventuali norme di interpretazione autentica in materia tributaria possono essere introdotte solamente in casi eccezionali, con legge ordinaria e facendo espressa menzione del carattere interpretativo delle norme medesime.

A norma dell’art. 10 dello Statuto, i rapporti tra contribuente e amministrazione sono inoltre improntati ai principi della collaborazione e della buona fede; lo stesso articolo dispone, al secondo comma, che non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, se lo stesso si è conformato alle indicazioni contenute in atti dell’amministrazione, anche se successivamente modificate, o se il suo comportamento è posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell’amministrazione stessa.

A tale proposito, può utilmente essere richiamata la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, 10.12.2002, n. 17576, nella quale il verbale redatto dall’ufficio IVA era stato oggetto di una sanatoria ex art. 21, D.L. 2.3.1989, n. 69 (convertito, con modificazioni, dalla L. 27.4.1989, n. 154).

Successivamente alla chiusura della procedura, perfezionatasi mediante i versamenti prescritti, l’ufficio fiscale aveva ugualmente proceduto alla rettifica della dichiarazione d’imposta relativa a uno degli anni compresi nella sanatoria.

Nel decidere in senso favorevole al contribuente, la Corte ha osservato che l’ingresso in ambito tributario (con lo Statuto, come si è visto) dei principi di collaborazione, buona fede e tutela dell’affidamento è indotto dalla derivazione di tali principi da quelli costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di eguaglianza (comportante, quest’ultimo, il rispetto del canone della ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.).

Inoltre, nella ricostruzione effettuata dalla Cassazione, è dato risalto alle posizioni espresse dalla Corte di Giustizia Europea, la quale ha affermato che il diritto di ogni istituzione comunitaria alla revoca di un atto amministrativo favorevole incontra un limite nella necessità di rispettare il legittimo affidamento del destinatario dell’atto (CGCE, sentenza 19.5.1983 nella causa 289/81).

Sul piano interpretativo interno, il Consiglio di Stato ha poi sempre considerato i principi della buona fede e della tutela dell’affidamento «tra i canoni regolatori ultimi dei rapporti tra pubblica amministrazione ed amministrati…» (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 206/1981, Sez. IV, sentenza n. 651/1986, Ad. Plen., sentenza n. 11/1993).

Il buon funzionamento del rapporto tra contribuenti e Fisco, tuttavia, poggia anche sul principio di collaborazione, il quale configura in capo al contribuente un generale dovere di correttezza inteso ad evitare comportamenti capziosi, dilatori, elusivi, genericamente inquadrabili nella categoria dell’«abuso del diritto», e in capo al Fisco l’obbligo di adottare comportamenti coerenti, cioè non contraddittori né discontinui.

L’interpello ordinario in sintesi

L’istituto dell’interpello «ordinario» è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano, ai fini fiscali, dall’art. 11, L. 27.7.2000, n. 212; le norme attuative sono intervenute con il D.M. 26.4.2001, n. 209.

Alla luce del suo carattere preventivo, l’interpello ordinario risulta inammissibile se sono state compiute o sono in corso attività di controllo fiscale od accertamento, con riferimento, in particolare, ai poteri e alle rettifiche di cui agli artt. 32 e ss., D.P.R. 29.9.1973, n. 600, e a quelli di cui agli artt. 51 e ss., D.P.R. 26.10.1972, n. 633 (nonché alle ipotesi di rettifica relative all’imposta di registro e alle altre imposte indirette).

L’interpello risulta altresì inammissibile se esiste una qualsiasi attività di controllo da parte degli uffici fiscali, ivi comprese le ipotesi di rettifiche solamente formali o «cartolari» (come quelle previste dagli artt. 36-bis e ter del D.P.R. b. 600/1973, che si traducono in comunicazioni di irregolarità prive della natura di «atto impositivo».

Naturalmente, il «conflitto» tra interpello e attività di controllo deve manifestarsi in ordine al contenuto del quesito posto dall’istante: ad esempio, se il comportamento prospettato si attua mediante la presentazione della dichiarazione fiscale, il controllo – ovvero l’accertamento – riguardante «quella» dichiarazione fiscale avrà un effetto «preclusivo», tale da rendere l’interpello inammissibile.

Il carattere della preventività

L’interpello ordinario è preventivo: l’istanza deve dunque essere proposta prima di attuare il comportamento prospettato), ed è stato ritenuto incompatibile con le situazioni nelle quali il contribuente stia subendo un’attività di controllo fiscale in relazione alle problematiche sulle quali verte il quesito. In tale contesto, il carattere della preventività si pone come una

«garanzia» rispetto alla possibilità che l’Amministrazione renda una risposta positiva rispetto a comportamenti che sono «censurati» in sede di controllo.

Per tale motivo è necessario, che l’Amministrazione abbia piena cognizione della situazione fiscale di coloro che ad essa si rivolgono quale «consulente» (con particolare riguardo alle vertenze in corso), interloquendo con le proprie articolazioni amministrative preposte ai controlli, ed acquisendo altresì gli estremi delle parallele indagini poste in essere dai reparti della G.d.F.

L’Amministrazione in sede di controllo dovrà inoltre tener conto degli effetti dei pareri resi in sede di interpello, che esplicano sostanzialmente effetti preclusivi nei confronti delle attività ispettive e accertative difformi, salva la possibilità di revoca, la quale però non potrà certamente essere strumentale all’apertura di un’attività di controllo fiscale (ne andrebbe, altrimenti, del rispetto dei «pilastri» di buona fede e tutela dell’affidamento, sui quali l’istituto dell’interpello poggia).

Il rispetto del carattere della preventività deve essere verificato anche per gli interpelli antielusivi e disapplicativi, che devono generalmente riferirsi a comportamenti ancora non attuati, con particolare riguardo al momento in cui tali comportamenti assumono rilevanza ai fini tributari, cioè al momento di presentazione della dichiarazione fiscale.

 

Preventività: comportamenti «dichiarativi» e «non dichiarativi»

Secondo le precisazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 31.5.2001, n. 50/E (par. 2.2),

«in conformità alla ratio dell’istituto, concepito in funzione dell’interesse dei contribuenti a conoscere l’indirizzo interpretativo dell’Amministrazione finanziaria, allo scopo evidente di porsi al riparo o, comunque, conoscere preventivamente gli esiti dell’attività di controllo, il comma 2 dell’articolo 1 richiede che l’istanza possa essere presentata soltanto prima di porre in essere il comportamento rilevante ai fini tributari (ad esempio, prima di presentare la dichiarazione dei redditi, prima di assolvere l’imposta di registro connessa con la registrazione dell’atto, prima di emettere la fattura IVA ecc.).

Il mancato rispetto di tale condizione non preclude in via di principio la possibilità di acquisire comunque il parere dell’Agenzia, ma impedisce che la richiesta presentata possa essere trattata come “interpello del contribuente” sul piano degli effetti».

 

Da quanto ha precisato l’Agenzia, sembra possibile ricavare i seguenti principi:

  • l’interpello ordinario è finalizzato ad evitare un potenziale e successivo contrasto con il Fisco, e non a risolvere una situazione «pregressa» (la quale è invece affrontabile attraverso le istanze di archiviazione ed autotutela, l’accertamento con adesione e gli altri strumenti «deflativi» del contenzioso, oltre che con il tradizionale strumento del contenzioso tributario);
  • nel caso di un interpello «successivo» difforme rispetto all’attività di

controllo, esso – anche senza che l’Amministrazione ne faccia menzione nel parere emesso – non sarà produttivo degli effetti tipici che si ricollegano allo strumento.

In relazione alla problematica delle eventuali istanze presentate dai contribuenti in difetto del carattere della preventività del comportamento prospettato, la circolare dell’Agenzia delle Entrate 16.5.2005, n. 23/E (par. 5.3) ha raccomandato alle direzioni regionali di astenersi

«…dall’esame di merito delle istanze nei casi in cui il parere richiesto dal contribuente verte sulla legittimità dei rilievi già formalizzati in atti emessi dagli Uffici dell’Agenzia delle entrate o dalla Guardia di Finanza a seguito di attività di controllo sostanziale o formale».

Secondo quanto è stato affermato nella circolare n. 32/E del 14.6.2010 (par. 5.2), l’interpello ordinario deve ritenersi preventivo

«quando presentato prima che il contribuente ponga in essere il comportamento oggetto dell’istanza ovvero prima che sia data attuazione alla norma oggetto della richiesta di chiarimenti».

«Per tutti i comportamenti che trovano attuazione nella dichiarazione, pertanto, il contribuente è tenuto alla presentazione dell’istanza prima della scadenza del termine di presentazione della dichiarazione medesima; è evidente in tal caso che rileva il termine ordinario di presentazione della dichiarazione, a nulla influendo la circostanza che l’inadempimento può essere sanato nei novanta giorni successivi ovvero che la dichiarazione originariamente presentata è integrabile, sia a favore del contribuente».

 

Un «confine» temporale ideale è quindi tracciato in corrispondenza del termine ordinario di presentazione del modello Unico (generalmente il 30 settembre).

Se tale termine viene superato, l’interpello può riferirsi solamente al successivo periodo di imposta. Se tuttavia si tratta di un comportamento «continuato», che non muta da periodo a periodo, la risposta resa dall’amministrazione potrebbe riflettersi sulle situazioni «pregresse». In tale ipotesi, verrebbe a riproporsi un problema di preventività, e – dunque – di inammissibilità del quesito.

Sempre secondo la circolare n. 32/E del 2010,

«nessun rilievo assume, (…), ai fini della preventività, la circostanza che il contribuente sia tenuto ad effettuare versamenti già prima della scadenza del termine ordinario di presentazione della dichiarazione.

Per tutti i comportamenti che, viceversa, non trovano attuazione nella presentazione di una dichiarazione come accade, ad esempio, per quanto attiene agli interpelli rilevanti in materia di imposta di registro, occorre far riferimento ad elementi diversi, quali, nel caso di specie, la presentazione dell’atto per la registrazione.

È sufficiente, pertanto, che il contribuente presenti l’istanza allegando l’atto (ovvero una bozza di atto) rispetto al quale vengono richiesti chiarimenti prima che scada il termine ordinariamente previsto per la registrazione dell’atto, a nulla influendo la circostanza che, in attesa della risposta dell’Agenzia, il contribuente provveda a registrare l’atto medesimo; in tali ipotesi, per effetto della risposta, a seconda dei casi, il contribuente potrà provvedere al versamento della residua imposta o alla presentazione di un’istanza di rimborso».

 

Gli effetti dell’interpello sul controllo fiscale

Nell’ipotesi di un’attività investigativa fiscale (controllo/accertamento) posta in essere successivamente al parere reso dall’Agenzia delle Entrate sulle stesse problematiche che sono o potrebbero essere valorizzate dai verificatori, possono verificarsi le seguenti conseguenze:

se il parere già reso dall’Agenzia è positivo

  1. il parere emanato dovrebbe essere noto a tutti gli uffici dipendenti dalla direzione regionale;
  2. il parere può essere opposto ai verificatori, inibendo l’attività di controllo (circolare 50/E/2001, 5);
  3. l’attività di controllo può (deve) essere strutturata e orientata in modo da non contrastare direttamente la validità della risposta resa.

Se il parere già reso dall’Agenzia è negativo

  1. nel caso in cui il parere involgesse le problematiche che sono state oggetto di interpello, i verificatori dovrebbero conoscerlo, mentre il contribuente avrebbe tutto l’interesse a cercare di tenerlo nascosto;
  2. comunque, l’espletamento di un controllo con riferimento alle specifiche tematiche trattate nell’interpello non dovrebbe scaturire da una «segnalazione» interna all’Agenzia, perché ciò risulterebbe in contrasto con i principi di tutela dell’affidamento e buona fede sanciti dallo «Statuto del contribuente».

Relativamente ai controlli effettuati dalla Guardia di Finanza, la succitata circolare 23/E/2005 (par. 9) ha precisato che:

  • la d.F. può inoltrare specifiche richieste di parere all’Agenzia delle Entrate per «corrispondere ad esigenze direttamente connesse con la propria attività istituzionale»;
  • le direzioni regionali possono «ottemperare alle richieste della Guardia di Finanza che, nell’ambito dell’attività di verifica, intenda acquisire copia del parere reso in sede di interpello».

Gli effetti del controllo fiscale sull’interpello

Se il controllo fiscale è già iniziato, è opportuno che gli addetti all’interpello ne conoscano l’andamento e gli esiti, ciò che può essere garantito sia attraverso la consultazione delle banche dati informative a disposizione, sia sentendo l’ufficio fiscale procedente, che potrà trasmettere alla direzione regionale gli atti della verifica, il fascicolo dell’accertamento, i verbali di contraddittorio, e tutta la documentazione che potesse risultare utile.

Se l’interpello viene invece presentato quando l’attività istruttoria è in corso, con l’avvio di accessi, ispezioni o verifiche, o con la formalizzazione dei rilievi in sede di accertamento, potrebbero individuarsi le seguenti ipotesi:

Parere positivo reso dall’Agenzia «medio tempore»

Se il parere, proposto successivamente all’inizio dell’attività di controllo, viene opposto dal contribuente nel corso dell’accertamento, questo non risulta inibito, perché, evidentemente, l’istanza sarebbe stata proposta in difetto del carattere della preventività: tale ipotesi potrebbe scaturire solamente da un errore della direzione regionale (che «non si sarebbe accorta» del controllo attivato), ma non sembra suscettibile di produrre gli effetti ricercati dall’istante; occorre però considerare gli effetti sfavorevoli (per l’Amministrazione) di una simile circostanza sull’eventuale contenzioso che farebbe seguito al controllo fiscale.

Va altresì considerato che il contribuente potrebbe aver posto in essere il comportamento con riferimento a fattispecie «ripetitive», sicché l’interpello potrebbe essere fatto valere dal contribuente stesso per il futuro (circolare 23/E/2005, par. 5.3): in tale ipotesi, comunque, dal punto di vista dell’Amministrazione, occorrerebbe valutare il possibile effetto della risposta anche per il passato, dato che l’eventuale risposta della direzione   difforme   rispetto   all’operato   dell’ufficio   accertatore   potrebbe tradursi in un’«automatica» archiviazione dei rilievi «contestati», se non di tutta la verifica, prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento.

Parere negativo reso dall’Agenzia «medio tempore»

L’eventuale parere negativo della direzione regionale, reso nelle more del procedimento di controllo/accertamento, non sembra poter causare particolari problemi, anche se l’interpello dovrebbe pure ritenersi ab origine inammissibile per difetto del carattere della preventività: esso potrebbe quindi tradursi, ai fini interni, in un preciso «indirizzo», mediante il quale l’organo amministrativo sovraordinato (direttore regionale) interviene sull’accertamento in corso.

 

Il carattere «circostanziato e specifico» dell’istanza

L’istanza dev’essere «circostanziata», e dunque recare tutte le indicazioni che, in punto di fatto e di diritto, necessitano alla direzione regionale o centrale per procedere all’istruttoria e alla successiva emanazione del parere.

Soprattutto, atteso che comunque l’Agenzia fiscale può sopperire alla mancanza di informazioni sulle norme che si ritengono applicabili, un’istanza di interpello carente della descrizione del fatto relativamente al quale è chiesto di conoscere l’orientamento «ufficiale», può prestarsi a immaginabili difficoltà di trattazione, o persino a una pronuncia di inammissibilità.

Infatti, l’interpello ha la caratteristica di produrre un parere che vincola i controlli fiscali, e quindi si «consolida» nei confronti dell’Amministrazione; ma il parere riguarda il caso specificamente prospettato, e quindi sarebbe improduttivo – o, peggio, utilizzabile strumentalmente, perché riferito a una fattispecie vaga e indefinita -, nel caso in cui la situazione dell’istante non fosse chiaramente esposta (eventualmente, anche con il supporto della documentazione ritenuta utile dallo stesso interpellante, o richiesta dalla direzione).

Inoltre, l’istanza deve essere «specifica», ossia riferita alla particolare situazione – o alle particolari situazioni – relativamente alle quali è proposto interpello. Non è espressamente escluso l’interpello «plurimo», contenente più domande, ma – evidentemente – su ciascuna domanda l’interpellante avrà l’onere di esplicare, documentare, argomentare, e prospettare la relativa soluzione.

L’obbligo di redigere un’istanza circostanziata e specifica appare finalizzato, sostanzialmente, a circoscrivere l’area tematica sulla quale la direzione andrà a rispondere e quindi, in definitiva, ad evitare «ultrapetizioni» od «extrapetizioni», dalle quali potrebbero sorgere ulteriori incertezze od utilizzi strumentali dei pareri resi.

 

Gli effetti della risposta dell’Amministrazione

Nel contesto della procedura di interpello, il vincolo nei confronti dell’Amministrazione è costituito – ciò che sarà ribadito in altri termini dal decreto attuativo – solamente con riferimento all’interpellante (ovvero al contribuente nel cui interesse è presentata l’istanza dagli altri soggetti eventualmente a ciò abilitati secondo la normativa) e alla questione specifica che è oggetto dell’istanza.

L’interpello si pone insomma, in linea di principio, come una risposta specifica a una domanda specifica, e la domanda, come avviene per le pronunce giurisdizionali, circoscrive l’ambito stesso della risposta.

Tale caratteristica di «specificità» spicca particolarmente se si considerano le differenze tra l’interpello ordinario e l’interpello antielusivo: mentre, infatti, quest’ultimo è orientato a cogliere la componente «artificiosa» e «maliziosa» di comportamenti coordinati posti in essere da più soggetti, in un contesto dinamico, l’interpello ex art. 11, pur potendosi esercitare su un più ampio campo applicativo, può conoscere solamente la «fotografia» di un determinato comportamento, ossia ciò che il contribuente vuol far conoscere all’Amministrazione, omettendo il «prima» e il «dopo», nonché i «dintorni» del comportamento prospettato.

Ciò si riflette in un notevole rischio potenziale per l’Amministrazione in sede di consulenza, poiché anche una pronuncia apparentemente «innocua», non censurabile per vizi di «ultrapetizione» od «extrapetizione», potrebbe esporre il Fisco a tentativi di utilizzo indebito del parere, in sede amministrativa e giudiziale.

Secondo il secondo periodo del secondo comma dell’art. 11 in esame, se l’istanza non perviene al contribuente entro il termine di cui al primo comma (120 giorni, eventualmente prorogabili fino a 240 in caso di integrazioni documentali), «si intende che l’Amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente». Da ciò consegue che «qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta, anche se desunta ai sensi del periodo precedente, è nullo».

Il terzo comma aggiunge che, limitatamente alla questione che è oggetto dell’istanza di interpello, l’Amministrazione non può irrogare sanzioni nei confronti del contribuente che non abbia ricevuto risposta entro il termine prescritto.

Il silenzio rappresenta, nell’istituto in esame, una potente garanzia per gli interpellanti, e inoltre rafforza l’obbligo di adempiere dell’Amministrazione, che in questo modo è soggetta non solamente ad un termine perentorio, ma anche alla «sanzione» immediata rispetto all’eventuale inadempimento.

Leggi anche: Guida pratica all’interpello: gli interpelli ordinari – con fac-simile di istanza 

 

L’interpello antielusivo

L’interpello c.d. «antielusivo», di cui all’art. 21 della L. n. 413/1991, sorge come procedimento amministrativo mediante il quale il contribuente può richiedere, in via preventiva, un parere all’Amministrazione sulla corretta «qualificazione fiscale» di situazioni di fatto prospettate, per raggiungere una soluzione consensuale e non oppositiva.

Il parere – originariamente reso anche dal Comitato consultivo (in sede d’«appello»), e allo stato solamente dall’Agenzia delle Entrate1 – ha efficacia esclusivamente ai fini e nell’ambito del rapporto tributario; nell’eventualità di una successiva fase contenziosa, l’onere della prova grava in capo alla parte – contribuente o ufficio – che non si è uniformata al parere del Comitato.

Mentre l’interpello ordinario – ex art. 11, L. 212/2000 – si pone come la procedura finalizzata ad ottenere dall’Amministrazione un parere qualificato sull’applicazione delle norme fiscali, produttivo di effetti tipici riconducibili sostanzialmente nell’inibizione delle eventuali attività difformi rispetto all’interpretazione fornita, l’interpello antielusivo guarda soprattutto alle possibilità di applicazione della norma di cui all’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973, rispetto alle quali può fornire uno «scudo», manifestando il carattere «non elusivo» di determinate operazioni.

Si tratta di una serie chiusa di operazioni (fusioni, scissioni, conferimenti, etc.), la cui combinazione, generalmente in una sequenza coordinata di «atti, fatti o negozi», può essere finalizzata all’ottenimento di un vantaggio tributario non previsto dall’ordinamento, e pertanto censurabile dall’Amministrazione mediante il disconoscimento dei relativi effetti tributari. Il «sindacato» antielusivo da parte del Fisco, che è materia delicata e perciò circondata di particolari cautele anche ai fini dell’accertamento (contraddittorio speciale con il contribuente; motivazione specifica nell’atto impositivo) ha recentemente «incrociato» la linea giurisprudenziale della Cassazione in tema di «abuso del diritto» (nozione sovrapponibile a quella di elusione).

Le regole procedurali per la gestione delle istanze di interpello antielusive sono state emanate con D.M. 13.6.1997, n. 195; più di recente, l’art. 16 del D.L. 29.11.2008, n. 185, convertito dalla L. 29.1.2009, n. 2, ha dettato nuove disposizioni, che prevedono il seguente iter procedurale:

  • l’istanza è inviata alla Direzione Centrale Normativa (DCN) dell’Agenzia delle Entrate, per il tramite della direzione regionale territorialmente competente;
  • decorsi 120 giorni dalla presentazione dell’istanza, il contribuente, cui non sia stata fornita risposta, può diffidare l’amministrazione;
  • decorsi ulteriori 60 giorni dalla presentazione della diffida, si forma il silenzio assenso in relazione alla soluzione interpretativa prospettata dal contribuente.

I controlli e l’interpello antielusivo

Mentre l’interpello ordinario può formalmente inibire l’attività di controllo (comportando l’invalidità degli atti impositivi difformi rispetto al parere reso), l’interpello antielusivo costituisce una sorta di «accertamento preventivo» sulle operazioni censurabili dall’Amministrazione sulla base dell’art. 37-bis, e «nasce» nell’ambito della normativa sull’accertamento, come pure l’interpello «disapplicativo» (la cui natura può a sua volta risultare marcatamente «accertativa», come risulta chiaramente nell’impianto della nuova disciplina delle società non operative).

In tale contesto, gli organi deputati a rendere il parere devono necessariamente conoscere bene le vertenze tributarie degli interpellanti: in difetto di tale condizione, sarebbe troppo facile per taluni tentare di «ingabbiare» il Fisco, sviandone l’attività – magari con domande capziose – per mettere in crisi l’attività di controllo, accertamento o contenzioso.

Tale forma di interpello, ponendosi quale alternativa «preventiva» rispetto alla successiva – ed eventuale – attività di controllo, risulta direttamente finalizzata a evitare una controversia intorno all’applicazione di disposizioni per loro natura controvertibili: l’elusione, infatti, si compone di un insieme di atti, fatti, negozi, del tutto leciti e corretti dal punto di vista del diritto positivo, nel quadro di un comportamento che «strumentalizza» le stesse regole giuridiche.

L’interpello antielusivo comporta solamente l’effetto dell’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente o dell’ufficio fiscale che non si conformassero al parere in sede di contenzioso tributario (art. 21, co. 3, L. n. 413/1991), ma è evidente la sua suscettibilità a generare il legittimo affidamento degli istanti, data la sua provenienza dall’Amministrazione istituzionalmente preposta all’interpretazione e all’applicazione delle norme.

Si ritiene pertanto che anch’esso esplichi di fatto, in sede di controllo e accertamento, un effetto di «inibizione», rendendo inopportuna in linea generale l’emanazione di atti impositivi difformi. Non esiste tuttavia un divieto espresso in tal senso per l’Amministrazione, e per tale ragione si ritiene che l’attività accertativa potrebbe legittimamente esplicarsi, purché motivata e documentata in modo fondato, con argomentazioni tali da superare il parere sulla base di una nuova e più ampia ricostruzione dei fatti.

Impugnabilità o inoppugnabilità della risposta?

L’impossibilità di impugnare validamente avanti le Commissioni tributarie la risposta resa in sede di interpello discende dalla sua natura di semplice «parere», e non di provvedimento, inidoneo a incidere direttamente nella sfera giuridica del contribuente-istante.

È vero infatti che:

  • di fronte al silenzio dell’Amministrazione, mentre nulla è previsto per l’interpello «disapplicativo», con la conseguenza che potrebbe ivi ipotizzarsi un interesse a ricorrere, il silenzio è per l’interpello ordinario «significativo», causando effetti vincolanti per la parte pubblica (e, quindi, escludendo alla radice l’interesse a ricorrere);
  • di fronte a un’eventuale risposta negativa resa dall’Amministrazione ex art,. 11, L. 212/2000, il contribuente può comunque disattendere l’orientamento espresso dal Fisco, e la successiva attività di controllo e/o di accertamento sarebbe solamente eventuale, e garantirebbe ogni possibilità di opposizione in sede amministrati- va e giudiziale (adesione, autotutela, acquiescenza, ricorso alla CTP, etc.).

 

La possibilità di impugnare aventi gli organi della giustizia amministrativa la risposta a istanza di interpello è stata peraltro esclusa dalla sentenza del TAR Emilia Romagna, sez. I, 17.1.2005, n. 47.

Nel diverso ambito dell’interpello «disapplicativo», ex art. 37-bis, co. 8, D.P.R. 600/1973, le istanze sono state invece oggetto di impugnativa, nell’ambito di un contenzioso che ha condotto alla sentenza della Sezione Tributaria della S.C. n. 23731 dell’11.10.2004 (dep. il 21 dicembre 2004). A contrario, con specifico riferimento alla disapplicazione delle nuove disposizioni in materia di società «di comodo», l’Agenzia delle Entrate (circolari n. 5/E e n. 14/E del 2007) ha ritenuto che il diniego, espresso o implicito (silenzio-rifiuto) non possa essere impugnato di per sé, ma solamente come «atto presupposto» nell’impugnativa del successivo atto impositivo emesso dall’ufficio accertatore.

La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 7/E del 3.3.2009 ha riaffermato la natura non provvedimentale delle risposte ad interpello, che ne esclude l’impugnabilità, nel presupposto che « … la risposta all’interpello manca dei caratteri dell’autoritarietà e dell’esecutorietà, propri dei provvedimenti amministrativi», nonché dell’esecutività, in quanto

« … la risposta all’interpello non produce nei confronti del richiedente effetti diretti ed immediati», limitandosi a « … rendere nota preventivamente al contribuente la posizione dell’Agenzia in ordine all’interpretazione ovvero all’ambito di applicazione di una norma tributaria (…)».

Tale tesi è supportata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 191 del 14.6.2007, oltre che dalla giurisprudenza della Suprema Corte che ha escluso, in generale, la possibilità di impugnare circolari e risoluzioni (Cass. n. 21154 del 6.8.2008; Cass. n. 10488 del 23.4.2008).

La più recente circolare n. 32/E del 14.6.2010 (paragrafo 8) puntualizza che, con specifico riferimento alle istanze di interpello disapplicativo della disciplina delle società non operative, il ricorso avverso l’atto impositivo successivamente emanato dall’ufficio non deve ritenersi inammissibile in assenza della previa presentazione dell’istanza (superando un orientamento precedentemente manifestato).

Per quanto invece attiene all’impugnabilità degli interpelli, la circolare riafferma che

«la risposta resa in sede di interpello non è un atto impugnabile in quanto, stante la natura di parere, al quale il contribuente può non adeguarsi, non è in alcun modo lesivo della posizione del contribuente; tale soluzione è stata recentemente confermata anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (decisione 26 gennaio 2009, n. 414) secondo cui la disciplina vigente, che non contempla le risposte all’interpello tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario, “in nulla pregiudica il diritto” del contribuente “di impugnare, tempestivamente ed a tempo debito, gli eventuali atti rientranti nella previsione dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 nei quali dovesse farsi applicazione delle disposizioni antielusive il cui esonero è stato negato”, appunto, attraverso la risposta all’interpello».

«Tale conclusione, come si desume chiaramente anche dalla richiamata pronuncia, resta valida non solo nei casi degli interpelli ordinari, ma anche nei casi degli altri interpelli (nella specie, all’interpello obbligatorio di cui all’art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973 al quale si riferisce la citata decisione)».

 

Ciò evidenziato, occorre osservare che, se al diniego di disapplicazione (nell’ambito della procedura ex ottavo comma dell’art. 37-bis) facesse seguito non un atto impositivo in senso proprio, bensì una comunicazione di irregolarità seguita da una cartella esattoriale, avverso quest’ultima dovrebbe ritenersi ammesso il ricorso «nel merito» (cioè non solamente per vizi propri della cartella), ai sensi dell’ultimo periodo dell’art. 19, terzo comma, del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546.

Gli interpelli obbligatori

La circolare in esame qualifica determinati interpelli come «obbligatori», e nel fare ciò compie un passo deciso nella direzione dell’inserimento della procedura di ruling all’interno del rapporto tributario, come un «preludio» – non incidentale, ma necessaria – al procedimento di accertamento: ciò nondimeno, la risposta mantiene però la propria natura di parere, non pregiudicando per il contribuente-istante l’eventuale comportamento difforme.

Insomma: se il contribuente ritiene ad esempio di poter considerare fiscalmente neutrale una determinata operazione, che l’amministrazione ritenesse invece concorrente alla base imponibile, egli potrebbe comunque evitare di inserire in dichiarazione l’indicazione del relativo valore, e tale situazione non dovrebbe poter costituire «fonte d’innesco» per l’attività di controllo.

Tale aspetto è tuttavia assai delicato, perché:

  • la domanda che è oggetto dell’interpello viene rivolta allo stesso Ente che presiede alle attività di controllo e accertamento;
  • in presenza di una risposta positiva all’interpello, tale Ente ha la facoltà  di controllare che il contribuente si sia effettivamente comportato in conformità rispetto alla risposta resa (e che abbia previamente fornito una corretta rappresentazione della fattispecie);
  • in presenza di una risposta negativa,  gli organismi  di  controllo non trovano ostacoli rispetto alla possibilità di contestare il comportamento assunto come fiscalmente scorretto (se non illecito).

A tale riguardo, occorrerebbe comprendere se, ai fini della sanzionabilità dell’eventuale illecito riscontrato, la previa presentazione di interpello possa essere intesa come sufficiente a manifestare la buona fede del contribuente- istante (il quale aveva certo la facoltà di non «scoprire le carte» di fronte all’amministrazione, ma ciò nonostante ha ritenuto di stimolarne la risposta affrontando il rischio di un parere negativo).

Ritornando al discorso principale, esplicitato nella circolare, può evidenziarsi che gli interpelli ritenuti obbligatori sono quelli:

  • finalizzati all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»;
  • resi  necessarii  dall’esigenza    «di    consentire    all’Amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive».

Le tipologie di ruling menzionate nella circolare sono costituite dalle istanze relative alle CFC2, da quelle riferite alla disapplicazione specifica di norme antielusive (art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/19733) e da quelle riguardanti la disapplicazione della normativa speciale in materia di società non operative (che in realtà rappresentano una «sottospecie» delle istanze disapplicative).

Riguardo a queste ultime (con considerazioni che potrebbero ritenersi applicabili anche alle altre istanze disapplicative, ad esempio in materia di riportabilità delle perdite nell’ambito di fusioni e scissioni4), l’Agenzia supera il precedente orientamento espresso relativamente alla possibilità di fornire le «controprove» richieste anche in sede contenziosa.

In definitiva, quindi, anche se l’interpello – comunque obbligatorio – è negativo, e a esso segue l’attività di accertamento dell’ufficio, il contribuente ha la facoltà di produrre le dimostrazioni richieste avanti la CTP.

 

Leggi anche: Guida pratica all’interpello: interpelli antielusivi, consulenza generale, CFC

 

A cura di Fabio Carrirolo

11 novembre 2011

 

NOTE

1 Le ragioni e le conseguenze della soppressione del Comitato consultivo «antielusivo» sono state esplicitate nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 40/E del 27.6.2007. È in tale pronuncia rammentato che il D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4.8.2006, n. 248, ha previsto, all’art. 29, che, per realizzare la finalità di contenimento della spesa sostenuta dalle amministrazioni pubbliche per organi collegiali ed altri organismi operanti nelle predette amministrazioni, si doveva procedere al «… riordino degli organismi, anche mediante soppressione …».

2 Come è noto, la disciplina CFC prevede la tassazione separata in Italia, in capo al soggetto partecipante, dei redditi conseguiti dalle società controllate e collegate estere fiscalmente residenti in regimi fiscalmente privilegiati e/o non collaborativi; tale regime può essere disapplicato subordinatamente alla presentazione di un’istanza all’Agenzia delle Entrate.

3 In tale ambito, occorre dimostrare le circostanze oggettive che nel periodo di imposta di riferimento hanno reso impossibile la produzione dei risultati economici minimi indicati dal c.d. test di operatività; in difetto, il reddito viene determinato sulla base di coefficienti percentuali fissi applicati ai valori dei beni posseduti dalla società.

4 Si rammenta che la compensazione intersoggettiva delle perdite nell’ambito di tali operazioni straordinarie può essere riconosciuta subordinatamente alla verifica del rispetto di due limiti: patrimonio netto rettificato (la perdita è resa utilizzabile nel limite di tale valore) e – congiuntamente

– vitalità dell’impresa, con riferimento al risultato economico e al costo del lavoro. Se tali limiti non sono rispettati, la deducibilità della perdita può essere riconosciuta dall’Agenzia delle Entrate tramite la procedura di disapplicazione.

 

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