Il principio di inerenza e di congruità dei componenti di reddito | Parte 3

Terminiamo l’analisi sul principio di inerenza a livello fiscale con particolare interesse alla deducibilità degli interessi passivi

Se non lo hai già fatto, leggi le parti 1 e 2 del nostro approfondimento sul principio di inerenza.

 

L’indeducibilità delle sanzioni

La Cassazione ha ribadito, con la sentenza n. 5050 del 3 marzo 2010, l’indeducibilità dal reddito d’impresa delle sanzioni antitrust, consolidando il prevalente filone giurisprudenziale che nega la deduzione di tali componenti in quanto trattasi di sanzioni aventi natura punitiva- afflittiva e non risarcitoria.

Sono stati, pertanto, confermati la sentenza della Cassazione n. 7071 del 2000 e il parere del Consiglio di Stato secondo il quale la pena pecuniaria per l’illecito concorrenziale non ha natura di misura patrimoniale civilistica, bensì di sanzione amministrativa con connotati punitivi.

Se la sanzione avesse natura risarcitoria essa dovrebbe essere commisurata al danno causato dall’attività anticoncorrenziale al fine di ripristinare l’equilibrio economico violato, cosa che, in realtà, non è prevista (sent. 20 marzo 2001, n. 1671).

L’ultima pronuncia della Suprema Corte “conforta” significativamente l’orientamento dell’amministrazione finanziaria secondo cui le sanzioni pecuniarie irrogate dalla UE o da altri organismi non sono deducibili in quanto trattasi di oneri non inerenti all’attività d’impresa.

La sanzione irrogata è, infatti, una conseguenza del comportamento illecito tenuto dal contribuente (C.M. 17 n. 98/E/2000) e svolge una funzione repressiva e preventiva che risulterebbe svilita qualora fosse riconosciuta la sua deducibilità nella determinazione del reddito d’impresa, analogamente a quanto accade per altre sanzioni riferibili all’impresa, fra cui le sanzioni irrogate dalla Consob, le sanzioni per danno ambientale, ecc (ris. min. n. 89/E/2001).

In dottrina, l’orientamento è diametralmente opposto.

Assonime, nella circolare n. 39 del 2000, ha affermato che sembra difficile negare che le sanzioni pecuniarie irrogate dalle autorità UE o dalle autorità italiane in materia di concorrenza sleale presentino comunque un collegamento con la gestione dell’azienda, seppur dovendosi valutare caso per caso l’inerenza delle stesse con l’esercizio dell’attività d’impresa e, più specificamente, con la produzione dell’utile.

Sulla stessa linea, la Norma di comportamento n. 138 dell’ ADC Milano, secondo la quale le sanzioni antitrust sono deducibili in quanto i comportamenti che costituiscono infrazioni si manifestano nell’esercizio dell’attività e normalmente comportano maggiori ricavi rispetto a quelli conseguibili in assenza del comportamento lesivo.

In definitiva, per la dottrina prevalente la deducibilità delle sanzioni antitrust va valutata esclusivamente sulla base dei criteri ordinari del reddito d’impresa, primo fra tutti quello dell’inerenza. Tesi che risulta rafforzata laddove si osservi che, ex lege, è negata la deduzione degli oneri legati agli illeciti penali (art. 14, comma 4-bis, legge n. 289/2002), derivandone – con lettura a contrario – che per gli illeciti civili e amministrativi la deducibilità dovrebbe essere garantita.

La recente pronuncia della Cassazione – a supporto della indeducibilità – reca, tra le altre, tre affermazioni:

  1. la sanzione in questione non deriva da un’attività connessa al corretto esercizio dell’impresa e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo;
  2. laddove la sanzione fosse deducibile la ratio punitiva della penalità si trasformerebbe in un “premio” per l’impresa;
  3. è negata la natura di sopravvenienza passiva della sanzione irrogata .

 

Le tre affermazioni si prestano a qualche considerazione. In riferimento alla prima, la capacità di un onere di concorrere alla determinazione del reddito dovrebbe derivare dalla connessione dell’atto da cui deriva all’esercizio dell’impresa, e non al corretto esercizio dell’impresa stessa.

I giudizi di valore di natura etico/morale non dovrebbero interferire con la determinazione del reddito d’impresa.

In relazione, invece, al “premio” per l’impresa che deriverebbe dalla deducibilità della sanzione, è evidente che il carico tributario risulterebbe mitigato ma è altrettanto palese che il risparmio d’imposta è fortemente inferiore alla sanzione medesima; resterebbe, quindi, immutata la ratio punitiva della sanzione.

Quanto alla natura di sopravvenienza passiva della sanzione, da un lato la stessa può essere affermata sostenendo che trattasi di un onere a fronte di ricavi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi (art. 101 del tuir); dall’altro lato si può, invece, negare tale natura in considerazione della “autonomia” dell’onere in questione, che è commisurato ai ricavi ma non incide sui presupposti degli stessi, se non in via indiretta.

 

 

Sul tema leggi anche: 

Sanzioni e risarcimento danni: deducibili dal reddito?

Sulla deducibilità delle sanzioni dal reddito d’impresa

 

 

L’inerenza “qualitativa” e “quantitativa” degli interessi passivi

In base all’art. 61 del TUIR è richiesta, per i soggetti IRPEF, la verifica del requisito dell’inerenza degli interessi passivi; un’analoga precisazione non è stata, invece, inserita nel successivo art. 96 per i soggetti IRES1.

sentenza corte di cassazioneLa Corte di cassazione2 ha in passato affermato che, a differenza di quanto si verificava in vigenza del D.P.R. n. 597 del 1973, in base al quale la deducibilità degli interessi era subordinata alla verifica della loro inerenza, dopo l’entrata in vigore del T.U.I.R. è stato riconosciuto, nella disposizione attualmente contenuta nell’art. 109, comma 5, un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto agli altri componenti negativi, nel senso che il diritto alla loro deducibilità, entro i limiti previsti, sarebbe riconosciuto sempre,  senza alcun giudizio sulla inerenza.

Resta, pertanto,

“precluso, tanto all’imprenditore quanto all’Amministrazione finanziaria, dimostrare che gli interesasi passivi afferiscono a finanziamenti contratti per la produzione di specifici ricavi, dovendo invece essere correlati all’intera attività dell’impresa esercitata.

Anche gli interessi passivi sono oneri generati dalla funzione finanziaria che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire e dunque non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo”3.

 

La stessa Corte4 ha, peraltro, affermato che la disposizione da ultimo richiamata non comporterebbe una generale deducibilità degli interessi passivi, dovendosi sempre dimostrare

“un ‘collegamento’ tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile che non può rivolgersi ad un reddito ‘ontologicamente’ diverso perché estraneo alla stessa attività di impresa”.

In applicazione di questo principio la Cassazione ha ritenuto che, anche se gli interessi passivi non possono essere riferiti ad una particolare gestione aziendale o ad un particolare costo, il venir meno dell’esercizio dell’attività imprenditoriale da parte di una società commerciale che aveva dato in affitto la sua unica azienda generi la mancanza del nesso di inerenza tra i detti interessi e l’attività d’impresa ormai cessata5.

Si è già rilevato in prece4denza che in dottrina è stato correttamente ritenuto6 che il principio di inerenza non avrebbe una espressa disciplina nel T.U.I.R. ma discenderebbe direttamente dal principio costituzionale di capacità contributiva e che la disposizione dell’art. 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti.

L’inerenza è, quindi, un “concetto pregiuridico, implicito nella stessa nozione di reddito, che per dirsi tale deve essere calcolato al netto dei costi necessari o utili alla sua produzione”7.


L’Agenzia delle entrate, nella risoluzione n. 178/E del 9 novembre 2001 (riguardante gli interessi relativi ad un finanziamento erogato per differire il pagamento di sanzioni irrogate dalla Commissione europea), ha, da parte sua, affermato che gli interessi passivi sono deducibili “indipendentemente dalla loro inerenza ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” e che,

“considerando l’estrema fungibilità  del denaro, l’individuazione di un nesso diretto tra un’operazione di finanziamento e l’utilizzo delle risorse finanziarie generate appare arbitraria”.

Si ritiene che, nonostante le apparenze, tale pronuncia non risulti in contrasto con la menzionata impostazione della dottrina, essendo nella stessa semplicemente sostenuto che gli interessi passivi “possono essere assimilati ad un costo generale dell’impresa, cioè ad un costo che non può essere specificamente riferito ad una particolare attività aziendale o ritenuto accessorio ad un particolare onere”, senza giungere ad affermare la irrilevanza del principio di inerenza.

La stessa Agenzia8 ha affermato, con riguardo alla esenzione dalle imposte sugli interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea disciplinata dall’art. 26-quater del D.P.R. n. 600 del 1973, che gli interessi devono essere inerenti all’attività della stabile organizzazione.

 

Tale precisazione era stata, però, formulata in quanto

“la definizione fornita dalla direttiva9 fa riferimento alla sussistenza del requisito dell’effettiva connessione degli interessi e dei canoni corrisposti con l’attività della stabile organizzazione, e non ad un criterio di effettiva deduzione dei sopradetti pagamenti.

Quanto specificato nella direttiva, infatti, mira ad individuare con certezza quando i redditi pagati siano realmente inerenti all’attività svolta dalla stabile organizzazione e, di conseguenza, imputabili all’oggetto economico della stabile organizzazione stessa e non a quello della casa madre”.

 

Si tratta, quindi, di un’affermazione resa in riferimento ad una fattispecie normativa particolare, che richiede, al fine del riconoscimento dell’esenzione, l’esatta individuazione del beneficiario effettivo degli interessi.

Appare, invece, importante la precisazione fornita dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 16/E del 14 aprile 2009, riguardante la parziale deduzione dell’IRAP dalla base imponibile delle imposte sui redditi, secondo la quale tale deduzione

“prescinde, dunque, dall’ammontare complessivamente sostenuto per oneri del personale o interessi passivi. Resta inteso che il sostenimento dei costi relativi al personale dipendente o agli interessi passivi deve rispondere a criteri di inerenza, ragionevolezza ed economicità e risultare coerente con gli obiettivi di politica aziendale perseguiti.

In relazione, in particolare, ad operazioni che abbiano dato luogo ad interessi passivi saranno attivati opportuni controlli al fine di verificarne le valide ragioni economiche e l’inerenza all’attività esercitata.

Inoltre, per i soggetti obbligati alla redazione del bilancio di esercizio i medesimi costi devono essere individuati secondo corretti principi contabili”.

 

Tale precisazione, nel richiamare i criteri di “inerenza, ragionevolezza ed economicità”, appare ricollegarsi all’orientamento della Corte di cassazione e dell’Amministrazione finanziaria secondo il quale quest’ultima può sindacare la antieconomicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, valutando la congruità dei costi e dei ricavi esposti in  bilancio e nelle dichiarazioni rispetto ai prezzi di mercato, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere.

Risulta, inoltre, importante l’affermazione secondo la quale occorre verificare le valide ragioni economiche e “l’inerenza” degli interessi passivi, riferita genericamente a tutte le imprese che possono avvalersi della parziale deduzione dell’IRAP.

L’Agenzia sembra aver in tal modo aderito alla tesi interpretativa secondo la quale la disposizione dell’art. 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti, mentre il principio di inerenza sarebbe “immanente” nel sistema e, come tale, troverebbe applicazione agli interessi passivi sostenuti sia dalle imprese soggette all’IRPEF che da quelle soggette all’IRES, al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento.

Il requisito dell’inerenza dovrebbe, quindi, essere rispettato anche nei periodi anteriori al 2008, indipendentemente dalla precisazione da ultimo inserita nell’art. 61.

Va, però, tenuto presente che, come già evidenziato, nella risposta all’interrogazione parlamentare del 30 settembre 2010 è stato affermato che la deducibilità dei compensi agli amministratori presuppone la loro inerenza all’attività d’impresa “secondo il principio di cui all’art. 109, comma 5, del TUIR”.

 

 

L’inerenza per i soggetti IRPEF

Nella Circolare n. 19/E del 21 aprile 2009 l’Agenzia ha, però, trattato esplicitamente il tema dell’inerenza degli interessi passivi soltanto con riguardo all’art. 61 del T.U.I.R.10 (applicabile ai soggetti IRPEF e agli enti non commerciali), affermando che: “rispetto alla previgente formulazione dell’art. 96”, l’art. 61 puntualizza il proprio campo di applicazione, “confermando” che nello stesso rientrano gli interessi passivi “inerenti” l’esercizio dell’attività d’impresa.

Di conseguenza,

“in via preliminare, rispetto alla determinazione del pro rata di deducibilità, occorre escludere gli interessi passivi che non afferiscono all’esercizio dell’impresa, in quanto gli stessi non entrano nel citato rapporto e sono del tutto indeducibili”.

L’Agenzia, utilizzando il termine “confermando”, ha, quindi, affermato la natura interpretativa della precisazione normativa riguardante il requisito dell’inerenza degli interessi passivi.

Tale affermazione appare giustificata dalla considerazione che appare difficilmente sostenibile che sia consentita la deduzione di interessi relativi a finanziamenti non finalizzati allo svolgimento di attività inerenti all’impresa ma connessi a esigenze personali o familiari dell’imprenditore, dei collaboratori dell’impresa familiare, ecc.

E’ stata, peraltro, segnalata11 la difficoltà di stabilire un’univoca corrispondenza tra le fonti di finanziamento, da cui promanano gli interessi passivi, ed uno o più specifici impieghi.

Ciò perché tutte le passività e le voci del patrimonio netto finanziano  indistintamente il complesso delle attività patrimoniali, “senza che vi sia la possibilità di stabilire delle specifiche (e biunivoche) relazioni tra fonti e impieghi (principio di unità del bilancio)….

Sarebbe infatti illusorio pensare di poter stabilire un nesso genetico, valido una volta per tutte, tra uno specifico finanziamento produttivo di interessi ed un suo utilizzo per fini estranei all’attività. Si pensi all’esempio di prima, di acquisto a mutuo di un’abitazione da adibire a residenza personale del socio amministratore.

In un caso del genere la contestualità tra l’operazione di reperimento e quella di impiego della liquidità farebbe concludere per la non inerenza del finanziamento e per l’indeducibilità, su basi analitiche, di quegli interessi che proprio a quel finanziamento si riferiscono.

Supponiamo però che l’impresa utilizzi, per acquistare l’appartamento del socio-amministratore, la liquidità generata dall’ordinaria gestione aziendale.

Qui in apparenza non vi sarebbe un problema di indeducibilità degli interessi passivi, non avendo l’impresa acceso alcun finanziamento per acquistare la casa all’amministratore socio.

E tuttavia, si rifletta sul fatto che la società avrebbe potuto utilizzare la liquidità prodotta grazie all’attività d’impresa per estinguere i debiti preesistenti, produttivi di interessi, e accesi per finanziare l’attività produttiva, anziché consumarla per acquistare l’appartamento di cui sopra.

Oppure si ipotizzi che la società si trovi costretta ad indebitarsi per far fronte alle esigenze

della sua attività produttiva, successivamente all’acquisto dell’appartamento effettuato con la liquidità di cui disponeva, proprio perché tale liquidità è stata sottratta al suo “attivo circolante” e impiegata per fini extraimprenditoriali.

Le situazioni appena descritte determinano effetti paragonabili a quelli che si verificherebbero a seguito dell’accensione di un mutuo contestuale all’acquisto di un bene estraneo all’attività imprenditoriale, destinato soddisfare bisogni e consumi personali dell’imprenditore, dei soci, degli amministratori o di loro familiari.

In tutti i casi rappresentati l’acquisto di un bene estraneo all’attività ha prodotto un aumento o una mancata diminuzione degli interessi passivi sul preesistente indebitamento.

Tale effetto non è però, a ben vedere, necessariamente riferibile all’accensione di uno specifico finanziamento”.

E’ stato, pertanto, ritenuto che se si vuole riferire il giudizio di inerenza agli interessi passivi,

“non lo si può fare su un piano analitico, pretendendo di individuare il debito non inerente e i connessi interessi passivi; occorre invece adottare un criterio forfetario, che metta in relazione la massa dei finanziamenti agli impieghi non inerenti….

A rigore occorrerebbe calcolare il “costo medio” per interessi sostenuto dall’impresa per tutte le fonti di finanziamento presenti a bilancio; in un secondo tempo tale costo medio dovrebbe essere applicato ad una certa quota dell’indebitamento, e precisamente a quell’ammontare dell’esposizione debitoria corrispondente all’ammontare degli impieghi, presenti in bilancio, che soddisfano finalità extraimprenditoriali”.

 

 

L’inerenza per i soggetti IRES

In merito all’applicabilità del detto principio di inerenza degli interessi passivi anche ai soggetti IRES è stato ritenuto12 che, comunque, lo stesso non possa riguardare le sole imprese soggette all’IRPEF, ma che vada adottata un’interpretazione logico-sistematica della nuova normativa, al fine di evitare una evidente ed ingiustificata disparità di trattamento13.

Tale impostazione non è stata, però, condivisa da chi14 ha ritenuto, invece, che dovrebbe escludersi l’ipotesi che il mancato richiamo al detto requisito nell’art. 96 del T.U.I.R. sia dovuto a una mera dimenticanza del legislatore e che la lacuna sia colmabile in via sistematica, apparendo

“ragionevole invece ipotizzare che il mancato riferimento all’inerenza sia frutto di una precisa scelta legislativa pienamente coerente con il nuovo meccanismo di individuazione e determinazione degli interessi passivi sostenuti da tali soggetti”.

 

Il requisito dell’inerenza sarebbe stato volutamente non richiamato dall’art. 96

“in quanto non strettamente necessario: in questo senso, lo stesso meccanismo previsto dalla norma sarebbe indirettamente idoneo a garantire in via presuntiva anche il controllo dell’inerenza.

A ben guardare, infatti, la nuova regola altro non esprimerebbe se non una presunzione assoluta, in base alla quale la semplice esistenza di un risultato operativo lordo renderebbe automaticamente deducibile in percentuale un determinato ammontare di interessi passivi di competenza.

Ed anche la scelta dei componenti positivi che concorrono a formare il parametro economico rilevante ai fini della deduzione assume particolare significato.

Così, ad esempio, la scelta di non includere in tale parametro i dividendi non risponde, per così dire, a ragioni discriminanti, ma proprio all’obiettivo di individuare nel reddito della gestione industriale o commerciale la sola grandezza idonea ad assorbire quote di interessi passivi.

In altri termini, le condizioni di inerenza e, al contempo, di congruità degli interessi passivi deducibili dovrebbero ritenersi implicitamente soddisfatte proprio perché il meccanismo è in grado (idealmente) di collegare direttamente tali oneri al reddito prodotto.

Proprio in tale ottica, del resto, si comprende il motivo per cui il nuovo meccanismo rinunci anche a verificare, come faceva invece il precedente pro rata reddituale, se i componenti positivi concorrano o meno a formare il reddito imponibile”.

 

Si ricorda, peraltro, che nella Circolare n. 36/E del 16 luglio 200915 l’Agenzia delle Entrate, affrontando la problematica dell’applicabilità del principio dell’inerenza in sede di determinazione della base imponibile IRAP, ha affermato che tale principio rileva, già ai fini civilistici, come condizione per imputare a conto economico un determinato componente negativo di reddito e che i componenti negativi correttamente imputati a conto economico in applicazione dei principi civilistici “sono normalmente connotati dal generale requisito di inerenza”, che è, tuttavia, “sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo”.

Nella successiva Circolare n. 39/E del 22 luglio 2009 l’Agenzia ha ulteriormente precisato che, in base ai principi contabili, un costo che non attenga all’attività d’impresa ma alla sfera personale degli amministratori o dei soci non può essere dedotto solo perché civilisticamente è stato imputato al conto economico.

In questi casi, evidentemente, l’Amministrazione finanziaria ha il potere di contestare al contribuente l’assenza di inerenza del costo in questione.

Si può, di conseguenza, ritenere che, anche in assenza di un’esplicita previsione normativa ai fini dell’IRES, gli uffici delle entrate possano contestare la non inerenza degli interessi passivi sulla base della corretta applicazione dei principi contabili, richiesta dal principio di derivazione sancito dall’art. 83 del T.U.I.R.

L’Assonime ha, peraltro, affermato, anche se con riguardo ad altre fattispecie, che:

“i principi contabili consentono, anzi impongono di rilevare nel conto economico molteplici costi e componenti negativi che, a stretto rigore, non presenterebbero i requisiti dell’inerenza secondo le regole fiscali del T.U.I.R. e della prassi amministrativa sviluppatasi in materia. I due sistemi di regole, infatti, non coincidono né per finalità, né per ambiti applicativi”16.

La detta Associazione, pur asserendo che non è agevole individuare, sul piano della corretta redazione del bilancio, l’esistenza di un autonomo principio di inerenza rispetto alle regole fiscali e delimitarne i contorni applicativi ha, comunque, convenuto con l’Agenzia che le attribuzioni patrimoniali all’imprenditore o ai soci costituiscono vicende  estranee all’esercizio dell’attività d’impresa, che probabilmente dovrebbero essere rappresentate, sul piano contabile, nei conti patrimoniali.

Nella Circolare n. 19/E l’Agenzia ha, peraltro, incidentalmente affermato17 che i soggetti esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 96 del T.U.I.R. possono dedurre integralmente gli interessi passivi, “sempreché inerenti all’attività d’impresa”.

E’ stato, peraltro, evidenziato18 che gli interessi passivi non sono, di per sé, inerenti o meno all’attività d’impresa ma occorre verificare se il finanziamento che gli stessi remunerano

“è finalizzato ad un impiego inerente ossia coerente con il programma imprenditoriale complessivamente considerato.

Cosicché, ad esempio, non può ritenersi inerente un finanziamento finalizzato all’acquisto della residenza personale del socio- amministratore ovvero il finanziamento utilizzato per finanziare gratuitamente i soci…

All’opposto, deve, invece, ritenersi inerente il finanziamento contratto dalla società per distribuire dividendi o riserve (di capitali o di utili) ai soci, trattandosi di decisione relativa alla struttura finanziaria dell’impresa, al rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, che non dovrebbe poter essere sindacabile dall’Amministrazione finanziaria, la stessa attenendo a logiche di investimento dei soci”19.

 

A quest’ultimo riguardo si segnala, tuttavia, che la Commissione tributaria provinciale di Udine, con la sentenza n. 187 del 6 marzo 2008, ha affermato che gli interessi relativi ad un finanziamento contratto per distribuire la riserva sovrapprezzo azioni ai soci sono indeducibili per difetto di inerenza, “mancando ogni collegamento con l’attività d’impresa”.

La Commissione tributaria regionale della Toscana, nella sentenza n. 73 del 25 ottobre 2005, ha, invece, negato la deducibilità degli interessi passivi relativi ad un finanziamento contratto per distribuire dividendi al socio finanziatore per mancanza di causa nel contratto di finanziamento.

E’ stato, altresì, ritenuto20 che deve ritenersi inerente il finanziamento contratto dal veicolo italiano (holding) e utilizzato da un gruppo multinazionale al fine di acquistare e detenere le partecipazioni di una società operativa in Italia, sussistendo la coerenza con il complessivo programma imprenditoriale,

“a prescindere dalla circostanza che gli interessi corrisposti dal veicolo concorrano a formare l’imponibile del soggetto finanziatore”.

In considerazione dei dubbi interpretativi sopra illustrati e della stessa giurisprudenza non costante della Corte di cassazione si ritiene che sarebbe stato probabilmente più opportuno che il legislatore fosse intervenuto con una apposita previsione normativa.

 

 

Ti possono interessare anche: 
Principio di inerenza: la correlazione costi – ricavi
Principio di inerenza e presunzione di comportamenti antieconomici (parte I)
Il principio di inerenza va sempre rispettato

 

 

20 dicembre 2010

Gianfranco Ferranti

 

NOTE

1 Si veda G. Ferranti, “Modifiche alla disciplina degli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 46/2007, pag. 3759.

2 Con le sentenze n. 14702 del 21 novembre 2001, n. 2114 del 2 febbraio 2005, n. 22034 del 13 ottobre 2006, n. 12990 del 4 giugno 2007, n. 1465 del 21 gennaio 2009, n. 2440 del 3 febbraio 2010 e n. 12246 del 19 maggio 2010.

3  Così la citata sentenza n. 1465 del 2009.

4 Nella sentenza n. 7292 dell’11 gennaio 2006.

5  Si veda, in senso critico, D. Stevanato, “Mutamento dell’attività esercitata e deducibilità degli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 23/2006, pag. 1825.

6 Cfr., al riguardo: R. Lupi, Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività, in Rass. Trib., n. 6/2004, pag. 1935; G. Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2008, pag. 371; M. Beghin, Prestiti gratuiti ai soci e disciplina fiscale degli oneri finanziari sopportati dalla società: considerazioni sul concetto di inerenza e sulla regola di deducibilità (pro rata) degli interessi passivi, in Riv. Dir. Trib., 1998, II, pag. 153; A. Panizzolo, Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, pag. 676; C. Attardi, Reddito d’impresa. Interessi passivi ed inerenza. Note a margine del disegno di Legge Finanziaria 2008, in Il Fisco, n. 40/2007, pag. 5828.

7 Così D. Stevanato, Finanziamenti all’impresa e impieghi “non inerenti”: spunti su interessi passivi e giudizio di inerenza, in Dialoghi tributari, n. 6/2008, pag. 19; id. “Inerenza “forfetaria” per gli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 21/2010, pag. 1678.

8 Nella Circolare n. 47/E del 2 novembre 2005.

9 Si tratta della Direttiva 2003/49/CE, concernente il regime fiscale applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi, recepita ad opera del D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 143.

10 Nel par. 3 della Circolare n. 19/E del 2009.

11 Da D. Stevanato, “Inerenza “forfetaria” per gli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 21/2010, pag. 1678.

12 Da G. Ferranti, Limite alla deduzione degli interessi passivi nella Finanziaria 2008, in Dialoghi tributari, n. 1/2008, pag. 83.

13 Anche R. Lupi, Limiti alla deduzione degli interessi e concetto generale di inerenza, in Corr. Trib., n. 10/2008, pag. 771, ritiene che: “i limiti alla deduzione degli interessi passivi per le società di capitali non legittimano automaticamente ogni operazione compatibile con tali limiti” e che: “sostenere che la deduzione degli interessi passivi per le società di capitali non è soggetta a valutazione di inerenza è un forzato formalismo, che difficilmente sarà accettato nel diritto vivente e che rischia di provocare equivoci”. Aderiscono a tale impostazione anche P. Lipardi e G. Stancati, La nuova disciplina di deducibilità degli interessi passivi. Profili applicativi e sindacato di inerenza, in Boll. Trib., n. 21/2008, pag. 1651. D. Stevanato, La norma sull’indeducibilità degli interessi passivi e la sua interpretazione in chiave antielusiva, cit., sostiene anch’egli che: “anche a legislazione invariata” sussistono margini per sostenere l’applicabilità del giudizio di inerenza in relazione agli interessi passivi, “avendo, però, cura di evitare la ricerca di un impossibile (o comunque evanescente) legame di tipo analitico tra la singola fonte di finanziamento ed uno specifico utilizzo non inerente delle risorse” e di accostarsi, invece, al tema con una logica forfetaria, cioè calcolando il costo medio dell’indebitamento e rendendo indeducibile la parte dello stesso astrattamente riferibile agli impieghi non inerenti. id. “Inerenza “forfetaria” per gli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 21/2010, pag. 1678, articolo nel quale sono stati prospettati concetti analoghi.

14 Si veda M. Zeppilli, Inquadramento sistematico della disciplina degli interessi passivi, in Corr. Trib., n. 21/2009, pag. 1672.

15 Par. 1.2.

16 Secondo l’Assonime “in linea di principio, nel conto economico trovano corretta rappresentazione tutti gli oneri che l’impresa sostiene, anche volontariamente, nell’attività gestionale, indipendentemente dal fatto che essi rispondano o meno al tradizionale concetto di inerenza fiscale, intesa come ‘inevitabilità’ della spesa”. Tra questi sarebbero compresi, ad esempio, i costi relativi all’IVA non detratta (derivanti da una tipica e legittima scelta gestionale), e gli oneri per sanzioni amministrative comminate all’impresa (diverse da quelle relative a violazioni di carattere tributario riguardanti l’IRAP e le imposte sui redditi, che non dovrebbero influenzarne la base imponibile per un criterio logico-sistematico di carattere generale), in relazione ai quali l’Amministrazione finanziaria ha ripetutamente negato l’inerenza ai fini delle imposte sui redditi.

17 Nel par. 2.1.

18 Da D. Stevanato, “Inerenza “forfetaria” per gli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 21/2010, pag. 1678, e da E. Della Valle, “Ma è proprio vero che gli interessi passivi si deducono a prescindere dall’inerenza?”, in GT Rivista di giurisprudenza tributaria n. 9/2010.

19 Così E. Della Valle, op. loc. ult. cit.

20 Sempre da E. Della Valle, op. loc. ult. cit.

Scarica il documento