Il principio di inerenza e di congruità dei componenti di reddito | Parte 1

Approfondiamo un argomento assai controverso: quando è possibile sindacare l’inerenza dei componenti reddituali negativi.

Il principio di inerenza “qualitativa” ai fini delle imposte sui redditi

In dottrina è stato correttamente ritenuto1 che il principio di inerenza non avrebbe una espressa disciplina nel TUIR ma discenderebbe direttamente dal principio costituzionale di capacità contributiva e che la disposizione dell’art. 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti.

L’inerenza è, quindi, un

“concetto pregiuridico, implicito nella stessa nozione di reddito, che per dirsi tale deve essere calcolato al netto dei costi necessari o utili alla sua produzione”2.

 

La Corte di cassazione3 ha, invece, affermato, con riferimento alla deducibilità degli interessi passivi in sede di determinazione del reddito d’impresa, che il principio dell’inerenza sarebbe sancito dall’art. 109, comma 5, del TUIR, in base al quale le spese e i componenti negativi

“diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

 

Peraltro, la stessa Corte4 ha affermato che la disposizione da ultimo richiamata non comporterebbe una generale deducibilità degli interessi passivi, dovendosi sempre dimostrare “un “collegamento” tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile che non può rivolgersi ad un reddito “ontologicamente” diverso perché estraneo alla stessa attività di impresa”.

Anche nella risposta fornita il 30 settembre 2010 ad un’interrogazione parlamentare in materia di deducibilità da parte della società dei compensi corrisposti agli amministratori5, l’Agenzia delle entrate ha, tra l’altro, affermato che la detta deducibilità presuppone la

“inerenza all’attività d’impresa secondo il principio di cui all’art. 109, comma 5, del TUIR, inerenza che va valutata caso per caso in relazione alla specifica fattispecie considerata”.

 

Al riguardo si ritiene, però, che la disposizione del detto art. 109, comma 5, del TUIR abbia esclusivamente la finalità di stabilire che, qualora concorrano a formare il reddito ricavi o altri proventi esenti, non sono deducibili i componenti negativi che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano i detti ricavi o proventi6.

Il principio di inerenza si fonda, invece, direttamente sul principio costituzionale della capacità contributiva e riguarda sia i componenti negativi che quelli positivi di reddito.

In considerazione dei dubbi interpretativi sopra illustrati e della stessa giurisprudenza non costante della Corte di cassazione appare opportuno che intervenga un chiarimento normativo al riguardo.

Secondo l’Amministrazione finanziaria7 il concetto di inerenza non è legato ai componenti positivi ma all’attività esercitata, nel senso che si rendono deducibili i costi che si riferiscono ad attività ed operazioni che concorrono a formare il reddito.

Sono, pertanto, deducibili, come affermato nella risoluzione n. 2/1053 del 12 novembre 1974, anche i costi sostenuti in proiezione futura e, comunque, legati ad attività dalle quali possono derivare compensi in tempi successivi. Tale orientamento è stato ribadito nelle risoluzioni n. 158/E del 28 ottobre 1998 e n.196/E del 16 maggio 2008.

 

Sull’argomento leggi anche: Concetto di inerenza qualitativa – i chiarimenti della Corte di Cassazione (2018)

 

 

Il principio di inerenza applicabile ai fini dell’IRAP

principio di inerenza e contestazione di comportamenti antieconomiciNel sistema vigente al 31 dicembre 2007, la base imponibile IRAP è stata determinata, secondo la relazione illustrativa che accompagna la legge Finanziaria 2008, come una sorta di “copia” di quella dell’IRES. Il nuovo sistema, invece, segna uno “sganciamento” del tributo regionale dall’imposta sul reddito.

Ciò è stato ottenuto eliminando dall’IRAP le variazioni fiscali e modificando la relativa base imponibile per avvicinarla maggiormente ai criteri adottati nella contabilità nazionale per il calcolo del valore della produzione e del valore aggiunto nei vari settori economici.

Tale opera di “sganciamento” dell’ IRAP dall’IRES avrebbe dovuto, sempre secondo la detta relazione illustrativa, oltre che semplificare le procedure di autoliquidazione e di accertamento del tributo, avere l’effetto di eliminare dai bilanci la rilevazione delle imposte differite IRAP.

Tuttavia, il riferimento al bilancio e ai principi contabili non avrà probabilmente come conseguenza l’eliminazione del contenzioso tra l’Amministrazione finanziaria e contribuenti, ma uno spostamento delle problematiche interpretative dalle norme fiscale a quelle attinenti la redazione del bilancio. Per quanto attiene alle imposte anticipate è da ritenere che le stesse si ridurranno in entità, ma è molto dubbio che possano effettivamente essere eliminate con riferimento all’ IRAP.

Tale riforma ha privato la disciplina dell’IRAP di alcuni principi fondamentali che regolano il reddito d’impresa, quale quello dell’inerenza.

Ci si è, quindi, chiesto se tale principio potesse comunque considerarsi “immanente” nella detta disciplina, analogamente a quanto ritenuto dalla migliore dottrina per quella del reddito d’impresa.

Nel D. Lgs. n. 446 del 1997 è soltanto inserita, nell’art. 5, comma 4, la previsione secondo la quale concorrono alla formazione della base imponibile i componenti positivi e negativi classificabili in voci del conto economico escluse dall’IRAP, se correlati a componenti rilevanti della base imponibile di periodi d’imposta precedenti o successivi.

Accanto a tale principio vi è, poi, quello della cosiddetta “correlazione inversa”, non più disciplinato normativamente ma ancora accolto dalle stesse istruzioni ai modelli di dichiarazione, secondo cui non vanno tassate (o dedotte) le insussistenze e le sopravvenienze attive (o passive) relative a componenti del conto economico di precedenti esercizi non rilevanti ai fini della base imponibile IRAP.

Si tratta, però, di una forma di “collegamento” tra le voci del conto economico che devono rilevare ai fini dell’IRAP, anche se collocate in diverse aree del bilancio, che non sembra in grado di sostituire il principio dell’inerenza.

Al riguardo l’Assonime8 aveva osservato che il tema era stato affrontato solo marginalmente dall’Agenzia nella circolare n. 27/E del 2009, laddove, a proposito della rilevanza delle spese per il personale deducibili, era stato fatto riferimento alle “spese funzionali all’attività di impresa”.

Una presa di posizione più netta emergeva, invece, dal chiarimento dell’Agenzia in tema di deducibilità dell’IVA non detratta per le prestazioni alberghiere e di ristorazione9, secondo il quale la rinuncia alla detrazione dell’IVA sulle spese per prestazioni alberghiere e di ristorazione10 sarebbe ostativa alla deduzione dell’imposta dal reddito,

 

“atteso che in tale ipotesi l’indetraibilità dell’IVA non deriverebbe da cause oggettive che precludono l’esercizio del relativo diritto bensì da una valutazione discrezionale del contribuente”.

 

Nella risoluzione n. 84/E del 2009 tale principio era stato esteso anche alla determinazione dell’imponibile IRAP.

 

L’Assonime, pur mostrandosi critica rispetto a tale posizione interpretativa, aveva osservato che

“se si accetta questa posizione per la fattispecie in esame, il criterio dell’inerenza diventa rilevante per l’IRAP anche in tutte le altre fattispecie di deduzioni di componenti negativi. D’altra parte, a quanto ci risulta, orientamenti in favore dell’applicabilità del concetto di inerenza delineato dal TUIR anche ai fini del nuovo regime dell’IRAP sono stati manifestati anche in ambienti vicini all’Amministrazione finanziaria”.

 

Sempre a parere della detta Associazione, questa posizione interpretativa destava perplessità, in quanto, pur avendo l’Agenzia adottato (come già visto) interpretazioni logico-sistematiche (condivisibili o meno) volte ad integrare il dato normativo delle nuove regole IRAP in quanto carente in alcuni punti, questa posizione in tema di inerenza

“appare molto discordante dalle indicazioni delle norme espresse.

L’articolo 5, comma 5, del decreto legislativo n. 446 fa, infatti, riferimento ai componenti del bilancio che risultano imputati al valore della produzione in base alla corretta applicazione dei principi contabili, e non c’è dubbio che in base a questi principi il concetto di riferibilità dei costi all’esercizio d’impresa – riferibilità che impone in particolare la rilevazione al conto economico dell’esercizio delle componenti della gestione ordinaria – non coincide con quello assunto nell’ambito del TUIR.

Così, ad esempio, nessuno dubita che le sanzioni connesse alle attività di gestione – quali, ad esempio, le sanzioni anti trust – costituiscano una componente di costo ordinaria da rilevare normalmente nella determinazione dei risultati dell’attività caratteristica dell’impresa, mentre, ai fini fiscali, la giurisprudenza e la prassi amministrativa (a torto o a ragione) dubitano che esse possano essere dedotte per difetto d’inerenza.

Analogamente, non c’è dubbio che le liberalità di uso corrente che l’impresa compie nella sua attività vadano rilevate nel conto economico tra i costi di gestione (solo le liberalità a carattere eccezionale sono decise dall’assemblea attraverso la destinazione di utili).

Se si dovesse anche per queste liberalità far riferimento alle norme del TUIR, allora si dovrebbero applicare non solo le disposizioni che distinguono quelle ammesse in deduzione da quelle escluse, ma anche tutte le disposizioni che stabiliscono dei limiti forfetari (quali, ad esempio, quelli previsti per le spese di rappresentanza).

E questo significherebbe sostanzialmente riproporre ai fini dell’IRAP la normativa del TUIR, aderendo dunque ad una impostazione esattamente contraria a quella espressa dal legislatore che ha introdotto il nuovo regime dell’IRAP”.

 

L’Agenzia delle entrate ha, peraltro, opportunamente rivisto la propria posizione con la circolare n. 25/E del 19 maggio 2010, nella quale ha affermato che le precedenti considerazioni possono subire

“un’eccezione qualora la scelta di non richiedere la fattura per le prestazioni alberghiere e di ristorazione si basi su valutazioni di convenienza economico-gestionale.

L’imprenditore e il professionista, infatti, possono decidere di non richiedere le fatture relative alle prestazioni alberghiere e di ristorazione – sempreché non costituiscano oggetto dell’attività propria dell’impresa – e, quindi, di non detrarre l’IVA assolta sulle stesse, nel caso in cui i costi da sostenere per eseguire gli adempimenti IVA connessi alle fatture siano superiori al vantaggio economico costituito dall’importo dell’IVA detraibile.

In tal caso, posto che la scelta dell’operatore si prospetta come la soluzione economicamente più vantaggiosa, si può riconoscere all’IVA non detratta per mancanza della fattura la natura di “costo inerente” all’attività esercitata e, pertanto, la deducibilità ai fini delle imposte sui redditi…

Pertanto, in mancanza delle fatture relative alle prestazioni alberghiere e di ristorazione, l’imprenditore e il professionista possono dedurre dal reddito – come elemento aggiuntivo del costo sostenuto per l’acquisto delle prestazioni medesime – l’IVA non detratta, sempreché la stessa presenti la natura di “costo inerente” all’attività nel senso anzidetto…

L’IVA non detratta relativa alle prestazioni di vitto e alloggio assume rilievo fiscale anche ai fini IRAP…Diversamente, non può costituire un costo inerente all’attività esercitata e, conseguentemente, non è deducibile dal reddito l’IVA documentata mediante fattura e rimasta a carico dell’impresa ovvero del professionista a causa del mancato esercizio del diritto alla detrazione”.

 

Il Comando generale della Guardia di finanza, nella circolare n. 1 del 200811 aveva, inoltre, affermato, in sede di istruzioni per l’attività di controllo, che resta ferma la necessità

“di riscontrare l’inerenza delle componenti di costo e degli altri oneri, deducibili secondo la specifica normativa in materia di IRAP, rispetto all’attività d’impresa o di lavoro autonomo in concreto esercitata”.

 

In realtà, pur aderendo alla tesi dell’applicabilità del principio di inerenza in quanto “immanente” anche nella disciplina dell’IRAP, non sarebbero state, comunque, applicabili le specifiche disposizioni che nell’ambito del reddito d’impresa “forfetizzano” l’inerenza (ad esempio per le spese relative agli autoveicoli, alla telefonia, alle aree su cui insistono i fabbricati strumentali ecc.).

Tale impostazione interpretativa avrebbe, però, comportato la necessità di dimostrare caso per caso la misura dell’inerenza dei singoli beni all’esercizio dell’attività rilevante ai fini dell’IRAP, con evidenti notevoli complicazioni per gli operatori interessati ed, ancora una volta, in evidente contrasto con le finalità di semplificazione che il legislatore si era proposto.

Per tali motivi i primi commentatori12 avevano ritenuto che, al di là dei casi di costi totalmente estranei all’attività (quali i prelevamenti o le destinazioni di beni ai soci o al titolare dell’impresa), si dovesse privilegiare il tenore letterale della norma, che prevede l’applicazione dei principi contabili e non di quelli che regolano la determinazione del reddito d’impresa.

Nella circolare n. 36/E del 16 luglio 200913 l’Agenzia delle entrate ha affrontato per la prima volta la problematica in esame, affermando che:

  • in linea generale “la rilevanza IRAP dei componenti positivi e negativi segue il principio di derivazione dalle voci rilevanti del conto economico, così che la ricorrenza del requisito di inerenza rileva – già ai fini civilistici – come condizione per imputare a conto economico un determinato componente negativo di reddito”;
  • i componenti negativi correttamente imputati a conto economico in applicazione dei principi civilistici “sono normalmente connotati dal generale requisito di inerenza al valore della produzione Irap”;
  • l’inerenza “è tuttavia sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo”.

 

Tali affermazioni si ritengono senz’altro condivisibili, laddove l’Agenzia ha ribadito il principio di derivazione dalle voci rilevanti ai fini dell’IRAP dal conto economico e la legittimità del sindacato del requisito dell’inerenza in sede di controllo.

Sulla base di tali chiarimenti non risultano applicabili ai fini dell’IRAP le norme del reddito d’impresa che “forfetizzano” l’inerenza nei casi di utilizzo “promiscuo” di beni (quali, ad esempio, gli autoveicoli e i telefoni) e quelle che limitano la deduzione di determinati costi (ad esempio quelli sostenuti per i dipendenti in trasferta o per gli immobili assegnati agli stessi).

L’Agenzia si è, però, posta anche il problema delle difficoltà insite nella verifica, caso per caso, della misura in cui i beni siano stati effettivamente utilizzati per le finalità imprenditoriali, che appaiono contrastare con la finalità di semplificazione che ha ispirato la riforma. Ha, pertanto, ulteriormente precisato che il sindacato di inerenza

“si pone in modo particolare con riferimento a determinati costi, per i quali il TUIR introduce presunzioni legali di parziale inerenza, ponendo limiti alla relativa deducibilità.

Per esigenze di semplificazione, l’inerenza dei medesimi componenti negativi può essere considerata senz’altro sussistente anche ai fini dell’IRAP, qualora vengano dedotti importi di ammontare non superiore a quelli determinati applicando le disposizioni previste per l’applicazione delle imposte sul reddito.

Si pensi, ad esempio, agli oneri di utilità sociale imputati, secondo corretti principi contabili, in una voce rilevante ai fini del tributo regionale.

Tali componenti di reddito potranno considerarsi senz’altro inerenti – e, dunque, deducibili dalla base imponibile IRAP – secondo le limitazioni contenute nell’art. 100 del TUIR.

Analoghe considerazioni valgono per le spese relative ad apparecchiature per servizi di comunicazione, per le spese di rappresentanza  e per le spese relative a taluni mezzi di trasporto a motore utilizzati promiscuamente nell’esercizio di imprese: tali componenti negativi di reddito, salvo diversa prova analitica dell’inerenza fornita dal contribuente, assumeranno rilevanza ai fini IRAP, quindi, nei limiti rispettivamente previsti dagli articoli 102, comma 9, 108, comma 2, e 164, comma 1,”

del TUIR.

 

Queste ultime precisazioni sono sembrate contraddire i principi precedentemente affermati, sia pure con l’intento di stabilire regole di accertamento14, finendo per dare l’impressione che le regole di determinazione dell’imponibile IRAP “siano ancora strettamente ancorate alle disposizioni contenute nel testo unico delle imposte sui redditi che costituisce la base di riferimento”15.

Anche il Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili16 aveva aspramente criticato le affermazioni dell’Agenzia, giungendo ad affermare che la circolare n. 36/E del 2009 dimostrerebbe che

“l’abuso del diritto in ambito tributario può anche consistere nell’interpretazione distorta delle norme di diritto positivo che disciplinano il sistema tributario, al fine di ottenere un indebito maggiore gettito erariale a danno dei contribuenti”.

 

Ciò in quanto sarebbe stata ripristinata “in modo surrettizio la parziale indeducibilità prevista dalle norme che in ambito IRES esplicano la funzione di presunzioni di parziale non inerenza” e l’ufficio potrebbe arrivare

“a riprendere senza tante discussioni i maggiori costi dedotti ai fini IRAP rispetto ai limiti previsti ai fini IRES, senza bisogno di provare alcunchè, perché l’onere di provare qualcosa è tutto del contribuente”.

 

E’ stato, altresì, contestato che il chiarimento è stato diramato

“a bilanci ormai chiusi e fondi imposte già accantonati, e in molti casi già versati”

e che avrebbe dovuto essere cambiata la circolare n. 36/E

“e non i bilanci o le dichiarazioni dei contribuenti”. Era stato, pertanto, auspicato che l’Agenzia provvedesse a “rimeditare i propri indirizzi operativi, così come altre volte avvenuto in passato”.

 

Tenendo, evidentemente, conto di tali osservazioni, l’Agenzia ha fornito ulteriori chiarimenti al riguardo nella circolare n. 39/E del 22 luglio 2009, nella quale è stato puntualizzato che:

  • con le affermazioni contenute nella precedente circolare n. 36/E “non si è inteso, né sarebbe stato possibile, reintrodurre il legame tra IRES e IRAP che è venuto meno a seguito dell’abrogazione dell’art. 11-bis del decreto IRAP”;
  • “il principio di inerenza che deve essere seguito ai fini dell’applicazione dell’IRAP è quello civilistico, desumibile dalla corretta applicazione dei principi contabili. Alla stregua di questi principi un costo che non attenga all’attività d’impresa ma alla sfera personale degli amministratori o dei soci non può essere dedotto solo perché civilisticamente è stato imputato al conto economico. In questi casi, evidentemente, l’Amministrazione finanziaria ha il potere di contestare al contribuente l’assenza di inerenza del costo in questione ai fini della determinazione del valore della produzione rilevante ai fini IRAP”;
  • nella circolare n. 36/E del 2009 si è voluto “individuare un’area di sicurezza all’interno della quale i contribuenti possono liberamente posizionarsi”, al fine di “limitare le controversie che potrebbero sorgere in sede di controllo” in merito all’applicazione dei principi civilistici e “tenendo conto delle esigenze di certezza e di semplificazione che debbono informare il sistema tributario”.
    Se il contribuente deduce importi di ammontare non superiore a quelli determinati applicando le disposizioni del TUIR “il requisito di inerenza può ritenersi sicuramente esistente”. In modo “soltanto esemplificativo” è stato fatto riferimento ai costi per i quali il TUIR ha introdotto presunzioni legali di parziale inerenza, “proprio al fine di evitare controversie sulla analitica determinazione dell’inerenza”;
  • la circolare n. 36/E non ha alterato in alcun modo il trattamento dei costi di produzione dedotti integralmente o in misura superiore, “per i quali l’Amministrazione non potrà opporre le forfetizzazioni del TUIR. Queste ultime, infatti, nel sistema dell’IRAP non hanno valore di presunzioni e non possono essere utilizzate dagli uffici per contestare l’inerenza dei costi dedotti”.

 

Le menzionate precisazioni sono state ritenute “una vera e propria marcia indietro”17 e anche il Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili si è dichiarato soddisfatto perché è stato eliminato

“il problema che si era creato in ordine alla supposta esistenza di automatismi accertativi e inversioni dell’onere della prova in capo al contribuente ripristinando dunque una interpretazione maggiormente aderente al dato normativo”18.

Si ritiene che, in realtà, l’Agenzia abbia semplicemente chiarito meglio il proprio pensiero, finalizzato ad adottare una linea di azione in certo qual modo analoga a quella a suo tempo seguita con riguardo ai rimborsi dell’IVA relativa agli autoveicoli.

Non è stata seguita la tesi interpretativa dell’“immanenza” del principio di inerenza nel sistema impositivo del tributo regionale, ma si ritiene che il principio civilistico di inerenza sia sostanzialmente coincidente con quello fiscale, fermo restando che le norme che forfetizzano l’inerenza ai fini delle imposte sui redditi non hanno alcun valore ai fini dell’IRAP.

A tale riguardo è stato, però, osservato19 che “passare attraverso l’inerenza civilistica potrebbe risultare perdente per gli interessi erariali”, in quanto il bilancio civile “sente” il tema dell’inerenza “molto meno del reddito fiscale.

Una volta rispettata l’effettività della documentazione, la trasparenza dell’enunciazione e le modalità di riparto del reddito tra i soci, al bilancio civile sta poco a cuore la distinzione tra “spese personali” e “spese d’impresa”, fondamentale invece da quel punto di vista economico che ispira la legislazione fiscale”.

E’ stato, quindi, ritenuto che sarebbe sttato meglio “far valere la logica economica tributaria, rispetto alla letterale derivazione dal bilancio, e restringere con circolare il rinvio al bilancio alla sola imputazione a periodo, al rapporto valutazioni civili/valutazioni fiscali”, considerando gli altri temi, inerenza compresa, “come esclusivamente fiscali e quindi non toccati dalle nuove disposizioni”.

L’Assonime ha ribadito, nella circolare n. 20 del 15 giugno 201020, che, mentre sul piano fiscale l’inerenza dipende dall’esistenza di un nesso funzionale con l’attività che genera i ricavi imponibili e si traduce, nella prassi, nel riconoscimento della deducibilità delle spese utili o necessarie al conseguimento dei ricavi soggetti a tassazione, il bilancio accoglie, invece, tra i costi d’impresa

 

“anche componenti ulteriori, per le quali normalmente i requisiti di inerenza non sono riconosciuti in base alle regole fiscali. Ci riferiamo, tra l’altro, alle liberalità d’uso corrente, che il bilancio colloca nell’ambito della gestione caratteristica e che sono invece soggette a limiti di deduzione ai fini delle imposte sui redditi, e alle sanzioni amministrative irrogate all’impresa, per le quali la prassi e la giurisprudenza, sempre ai fini delle imposte sui redditi, hanno in più occasioni negato l’inerenza.

Di fronte a questa diversità di impostazione si è posto qualche dubbio sulla necessità di fare riferimento, ai fini IRAP, al concetto di inerenza fiscale o a quello civilistico. Una soluzione conforme allo spirito ed alla lettera della nuova disciplina in tema di IRAP sarebbe quella di assumere come riferimento la sola inerenza di bilancio, prescindendo totalmente dalle regole fiscali.

L’incertezza sul punto, tuttavia, traspare in tutta evidenza dalle posizioni assunte dalla stessa Agenzia delle entrate, nelle circolari n. 36 e 39 del 2009, in tema di inerenza di talune categorie di costi per i quali le norme del TUIR stabiliscono criteri di deduzione forfetaria ai fini della determinazione del reddito d’impresa”.

 

La problematica resta, quindi, comunque molto delicata: si pensi, ad esempio, alla questione se in base al principio di inerenza civilistico si possa giungere ad affermare la indeducibilità delle sanzioni amministrative, come sancito dall’Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi, e a quella, più avanti illustrata, relativa all’inerenza “quantitativa“, cioè al possibile sindacato della congruità delle spese.

L’aspetto più delicato appare, comunque, quello relativo alla spettanza dell’onere della prova. L’Agenzia non ha, infatti, espressamente smentito l’affermazione della circolare n. 36/E secondo la quale la prova analitica dell’inerenza deve essere fornita dal contribuente. In tal senso si è, peraltro, espressa, in modo costante, la giurisprudenza della Corte di cassazione (come meglio precisato più avanti).

Al riguardo è stato osservato21 che “se l’ufficio a una rettifica analitica in cui si rileva il difetto di inerenza sarà lo stesso ufficio, e non il contribuente, che dovrà provare il mancato collegamento tra componente negativo di reddito e attività economica (che non sono solo i ricavi) dell’impresa”.

Si ritiene che, anche dopo gli ultimi chiarimenti ufficiali, le complicazioni derivanti dall’attuale disciplina IRAP siano notevoli sia per i contribuenti che per gli uffici e difficilmente accettabili. Si tratta di uno dei tanti, rilevanti problemi posti dalla nuova normativa, che, come già evidenziato, inducono ad auspicare un tempestivo intervento in sede legislativa.

Un’altra delicata problematica, non ancora affrontata dall’Agenzia delle entrate, riguarda proprio il principio della inerenza “quantitativa” di cui si tratterà più avanti, cioè la possibilità per gli uffici, in presenza di comportamenti anomali e antieconomici, di giudicare la congruità delle spese sostenute, come affermato dalla Corte di cassazione e dalla stessa Agenzia con riguardo alle imposte sui redditi.

Alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia con riguardo all’inerenza “qualitativa”, si ritiene estremamente difficile negare l’estendibilità di tale facoltà degli uffici anche al campo dell’IRAP.

Si ritiene che, anche dopo gli ultimi chiarimenti ufficiali, le complicazioni derivanti dall’attuale disciplina IRAP siano notevoli sia per i contribuenti che per gli uffici e difficilmente accettabili.

Si tratta di uno dei tanti, rilevanti problemi posti dalla nuova normativa, che, come già evidenziato, inducono ad auspicare un tempestivo intervento in sede legislativa.

 

 

L’inerenza “quantitativa”

La circolare n. 18/E del 14 aprile 2010 e la giurisprudenza ormai costante della Corte di cassazione hanno posto ancora una volta all’attenzione degli operatori e degli studiosi della materia tributaria la questione dei presupposti e delle modalità in presenza dei quali gli uffici delle entrate possono contestare la congruità dei componenti positivi e negativi di reddito risultanti dalla contabilità e dalle dichiarazioni dei contribuenti.

 

Il sindacato della congruità dei componenti reddituali

cassazione reato indebita compensazioneSta assumendo un ruolo sempre più rilevante, nell’ambito dell’attività di accertamento, l’orientamento della Corte di cassazione e dell’Amministrazione finanziaria secondo il quale quest’ultima può sindacare la economicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, valutando la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni rispetto ai prezzi di mercato, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere.

Tale sindacato può riguardare, ad esempio, la rilevanza, ai fini delle imposte sui redditi, del maggior valore dell’avviamento definito ai fini dell’imposta di registro in caso di cessione d’azienda ovvero la deducibilità dei costi sostenuti per fruire di servizi forniti da altre società del gruppo, delle perdite relative a crediti ceduti pro-soluto, dei compensi attribuiti dalla società agli amministratori, delle spese di pubblicità, ecc.

L’Agenzia delle entrate, Direzione Centrale Accertamento, con la nota dell’8 aprile 2008, n. 2008/55440, operando ampi richiami agli orientamenti della Corte di Cassazione, ha affermato che gli uffici hanno il potere di disconoscere, in tutto o in parte, la deducibilità di un costo, nel rispetto del generale criterio di economicità che dovrebbe ispirare e caratterizzare tutti gli atti dell’impresa.

Anche la circolare n. 1 del 2008 della Guardia di Finanza ha preso in esame tale questione, menzionando alcune sentenze della Corte di cassazione che legittimano l’attribuzione della rilevanza indiziaria al

“comportamento antieconomico dell’imprenditore, da questo in alcun modo non spiegato o non giustificato, nella maggior parte dei casi, peraltro, in presenza di altri elementi presuntivi a sostegno della pretesa tributaria”.

 

Sono, inoltre, citate le prese di posizione dell’Amministrazione finanziaria nelle quali si è subordinata la deducibilità di taluni costi (spese sostenute all’estero dagli autotrasportatori e costi promozionali e di formazione professionale) alla loro congruità rispetto ai ricavi.

Si ritiene, però, che il comportamento antieconomico posto in essere dal contribuente possa dare luogo alle presunzioni gravi, precise e concordanti che consentono l’effettuazione dell’accertamento con il metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, soltanto qualora ricorrano altre circostanze od argomentazioni probatorie, che consentano di ritenere che il corrispettivo della transazione sia stato diverso da quello contabilizzato e dichiarato.

Appare, altresì, necessario che l’antieconomicità dell’operazione sia valutata tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, che il sindacato dell’inerenza “quantitativa” venga esercitato soltanto in presenza di situazioni di arbitraggio fiscale e che si evitino duplicazioni impositive.

Si tratta di aspetti finora trascurati dalla giurisprudenza di legittimità, probabilmente perché le contestazioni dei contribuenti hanno riguardato soprattutto la legittimità del principio della contestabilità della congruità dei costi e non i presupposti ed i criteri in base ai quali il detto sindacato può essere correttamente effettuato.

Si ritiene che su tali questioni, e sulle modalità di determinazione del valore di mercato, si svilupperà il futuro contenzioso in merito.

 

 

La giurisprudenza della Cassazione sull’inerenza “quantitativa”

E’ stato rilevato22 che

“la fonte di innesco del filone sull’antieconomicità fu una sentenza23, correttissima nel merito, che riguardava un esilarante episodio di vendite in nero di scarpe, e di bolle di accompagnamento sapientemente alterate successivamente al trasporto”24, nella quale era stato osservato che i trasporti sembravano anomali, in quanto effettuati per poche quantità di beni e che l’antieconomicità di questi trasporti per «3 scatole» diventava un’ulteriore conferma dell’alterazione a posteriori delle bolle; nessun dubbio sulla legittimità e l’insindacabilità della scelta imprenditoriale di effettuare trasporti per poche scatole di scarpe, ma dubbio legittimo sulla veridicità di tale improbabile evento, in un contesto dove tra l’altro era nota l’alterazione delle bolle; l’enunciazione di eventi poco credibili diventava insomma un elemento non tanto per ritenerli inopponibili al Fisco, quanto per dubitare della loro stessa veridicità”.

Successivamente, però, il filone giurisprudenziale “è diventato valanga”25, giungendo ad affermare26 la non inerenza degli atti manifestamente “antieconomici” che determinino costi del tutto sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa e, quindi, non afferenti all’esercizio “economico” della medesima. E’ stato, quindi, introdotto un concetto di inerenza “quantitativa”, che si aggiunge a quella “qualitativa”.

La Corte di cassazione ha, infatti, in seguito continuato ad affermare, in numerose sentenze, che: rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria

“la valutazione dell’inerenza dei costi esposti in bilancio all’attività o beni di impresa da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono  a formare il reddito, e senza che tale giudizio incida sulle scelte dell’imprenditore, valendo ai soli fini dell’opponibilità della spesa al Fisco”27;

La stessa Corte ha, altresì, affermato che può essere negata la deducibilità di costi sproporzionati ai ricavi e all’oggetto dell’impresa, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili29.

Questo orientamento giurisprudenziale, ormai prevalente, appare fondato sul principio di economicità dell’azione imprenditoriale, secondo il quale le operazioni commerciali vengono effettuate in base al canone della convenienza e tenendo, quindi, conto delle condizioni del mercato.

Ad esempio, in una sentenza30 la Corte ha affermato la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di valutare la congruità dei costi sostenuti dal contribuente (nella fattispecie un notaio) e di negare la deducibilità delle spese ritenute eccessive e antieconomiche (si trattava delle prestazioni effettuate da due dipendenti di una società di servizi avente sede nello stesso studio e che era partecipata al 90% dallo stesso professionista)31.

In quest’ultima sentenza è stato, tra l’altro, stabilito che:

  • “i comportamenti che si pongono in contrasto con le regole del buon senso e dell’id quod plerumque accidit, uniti alla mancanza di una giustificazione razionale (che non sia quella di eludere il precetto tributario), assurgono al ruolo di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, che legittimano il recupero a tassazione dei relativi costi”;
  • è possibile negare “la deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati”
  • “il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie”.

 

La Corte di cassazione ha ribadito tale principio in numerose sentenze ormai concordanti in tal senso. Ad esempio, nelle sentenze nn.da 4554 a 4559 del 25 febbraio 2010, è stato affermato che nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi

“esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducubilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (così Cass. n. 11240 del 2002 e n. 12813 del 2000).

L’onere della prova dell’inerenza dei costi gravante sul contribuente, pertanto, in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la congruità di quei costi”.

Ciò in quanto

“costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, nell’accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973 che del TUIR del 1986, incombe al contribuente (in proposito, ex multis, Cass. n. 11514 del 2001, n. 11240 del 2002, n. 4345 del 2003)”.

 

Negli accertamenti che hanno formato oggetto delle citate sentenze era stata contestata l’inerenza delle spese di commissione sostenute per l’attività di intermediazione svolta da una società con sede in una “località con regime fiscale privilegiato”, diretta a promuovere l’acquisizione di appalti e commesse

“mediante dazioni illecite di denaro a terzi insider nelle strutture dei committenti”: si sarebbe trattato, secondo le risultanze della corrispondenza acquisita in sede di verifica, di “tangenti camuffate da fatture fittizie”.

 

Al riguardo la Suprema Corte ha affermato che “non è determinante né decisiva in sé l’ipotizzata destinazione illecita delle risorse costituenti il costo dichiarato dalla società contribuente, ma la contestata sproporzione delle somme erogate rispetto ad una mera attività di consulenza, e la mancata prova da parte della contribuente, in presenza di un siffatto rilievo, della loro adeguatezza, vale a dire del carattere economico delle attività svolte”.

Quindi il “fatto noto” costituito dal contenuto della lettera con la quale, in relazione alla commessa da realizzare,

“si chiedeva la maggiorazione della percentuale di commissione per un contratto per destinarla in parte a favore di un terzo, è stato legittimamente posto in relazione dall’ufficio con la sproporzione…delle somme versate…rispetto alla remunerazione di un’attività di consulenza”.

 

 

La posizione della dottrina

La dottrina si è, da parte sua, espressa in prevalenza in modo critico nei confronti del richiamato orientamento giurisprudenziale32.

E’ stato, in particolare, osservato che l’impostazione interpretativa della Corte di cassazione non appare emergere dal disposto normativo, che prevede l’applicazione del criterio del valore normale, ai fini delle imposte sui redditi, soltanto in presenza di particolari situazioni, quali l’assenza del corrispettivo (come nei casi di assegnazione dei beni ai soci e di destinazione degli stessi a finalità estranee all’esercizio dell’impresa) o la necessità di contrastare fenomeni “patologici” (si veda la disciplina relativa alla cessione del contratto di leasing e quella sul transfer pricing, riferita a situazioni in cui i prezzi divergono realmente dal valore normale in conseguenza della politica di gruppo e che si applica solo ai rapporti transfrontalieri).

Al di fuori di tali eccezioni, il principio generale dovrebbe essere quello secondo il quale

“la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura”33.

D’altra parte, nell’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973 era stato previsto che l’accertamento analitico-induttivo dovesse basarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti e che la prova “s’intende integrata anche se l’infedeltà dei relativi ricavi viene desunta sulla base del valore normale” soltanto con riferimento alle “cessioni aventi ad oggetto beni immobili ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni”34.

A tale riguardo l’Istituto di ricerca del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha osservato35 che il richiamato orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione suscita non poche perplessità laddove afferma che “gli uffici finanziari non sono … vincolati ai valori o corrispettivi indicati in delibere sociali o contratti” in quanto sarebbe loro attribuito un generale potere di valutare la “congruità” dei costi e dei ricavi esposti in bilancio, con conseguente possibilità di disconoscere i componenti di reddito sproporzionati rispetto ai valori di mercato.

Le perplessità del detto Istituto derivano soprattutto dalla constatazione che nella determinazione del reddito d’impresa l’impiego del criterio del valore normale è previsto soltanto in casi particolari, tipizzati dal legislatore36.

L’Istituto rileva, altresì, che nella maggioranza delle occasioni in cui i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria un tale potere, le operazioni censurate erano, in via di fatto, “manifestamente” antieconomiche, in quanto “la sproporzione e l’irragionevolezza della spesa rispetto all’attività esercitata era rilevabile ictu oculi, in modo talmente evidente che l’antieconomicità diventava un elemento funzionale non tanto per un sindacato delle scelte imprenditoriali da parte dell’Amministrazione finanziaria, quanto per l’accertamento della falsità materiale della versione dei fatti fornita dal contribuente”37.

Pure l’Assonime ha espresso le proprie perplessità al riguardo, affermando38 che gli uffici finanziari tendono spesso a sindacare scelte di convenienza su operazioni economiche pertinenti alla gestione aziendale, sostituendosi a una valutazione che invece dovrebbe competere esclusivamente all’imprenditore.

In effetti la Cassazione è giunta ad affermare che “in tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, comma 3, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente. Ne consegue che il fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato”39.

Tale affermazione, rimasta fortunatamente alquanto isolata, è da considerare senz’altro errata, in quanto, come è stato giustamente osservato40, il valore normale non costituisce uno strumento generale di controllo dei corrispettivi, bensì un criterio da utilizzare in presenza di componenti reddituali “in natura”.

Si ritiene che, più correttamente, il comportamento antieconomico posto in essere dal contribuente possa dare luogo, unitamente ad altre circostanze od argomentazioni probatorie, alle presunzioni gravi, precise e concordanti che consentono l’effettuazione dell’accertamento con il metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare.

La stessa Corte di cassazione ha in più occasioni affermato41 che il valore di un bene può rappresentare “un elemento da tenere in conto come indizio, in senso lato, della infedeltà del prezzo, inferiore, dichiarato dal contribuente ai fini della determinazione delle imposte sui redditi”42.

Tale impostazione interpretativa è stata ora confermata dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 18/E del 2010, nella quale è stato affermato che l’infedeltà del corrispettivo dichiarato deve essere sostenuta,

“oltre che dal mero riferimento allo scostamento dello stesso rispetto al prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, anche da ulteriori elementi presuntivi idonei ad integrare la prova della pretesa (quali, a titolo meramente esemplificativo, il valore del mutuo qualora di importo superiore a quello della compravendita, i prezzi che emergono dagli accertamenti effettuati con la ricostruzione dei ricavi sulla base delle risultanze delle indagini finanziarie, i prezzi che emergono da precedenti atti di compravendita del medesimo immobile).

Nel riesaminare le controversie pendenti, quindi, gli uffici dovranno valorizzare la presenza di tali ulteriori elementi presuntivi, i quali, tra loro associati, siano idonei a sostenere la pretesa tributaria in fase contenziosa, tenuto conto, altresì, delle ragioni rappresentate dal contribuente”.

 

Appare, inoltre, significativo il richiamo alla necessità di tenere conto delle risultanze del contraddittorio con il contribuente, affermata anche dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con le sentenze nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 depositate il 18 dicembre 2009, riguardanti la valenza probatoria degli studi di settore.

E’ stato, al riguardo, osservato43 che

“la formulazione prescelta dalla Corte parrebbe di portata generalissima, tale da farne ritenere imprescindibile l’attuazione non solo nel caso di accertamenti standardizzati, ma in generale” e che il superamento delle obiezioni del contribuente potrebbe non essere effettuato dall’Ufficio in modo analitico ma risultare dal complesso del ragionamento.

Tale principio è stato ribadito dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 19/E del 14 aprile 2010, nella quale è stato affermato che “la mancata attivazione del contraddittorio comporta l’assenza di un elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa”.

Risulta, quindi, fondamentale per il contribuente la partecipazione al contraddittorio per esporre le proprie ragioni e per l’Ufficio motivare perché ha ritenuto non convincenti le argomentazioni sottopostegli.

E’ stato affermato44 che numerose sentenze sul tema dell’antieconomicità “se lette attentamente si fondano sull’utilizzo del valore di mercato quale sintomo di una non veridicità dei corrispettivi dichiarati, oppure riguardano vere e proprie patologie, in cui costi abnormi o ricavi irrisori vengono pattuiti tra parti correlate, al fine di innescare arbitraggi su diversi regimi di determinazione dell’imponibile o dell’aliquota, sul riporto delle perdite, su un diverso criterio di imputazione temporale, ecc., contrastabili applicando, se del caso, il requisito di inerenza dei costi (in chiave quantitativa) o la clausola sulla destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa.

Si tratta, appunto, di casi residuali, relativi a vere e proprie patologie, e non certo di episodi che possano confermare una generalizzata sostituzione dei corrispettivi intragruppo con “più graditi” (all’amministrazione) presunti valori di mercato”.

E’ stato, inoltre, affermato, a favore del ricorso alla nozione di inerenza “quantitativa” in presenza di costi “abnormi”, che “è di norma anomalo, e quindi, sospetto, che un soggetto venda un bene per un prezzo situato al di sotto del suo valore”45 e che

“non sembra esservi molta differenza tra un costo non inerente per le caratteristiche tecnico-fisiche del bene, in relazione ai suoi possibili utilizzi nel contesto aziendale in cui lo stesso viene inserito….rispetto ad una spesa “eccentrica” – nel suo ammontare – rispetto alle dimensioni e all’attività d’impresa concretamente esercitata (la rubinetteria d’oro per la parrucchiera o il quadro d’autore che arreda la hall di un piccolo affittacamere).

In queste ultime ipotesi, anche se il costo si riferisce a beni o servizi astrattamente inerenti all’attività (la rubinetteria è un’attrezzatura per il parrucchiere e il quadro può rientrare negli “arredi” di una pensione) l’abnorme entità della spesa rispetto alle oggettive esigenze imprenditoriali può indicare che la stessa persegue (anche) un fine estraneo all’impresa”46.

 

 

Continua nella 2a parte Il principio di inerenza e di congruità dei componenti di reddito | Parte 2: le contestazioni dei componenti reddituali non considerati inerenti >>

 

13 dicembre 2010

di Gianfranco Ferranti

 

NOTE

1 Cfr., al riguardo: R. Lupi, “Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività”, in Rassegna Tributaria n. 6/2004, pag. 1935; G. Zizzo, “Il reddito d’impresa”, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, pag. 243; M. Beghin, “Prestiti gratuiti ai soci e disciplina fiscale degli oneri finanziari sopportati dalla società: considerazioni sul concetto di inerenza e sulla regola di deducibilità (pro-rata) degli interessi passivi”, in Riv. Dir. Trib., 1998, II, pag. 153; A. Panizzolo, “Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, pag. 676; C. Attardi, “Reddito d’impresa. Interessi passivi ed inerenza. Note a margine del disegno di legge Finanziaria 2008”, in Il Fisco n. 40/2007, pag. 5828.

2 Così D. Stevanato, “Finanziamenti all’impresa e impieghi “non inerenti”: spunti su interessi passivi e giudizio di inerenza”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 19.

3 Con le sentenze n. 14702 del 21 novembre 2001, n. 2114 del 2 febbraio 2005, n. 22034 del 13 ottobre 2006, n. 12990

del 4 giugno 2007, n. 1465 del 21 gennaio 2009, n. 2440 del 3 febbraio 2010 e n. 12246 del 19 maggio 2010.

4 Nella sentenza n. 7292 dell’11 gennaio 2006.

5 Si tratta dell’interrogazione n. 5-03498 presentata dal deputato Antonio Pepe, alla quale hanno dato risposta i sottosegretari Sonia Viale e Alberto Giorgetti.

6 Cfr., in tal senso, G. Ferranti, “Limite alla deduzione degli interessi passivi nella Finanziaria 2008”, in Dialoghi tributari n. 1/2008, pag. 83; D. Deotto, “Il principio di inerenza nella determinazione del reddito d’impresa”; C. Attardi, “Reddito d’impresa. Interessi passivi ed inerenza. Note a margine del disegno di legge Finanziaria 2008”, in Il Fisco n. 40/2007, pag. 5828.

7 Circolare n. 30/E del 7 luglio 1983.

8 Nella circolare n. 25 del 12 giugno 2009, paragrafo 2.10.

9 Nella circolare n. 6/E del 3 marzo 2009 e, soprattutto, nella risoluzione n. 84/E del 31 marzo 2009.

10 Perché non è, ad esempio, ritenuta economicamente vantaggiosa rispetto agli oneri amministrativi imposti.

11 Volume secondo, capitolo 4, paragrafo 2.c.

12 Cfr. P. Petrangeli, “La problematica applicazione all’IRAP dei principi di competenza e inerenza”, in Corr. Trib. n. 27/2009, pag. 2163, e G. P. Ranocchi e G. Valcarenghi, “Sui forfait la prova complica i calcoli”, in Il Sole 24 Ore

-Norme e tributi del 15 giugno 2009, pag. 3.

13 Paragrafo 1.2.

14 Cfr. R. Rizzardi, “L’Irap torna la bilancio fiscale”, in Il Sole 24 Ore del 17 luglio 2009, pag. 31.

15 Così D. Liburdi, “L’imponibile Irap segue il Tuir”, in Italia Oggi del 17 luglio 2009, pag. 26.

16 C. Siciliotti, “Irap, l’abuso del diritto lo fa l’Agenzia delle entrate”, in Italia Oggi del 18 luglio 2009, pag. 29.

17 Così A. Bongi, “Deducibilità Irap, no problem”, in Italia Oggi del 23 luglio 2009, pag. 27.

18 Cfr. A. Bongi, op. loc. ult. cit.

19 Da R. Lupi, “Le aberrazioni del binario unico”, in Il Sole 24 Ore – Norme e tributi del 27 luglio 2009, pag. 1,

20 Nel paragrafo 2.6.2.2.

21 Da D. Deotto, “La svolta tardiva sull’IRAP è a rischio liti”, in Il Sole 24 Ore del 21 luglio 2009, pag. 25.

22 Da R. Lupi, “L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità”, in Corr. Trib. n. 4/2009, pag. 258.

23 Cass., 9 febbraio 2001, n. 1821, in GT – Riv. giur. trib. n. 8/2001, pag. 1031, con commento di A. Panizzolo, «Il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali in diritto tributario: conferme e limiti», e cfr. M. Pisani, in Corr.Trib. n. 14/2001, pag. 1060.

24 Come ricordato dallo stesso Lupi, l’alterazione avveniva correggendo la quantità, e trasformando materialmente l’ultimo numero della quantità trasportata nella lettera iniziale di una parola; la “quantità 91”, diventava “quantità 9 Paia”, trasformando l’1 nella gambetta della lettera P, ovvero la quantità 35 diventava “3 scatole”, trasformando il 5 nella lettera “s”, iniziale di “scatole”.

25 Ciò, secondo R. Lupi, op. loc. ult. cit., “proprio per gli equivoci nella lettura della sentenza, le sue mancate contestualizzazioni, la confusione tra profili di fatto (falsità materiale di una affermazione del contribuente) e di diritto”.

26 Si vedano, ad esempio, le seguenti sentenze della Corte di cassazione: n. 12813 del 27 settembre 2000; n. 11645 del 17 settembre 2001; n. 1821 del 9 febbraio 2001; n. 13478 del 30 ottobre 2001; n. 6337 del 3 maggio 2002; n. 7487 del 22 maggio 2002; n. 10802 del 24 luglio 2002; n. 11240 del 30 luglio 2002; n. 793 del 20 gennaio 2004.

27 Così la sentenza n. 8577 del 12 aprile 2006, riguardante il caso di un costo sostenuto per una sponsorizzazione.

28 Così la sentenza della Corte di cassazione, Sez. Trib., 29 gennaio 2008 (21 novembre 2007), n. 1915, riguardante il caso di un contribuente che aveva ricoperto la carica di amministratore di una srl e di due condomini senza percepire apparentemente alcun compenso. La Corte ha ritenuto legittimo l’accertamento dell’ufficio che ha assoggettato a tassazione i compensi presumendone la percezione, in quanto si tratterebbe di un comportamento manifestamente antieconomico. Si ricorda, però, che la stessa Corte di cassazione ha affermato, a sezioni unite, nella sentenza n. 21933 del 29 agosto 2008 (20 maggio 2008), che è necessaria una specifica delibera dell’assemblea dei soci per riconoscere la spettanza del compenso agli amministratori delle società di capitali e che è nulla l’attribuzione del compenso senza delibera.

29 Si vedano, in tal senso, le sentenze n. 20748 del 25 settembre 2006 (12 giugno 2006), riguardante i compensi agli associati in partecipazione, e n. 9497 dell’11 aprile 2008, concernente i costi correlati a servizi intragruppo.

30 Si veda la sentenza della Corte di cassazione del 15 settembre 2008, n. 23635.

31 Cfr., per una valutazione critica di tale sentenza, M. Beghin, “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, in Corr. Trib. n. 3/2009, pag. 203, secondo il quale l’operazione realizzata dal libero professionista “costituisce nulla più che un’accurata (ma innocua) modifica della propria struttura organizzativa, orientata alla lecita riduzione del carico fiscale e, conseguentemente, alla massimizzazione delle risorse monetarie disponibili”. Si ritiene, peraltro, che nel caso che ha formato oggetto della sentenza in esame l’ufficio avrebbe potuto fondatamente contestare la interposizione soggettiva fittizia, in considerazione della stessa sede in cui operavano il professionista e la società, che quest’ultima era partecipata al 90% dal notaio, che fruiva delle agevolazioni fiscali per il Mezzogiorno e che aveva assunto alle proprie dipendenze due ex-collaboratrici dello studio notarile.

32 Hanno affrontato, tra gli altri, la problematica in esame: A. De Mita, “Ma solo la legge può fissare un tetto alle spese”, in Il Sole 24 Ore del 13 novembre 2001, pag. 28; F. M. Giuliani, “Sulla deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori (soci) di società di capitali”, in Dir. Prat. Trib, 2002, II, pag. 21; G. Marongiu, “Il sindacato sulla congruità dei compensi agli amministratori”, in Corr. Trib. n. 39/2002, pag. 3560; A. Fantozzi, “Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione”, in Riv. Dir. Trib. 2003, II, pag. 552; D. Stevanato, “L’antieconomicità dell’azione imprenditoriale nella giurisprudenza della cassazione, tra presunzioni di evasione ed interpretazioni in chiave antielusiva”, in Dialoghi di dir. Trib., 2003, pag. 370; Gulino, R. Lupi e D. Stevanato, “Il sindacato del Fisco sui compensi agli associati in partecipazione (nota a Cass., Sez. trib., sent. N. 20748/2006), in Dialoghi di dir. Trib., 2007, pag. 659; C. Pino, “E’ “comportamento antieconomico” l’attività di amministratore svolta senza percepire compensi?”, in Corr. Trib. n. 12/2008, pag. 958; R. Lupi, “L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità”, op. cit., M. Beghin, “Atti di gestione anomali o antieconomici e prova dell’afferenza del costo all’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 1996, I, pag. 413, “Il differenziale prezzo-valore nella cessione d’azienda: i cortocircuiti argomentativi della Suprema Corte”, in Rassegna Tributaria n. 4/2008, pag. 1087, id. “La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme”, in Corr. Trib. n. 36/2008, pag. 2934, id. “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, op. cit., id. “Reddito d’impresa ed economicità delle operazioni”, in Corr. Trib. n. 44/2009, pag. 3626.

33 Così la risoluzione n. 9/1437 del 1° luglio 1980.

34 Norma, peraltro, successivamente abolita.

35 Nella circolare n. 9/IR, paragrafo 2.2.

36 Si citano, al riguardo, le operazioni realizzative che si caratterizzano per la mancanza di un corrispettivo (autoconsumo, destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o assegnazione ai soci di beni) e quelle infragruppo transnazionali (c.d.: transfer pricing internazionale), in cui è la legge a prevedere espressamente la rilevanza fiscale del valore di mercato in sostituzione del corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti.

37 Nella circolare n. 9/IR, nota 26, viene ritenuta emblematica, a tal fine, la sentenza della Corte di cassazione 9 febbraio 2001, n. 1821. Viene, inoltre, ricordata la sentenza 24 luglio 2002, n. 10802, nella quale la Corte di cassazione fa riferimento all’antieconomicità “manifesta”, intesa come evidente sproporzione dei costi all’attività esercitata.

38 Nella circolare n. 16/2009, paragrafo 1.1. e nota 10.

39 Così la citata sentenza del 15 settembre 2008, n. 23635, che richiama la precedente sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

40 Da M. Beghin, “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, op. cit.

41 Cfr. Cass., , 6 novembre 2000, n. 14448; Id., 20 novembre 2001, n. 14581; Id., 28 ottobre 2005, n. 21055; Id., 30

gennaio 2006, n. 2005; Id., 1° giugno 2007, n. 12899; Id. 18 luglio 2008, n. 19830; Id. 22 dicembre 2009, n. 27019. Nella sentenza n. 21348 del 7 agosto 2008 è stato affermato che il mero confronto tra il prezzo di un bene risultante dal contratto e contabilizzato e il valore di mercato dello stesso non può costituire elemento sufficiente a giustificare l’accertamento di un maggior reddito. Ciò in quanto lo scostamento tra i due valori non può essere valutato isolatamente ma deve essere apprezzato in rapporto all’intero contesto accertativo. In tale sentenza la Corte ha, tuttavia, considerato legittimo l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio, rilevando una differenza tra i corrispettivi dichiarati in relazione alla vendita di alcuni immobili e i loro valori di mercato, ha rettificato i ricavi facendo leva sull’esistenza di perdite di bilancio, nonostante il gran numero di beni venduti, il che indurrebbe addirittura a dubitare dell’effettivo scopo commerciale dell’ente.

42 Così A. Marcheselli, “Valore di registro dell’azienda, prova della plusvalenza e difesa del contribuente”, in Corr. Trib. n. 9/2010, pag. 681.

43 Da A. Marcheselli, op. loc. ult. cit.

44 Da D. Stevanato, “Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla derivazione contrattuale del concetto di reddito”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 86.

45 Da A. Marcheselli, “Le Sezioni Unite sulla natura presuntiva degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 4/2010, pag. 251.

46 Così D. Stevanato, “L’indeducibilità dei compensi “abnormi” agli amministratori-soci”, in Corr. Trib. n. 7/2002, pag. 598.

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