L’abuso della maggioranza nelle società di capitali si manifesta se il diritto di voto è esercitato dai soci in modo da perseguire interessi propri, in contrasto con l’interesse societario. Individuare i confini tra legittimo esercizio del potere assembleare serve a garantire l’equilibrio tra efficienza della governance e rispetto dei diritti di tutti i partecipanti alla compagine sociale.
L’abuso della maggioranza nelle società di capitali: limiti e tutele
Nel diritto delle società di capitali, il principio di maggioranza è il perno attorno al quale ruota il processo deliberativo assembleare. La disciplina codicistica attribuisce alla maggioranza dei soci la legittimazione ad adottare le decisioni più rilevanti nella vita della società, dalla nomina degli amministratori fino alle modifiche statutarie e allo scioglimento dell’ente. Si tratta di una regola volta alla realizzazione dell’interesse comune, ma non priva di limiti. La presenza di posizioni di forza all’interno della compagine sociale ha reso necessario lo sviluppo di strumenti di tutela per le minoranze e la progressiva elaborazione, da parte della giurisprudenza e della dottrina, del concetto di abuso della regola di maggioranza.
Il fondamento civilistico della disciplina si rinviene nei principi di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.), che si applicano anche nella fase esecutiva del contratto di società. Secondo un indirizzo ormai consolidato, tali clausole generali operano come limiti esterni all’esercizio dei diritti sociali, in particolare del diritto di voto. Il socio è libero di perseguire i propri interessi individuali, ma l’esercizio di tali diritti non può mai tradursi in un pregiudizio ingiustificato nei confronti degli altri soci o della società stessa.
Fondamento civilistico e costituzionale dell’abuso del diritto societario
Il Codice Civile prevede che l’attività negoziale e l’esecuzione dei rapporti contrattuali debbano essere improntate ai principi di correttezza e buona fede.
L’art. 1175 c.c. stabilisce che:
“Il creditore e il debitore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”;
mentre l’art. 1375 c.c. impone che:
“Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.”
Tali disposizioni, tradizionalmente riferite all’ambito delle obbligazioni, rilevano anche nel diritto societario, ove il vincolo che lega i soci si configura come un rapporto contrattuale plurilaterale, destinato a perdurare nel tempo.
La Corte di cassazione ha ribadito che l’esecuzione del contratto di società non si esaurisce nella mera osservanza letterale delle clausole statutarie o delle deliberazioni assembleari, ma richiede un comportamento ispirato ai principi di lealtà, cooperazione e tutela dell’altrui posizione giuridica. In questo senso, la clausola generale di buona fede funge da limite esterno all’esercizio dei diritti sociali, a partire dal diritto di voto in assemblea.
La regola di maggioranza, pur essendo funzionale al buon andamento della società, non può mai risolversi in uno strumento per realizzare un interesse personale in aperto contrasto con quello sociale o per arrecare un danno ingiustificato ai soci di minoranza. La giurisprudenza, a tal proposito, riconosce l’abuso della maggioranza ogniqualvolta il voto sia ispirato da finalità estranee alla causa del contratto sociale o quando sia preordinato alla lesione dei diritti patrimoniali o amministrativi degli altri soci (Cass., sent. n. 15276/2021; Cass. sent. n. 1177/1951).
La centralità della buona fede nell’esercizio dei diritti trova riscontro anche nel dettato costituzionale. L’art. 2 Cost. sancisce il principio di solidarietà sociale, imponendo che ogni diritto venga esercitato nel rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Tale principio, recepito nella disciplina civilis