Il principio di inerenza e di congruità dei componenti di reddito | Parte 2: le contestazioni dei componenti reddituali non considerati inerenti

Prosegue l’analisi dei punti critici del principio d’inerenza: le contestazioni dei componenti reddituali non considerati inerenti.

Se non lo hai già fatto, ti invitiamo a leggere la prima parte dell’approfondimento >>

 

I presupposti per la sindacabilità della congruità dei componenti reddituali

L’Assonime1 ha osservato che “in alcune recenti sentenze (cfr. fra le ultime, Cass. 11 aprile 2008, n. 9497, e 15 settembre 2008, n. 23635)” si ammette, in sostanza, che in presenza di comportamenti antieconomici,

“non sia più l’amministrazione finanziaria a dover provare fatti rilevanti ai fini dell’accertamento (ad esempio la simulazione di atti o l’occultamento di ricavi), ma sia il contribuente a dover giustificare i propri comportamenti ritenuti antieconomici, ritenendosi, in mancanza, già provati – per mezzo della sola valutazione di antieconomicità – i fatti che potrebbero determinare una ripresa a tassazione”.

 

Invece, a parere dell’Assonime, vanno considerate inerenti

“le spese che si collegano alla realizzazione di scelte gestionali o sono ad esse strumentali: di scelte, cioè, relative all’esercizio dell’impresa. Sono, al contrario, non inerenti le spese motivate da finalità estranee a tale esercizio.

La presunta non economicità della spesa può, dunque, risultare un sintomo indiziario di estraneità all’esercizio dell’impresa, ma non certo un elemento sufficiente a provare tale estraneità: rimane pur sempre compito dell’Amministrazione finanziaria dimostrare che, nel caso di specie, il rapporto apparentemente oneroso mascheri un’effettiva liberalità o l’esistenza di ricavi occultati o ancora lo spostamento di redditi per finalità illecite. In questa ottica, merita rilevare che le presunzioni ammesse a fondamento dell’accertamento delle imposte sul reddito devono avere determinate caratteristiche che le rendono effettivamente probanti, e cioè devono essere “gravi, precise e concordanti” (v. art. 39, primo comma, lett. d, del d.p.r. n. 600 del 1973).

Non è sufficiente quindi un “sintomo” di un comportamento illegittimo a provare l’esistenza di tale comportamento; è necessaria l’esistenza di un complesso di circostanze che, tutte, univocamente portino a una determinata conclusione”.


L’Associazione non condivide, quindi, l’orientamento interpretativo secondo il quale gli uffici delle entrate possono limitarsi a valutare l’antieconomicità di una singola operazione senza considerare il contesto nel quale l’operazione stessa è effettuata, senza tenere, ad esempio, conto del fatto che l’operato dell’imprenditore

“potrebbe essere ricondotto a complesse strategie imprenditoriali rispetto alle quali la singola operazione oggetto di analisi da parte dell’ufficio costituisce solo un tassello; circostanza, questa, che non consente una valutazione autonoma della fattispecie, ma ne impone l’analisi in un contesto più ampio.

A titolo di esempio, si potrebbero citare i casi in cui l’impresa rende servizi sottocosto come quando, nel caso di franchising, l’impresa produttrice dia in  uso dei locali ai venditori a condizioni più favorevoli di quelle di mercato per incentivare la diffusione di prodotti caratterizzati da un determinato marchio, oppure ai casi in cui l’impresa concede in comodato gratuito i macchinari con i quali il comodatario deve svolgere lavori a favore della medesima impresa comodante, o ancora, ai casi di vendite sottocosto per motivi di penetrazione del mercato”.

 

Altri casi simili a quelli segnalati dall’Assonime possono riguardare la vendita in blocco di merci fuori moda (salva la determinazione del valore “residuo” delle stesse), le cosiddette vendite “a nummo uno” (cioè a valori irrisori, di aziende o partecipazioni societarie) o “con dote” (cioè con l’impegno a rifondere le spese che l’acquirente dovesse sopportare in relazione all’azienda acquisita). Con riguardo a questi ultimi casi è stato osservato2 che

“il Fisco sarà tenuto ad effettuare, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, una vera e propria valutazione d’azienda, al fine di dimostrare il valore normale dell’azienda o delle partecipazioni cedute”.

 

Ulteriori argomentazioni delle quali il contribuente può avvalersi per dimostrare che il prezzo di vendita è stato effettivamente inferiore al valore di mercato possono essere, ad esempio: l’esistenza di particolari rapporti all’interno del gruppo societario ovvero di parentela tra le persone fisiche che legano il venditore all’acquirente e che potrebbero giustificare un prezzo di favore; l’esigenza di smobilizzare l’azienda in tempi brevi per far fronte ad oggettive e documentabili difficoltà finanziarie; l’opportunità di cedere un’azienda che per fatti sopravvenuti produce risultati economici progressivamente meno soddisfacenti; la presenza di particolari benefici derivanti dai successivi rapporti economici con il cessionario3.

Tale impostazione interpretativa, che appare assolutamente condivisibile, risulta in linea con quanto affermato nella circolare n. 1 del 2008 del Comando generale della Guardia di finanza, nella quale è evidenziato che occorre

“il supporto di altre circostanze od argomentazioni probatorie” e che il recupero fiscale di un costo per non congruità potrà avvenire “sia sulla base di precisi riscontri documentali e fattuali”,

che comprovino la destinazione extraimprenditoriale del bene o servizio,

“sia sulla base di un confronto dell’entità della spesa con parametri oggettivi di riferimento, quali, ad esempio, la natura del bene o servizio, l’entità complessiva dei costi e dei ricavi dell’impresa, le caratteristiche e le dimensioni dell’impresa, l’attività da questa in concreto svolta.

In questi ultimi casi, la motivazione del disconoscimento della quota del costo ritenuta non congrua dovrà essere particolarmente argomentata, facendo adeguatamente rilevare la grave, precisa e concordante valenza sintomatica della parziale destinazione extraimprenditoriale, risultante dai parametri di riferimento in concreto utilizzati”.

 

Queste affermazioni appaiono senz’altro opportune, così come appare condivisibile il richiamo alla necessità che le motivazioni poste a base dei rilievi in esame siano esposte “con il più ampio grado di riferimenti fattuali, coerenza logica e limpidezza di contenuti”.

Tale impostazione interpretativa è stata, peraltro, condivisa dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 18/E del 2010, nella quale sono stati illustrati gli effetti sul contenzioso pendente dell’abrogazione (a causa del contrasto con la normativa comunitaria), effettuata dall’art. 24, commi 4, lettera f), e 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88, delle disposizioni che, in materia di IVA4 e di imposte sui redditi5, consentivano agli uffici delle entrate di rettificare la relativa dichiarazione in caso di scostamento tra il corrispettivo dichiarato per le cessioni di beni immobili e relative pertinenze e il valore normale degli stessi, determinato6, in base al provvedimento direttoriale del 27 luglio 2007, sulla base dei valori OMI7 e di coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell’immobile, integrati dalle altre informazioni in possesso degli uffici stessi.

Le presunzioni legali relative introdotte dalle disposizioni successivamente abrogate si erano applicate nel periodo dal 4 luglio 2006 al 15 luglio 2009 (per l’IVA) o al 29 luglio 2009 (per le imposte sui redditi), mentre per gli atti formati anteriormente a tale periodo era stato stabilito8 che le stesse valessero, “agli effetti tributari, come presunzioni semplici”.

L’Agenzia ha ritenuto che l’abrogazione delle presunzioni legali relative produca effetti anche con riferimento al periodo pregresso, in quanto nella circolare n. 11/E del 20079 era stata affermata la natura procedimentale delle norme introdotte dal DL n. 223 del 2006, e che

“lo scostamento dei corrispettivi dichiarati per le cessioni di beni immobili rispetto al valore normale torna a costituire elemento presuntivo semplice, con la conseguenza che trovano applicazione le citate disposizioni di carattere generale di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 e all’articolo 54, secondo comma, del DPR n. 633.

Gli uffici dovranno, pertanto, valutare, con riferimento alle controversie pendenti, se le motivazioni degli accertamenti impugnati si dimostrino comunque adeguate o se, invece, alla luce dell’intervenuta modifica normativa, si rivelino insufficienti così da richiedere l’abbandono del contenzioso in corso, tenuto conto dello stato e grado del giudizio”.

 

Sono state, poi, impartite agli uffici le istruzioni in merito alle controversie pendenti, fornendo un importante chiarimento in merito alla necessità, per sostenere l’infedeltà del corrispettivo  dichiarato, che, oltre allo scostamento dello stesso rispetto al prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, ricorrano anche

“ulteriori elementi presuntivi idonei ad integrare la prova della pretesa”.

 

Si ricorda che la stessa Corte di cassazione ha affermato10 che è necessario che

“le varie operazioni, coordinate le une alle altre, abbiano un fine logico, rispondano, almeno nelle intenzioni di chi le pone in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio e questa logica, a sua volta, deve essere funzionale ai meccanismi del mercato e di un regime di libera concorrenza (e valutata in relazione ad essi) e non di elementi distorsivi del mercato e della concorrenza”.

Si ritiene, quindi, necessario che il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica (si pensi, ad esempio, ai casi, sopra riportati, menzionati dall’Assonime nella circolare n. 16 del 2009), potrebbe, invece, risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale.

Si ritiene, inoltre, fondamentale che il sindacato dellasentenza corte di cassazione inerenza “quantitativa” dei componenti reddituali venga esercitato soltanto in presenza di situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle modalità di tassazione tra chi sostiene il costo e chi consegue il componente positivo11.

Tale principio è stato affermato dalla Corte di cassazione, con riguardo alla norma che prevede la regola del transfer pricing per i rapporti internazionali infragruppo, in alcune sentenze12 nelle quali è stato precisato che l’Agenzia delle entrate deve accertare se le operazioni siano finalizzate a sottrarre a tassazione reddito in Italia a favore di Paesi esteri con regime impositivo inferiore.

La necessità che si verifichi un arbitraggio dovrebbe, a maggior ragione, sussistere nelle ipotesi in esame, non regolamentate a livello normativo.

Un’altra importante questione si pone con riguardo alla possibilità che si verifichino, a seguito degli accertamenti degli uffici, duplicazioni impositive.

Al riguardo è stato sostenuto13 che il contribuente può “pretendere comunque che, a seguito della rettifica dei corrispettivi su una parte contraente, sia specularmene riconosciuto un aggiustamento dei medesimi corrispettivi sull’altra parte contraente, anch’essa residente in Italia”.

 

L’onere della prova

La Corte di cassazione ha affermato, nelle citate sentenze nn. da 4554 a 4559 del 25 febbraio 2010, che l’onere della prova dell’inerenza dei costi grava sul contribuente, pertanto, in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la congruità di quei costi”.

Ciò in quanto

“costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, nell’accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973 che del  TUIR del 1986, incombe al contribuente (in proposito, ex multis, Cass. n. 11514 del 2001, n. 11240 del 2002, n. 4345 del 2003)”.

Anche nelle sentenze n. 7680 e n. 10802 del 2002 e n. 475014, n. 12247 e n. 19489 del 2010, la Corte ha affermato che è onere del contribuente provare la sussistenza del requisito dell’inerenza.

Il contribuente può, a tal fine, avvalersi di presunzioni aventi la medesima natura di quelle utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria.

Al riguardo è stato affermato15 che

“i comportamenti “antieconomici” costituiscono un elemento che, se non inverte in senso tecnico la prova a carico del contribuente, per lo meno gli richiede un onere di argomentazione, da assolvere adducendo spiegazioni credibili delle apparenti discrepanze.

Se invece il contribuente si limita ad astratte divagazioni sulla possibilità astratta di spiegazioni alternative, meno plausibili di quella addotta dal Fisco, allora quest’ultima si rafforza”.

Riveste, altresì, particolare interesse l’affermazione, contenuta nell’ordinanza della Corte di cassazione del 13 agosto 2010, n. 18705, secondo la quale la prova fornita dal contribuente può essere “desumibile dalle scritture contabili”.

 

Tale principio è stato, peraltro, affermato dalla stessa Corte anche nell’ordinanza n. 7023 del 24 maggio 2010, nella quale è stato ritenuto che

“i giudici di appello hanno esaminato la prova (essenzialmente costituita da documentazione contabile) offerta dai contribuenti e l’hanno ritenuta idonea a dimostrare l’inesistenza del valore di avviamento, con valutazione che non è risultata adeguatamente censurata”

in sede di impugnativa di fronte alla stessa Corte.

Pertanto, il sindacato della congruità dei componenti reddituali può avvenire anche in contrasto con le risultanze delle scritture contabili ed anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle stesse o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, ma il contribuente può fornire la prova dell’inattendibilità del prezzo della transazione accertato dall’Amministrazione finanziaria anche facendo riferimento alle stesse risultanze contabili.

Si ritiene che la contraddizione tra tali affermazioni sia soltanto apparente, non potendo il contribuente validamente contestare l’accertamento limitandosi a documentare gli importi dei componenti positivi e negativi risultanti dalla contabilità.

Il riferimento alle risultanze di quest’ultima potrebbe risultare, invece, effettuabile al fine, ad esempio, di dimostrare la presenza, negli esercizi che precedono quello nel corso del quale è avvenuta la cessione dell’azienda, di perdite o di utili di importo modesto, tali, cioè, da far ritenere non verosimile la presenza di un avviamento 16.

E’ stato, altresì, evidenziato17 che il contribuente potrebbe, inoltre, esibire la documentazione bancaria relativa la periodo antecedente e successivo al momento in cui è avvenuta l’operazione contestata, al fine di evidenziare l’assenza di movimentazioni finanziarie riconducibili alla presenza di un corrispettivo di ammontare diverso da quello risultante dall’atto posto in essere dalle parti.

Ulteriore casistica potrà, naturalmente, emergere, anche in sede contenziosa, se sarà posta adeguata attenzione, oltre che all’esistenza dei presupposti in presenza dei quali è possibile effettuare le rettifiche in discorso, anche alla dimostrazione del fondamento economico, almeno potenziale, dell’operazione posta in essere18.

 

 

 

I compensi attribuiti agli amministratori di società

deducibilità dei compensi degli amministratoriLa questione della possibilità per gli uffici dell’amministrazione finanziaria di sindacare la congruità dei compensi attribuiti agli amministratori di società è stata a lungo dibattuta nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione ed è anch’essa connessa alla problematica, già illustrata, concernente la possibilità per l’amministrazione finanziaria di contestare la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere.

Si è posta, altresì, la questione concernente la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di presumere la percezione del compenso da parte dell’amministratore anche in presenza di un mandato apparentemente gratuito, dando luogo, tale situazione, ad un comportamento “antieconomico”.

 

 

La deducibilità dei compensi da parte della società

Il Ministero dell’economia e delle finanze ha confermato, in sede di risposta ad un’interrogazione parlamentare, la deducibilità, in sede di determinazione del reddito d’impresa, dei compensi attribuiti agli amministratori di società, superando, di fatto, la differente presa di posizione assunta dalla Sezione tributaria della Corte di cassazione con l’ordinanza 13 agosto 2010, n. 18702, che ha suscitato unanimi critiche in dottrina.

In tale occasione è stato evidenziato che, a parere dell’Agenzia delle entrate, ai fini della detta deducibilità occorre verificare il rispetto del principio “di cassa” e di quello di inerenza.

E’ stato fatto, pertanto, ancora una volta riferimento al principio di inerenza “quantitativa” e, quindi, al potere dell’Amministrazione finanziaria di disconoscere, in tutto o in parte, la deducibilità di un costo, nel rispetto del generale criterio di economicità che dovrebbe ispirare e caratterizzare tutti gli atti dell’impresa.

Con riguardo al potere di verifica della congruità dei compensi corrisposti agli amministratori di società sono, però, riscontrabili, nella giurisprudenza della Cassazione, orientamenti interpretativi tra loro difformi, in ordine ai quali si dovrebbero pronunciare le Sezioni Unite della stessa Corte.

Risulta, peraltro, ormai prevalente, almeno a partire dal 2002, l’orientamento contrario alla sindacabilità di tali compensi, che appare più convincente anche in considerazione del fatto che normalmente non si verificano, nei casi in esame, fenomeni di arbitraggio fiscale.

 

 

La risposta all’interrogazione parlamentare del 30 settembre 2010

I sottosegretari Sonia Viale e Alberto Giorgetti hanno precisato, nella risposta fornita il 30 settembre 2010 ad un’interrogazione parlamentare19, che l’Agenzia delle entrate ha, al riguardo, affermato che:

  • il riferimento, contenuto nell’art. 95, comma 5, del TUIR, all’esercizio in cui i compensi spettanti agli amministratori di società ed enti di cui all’art. 73, comma 1, sono erogati “impone – in deroga al generale principio di competenza che governa la determinazione del reddito d’impresa – la deducibilità dei compensi agli amministratori secondo il principio di cassa”;
  • “la deducibilità del compenso presuppone la sua inerenza all’attività d’impresa secondo il principio di cui all’art. 109, comma 5, del TUIR, inerenza che va valutata caso per caso in relazione alla specifica fattispecie considerata”.

 

L’Agenzia delle entrate ha, pertanto, correttamente evidenziato che l’esplicita previsione normativa che sancisce l’applicazione del detto principio di cassa comporta inevitabilmente il riconoscimento del diritto alla deduzione dei compensi attribuiti agli amministratori.

Tale deducibilità è stata ulteriormente confermata dall’affermazione secondo la quale la stessa è condizionata esclusivamente alla verifica, caso per caso, del rispetto del principio di inerenza dei compensi all’attività d’impresa.

Tale principio trova applicazione con riguardo sia alle società di capitali20 (cui fa riferimento l’art. 95 del TUIR menzionato nella risposta all’interrogazione parlamentare) sia a quelle di persone, essendo affermato, nel precedente art. 56, comma 1, che le disposizioni concernenti la determinazione del reddito d’impresa relative alle società e agli enti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b) valgono anche per le società in nome collettivo e in accomandita semplice (ed equiparate).

E’ stato, quindi, chiaramente sancito un principio diametralmente opposto a quello espresso nella menzionata ordinanza della Cassazione, anche se non è stato formulato, per evidenti motivi di opportunità, alcun esplicito giudizio in merito a quest’ultima. Si ritiene, pertanto, che siano stati fugati i timori che tale ordinanza aveva suscitato nella vasta platea dei contribuenti interessati21.

La deducibilità dei compensi in questione è stata, peraltro, recentemente ribadita nell’art. 24, comma 1, del D.L. n. 78 del 2010, convertito nella legge n. 122 dello stesso anno, nel quale è stabilito che la vigilanza sistematica sulle imprese (di qualsiasi tipo) che presentano, per più di un periodo d’imposta, dichiarazioni in perdita fiscale non riguarda i casi in cui quest’ultima è determinata da compensi erogati, tra gli altri, agli amministratori.

Il vigente art. 95 del TUIR, il cui contenuto è stato richiamato nella risposta alla detta interrogazione parlamentare, è entrato in vigore a partire dal periodo d’imposta 200422 e, di conseguenza, la deducibilità dei compensi in esame è stata espressamente sancita per tale periodo e per quelli successivi23.

Con tale richiamo si è, tra l’altro, evitato di entrare nel merito delle affermazioni contenute nell’ordinanza n. 18702 del 2010, che ha riguardato l’applicazione della normativa vigente anteriormente al 2004.

Si ritiene, comunque, che il principio della deducibilità dei compensi attribuiti agli amministratori si applichi, per i motivi esposti più avanti, anche con riferimento ai periodi d’imposta anteriori al 2004, in relazione ai quali si è, comunque, verificata, nella maggior parte dei casi, la decadenza del termine per l’accertamento24.

 

 

L’ordinanza della Cassazione n. 18702 del 2010

corte di cassazione sugli accertamenti studi di settoreLa Corte di cassazione ha affermato, nell’ordinanza n. 18702 del 2010, che i compensi agli amministratori di società di capitali “non sono affatto deducibili” essenzialmente sulla base di quanto precedentemente affermato nella precedente sentenza del 13 novembre 2006, n. 24188, secondo la quale il previgente art. 62 del TUIR, nell’escludere la deduzione del compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore individuale, consentirebbe la deducibilità dei soli compensi spettanti agli amministratori di società di persone e non di quelli attribuiti agli amministratori di società di capitali.

Ciò in quanto la posizione dell’amministratore di queste ultime società sarebbe

“equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo, quindi, l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione”.

 

Tali affermazioni non sono condivisibili per i seguenti motivi:

  • in base al principio di derivazione sancito dall’art. 83 del TUIR25, i compensi spettanti agli amministratori sono deducibili in quanto hanno concorso a formare l’utile o la perdita di bilancio e le norme che disciplinano la determinazione del reddito d’impresa non ne stabiliscono la indeducibilità, ma, come rilevato nella risposta all’interrogazione parlamentare in esame, ne condizionano soltanto la deducibilità alla avvenuta corresponsione e alla loro inerenza all’attività d’impresa26;

  • nel TUIR è stata prevista, sia prima che dopo la riforma entrata in vigore a partire dal 2004, una identica disciplina per la deducibilità dei compensi degli amministratori di società di persone e di capitali. Ante 2004 la previsione era esplicita con riguardo alle società di persone (nell’allora vigente art. 62, comma 3) ed era stata estesa a quelle di capitali in virtù di un apposito rinvio normativo (contenuto nel previgente art. 95). A partire dal 2004 la situazione è stata, invece, “capovolta”, senza mutare, però, i termini della questione: la previsione esplicita riguarda ora le società di capitali (nell’art. 95, comma 5) mentre quella di rinvio concerne le società di persone (nell’art. 56, comma 1);

  • nella sentenza 24188 del 2006 la Cassazione ha sostenuto la incompatibilità della qualifica di amministratore unico di una società di capitali con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società e la conseguente indeducibilità delle retribuzioni corrisposte allo stesso in relazione a quest’ultima condizione, senza affermare una generale equiparazione tra l’imprenditore individuale e il detto amministratore. Si tratta, quindi, di una problematica diversa da quella, molto più ampia, in esame27;

  • ritenere che la norma sulla indeducibilità del compenso del lavoro prestato dall’imprenditore sia applicabile anche con riguardo all’opera svolta dall’amministratore di società implicherebbe che anche il compenso attribuito a quest’ultimo non debba concorrere alla formazione del suo Una disposizione esplicita in tal senso era contenuta nel previgente art. 62, comma 2, del TUIR e, pur non essendo stata la stessa riprodotta nell’attuale art. 60, si ritiene che alla medesima conclusione debba giungersi al fine di evitare una ingiustificata duplicazione economica;

  • la copiosa giurisprudenza della stessa Corte di cassazione (che è più avanti esaminata) riguardante la possibilità o meno di sindacare la congruità dei compensi attribuiti agli amministratori conferma che la deducibilità degli stessi da parte della società è, in via di principio, legittima.

 

Le concordi critiche formulate nei riguardi di questa e di altre prese di posizione della Cassazione hanno, peraltro, indotto la stessa Corte a precisare, in un comunicato stampa del 5 ottobre 2010, che

“la Sezione tributaria è fortemente impegnata a mantenere in limiti assolutamente fisiologici le inevitabili oscillazioni connesse alla notevole quantità di ricorsi esaminati e alla continua evoluzione normativa che impone una costante opera di interpetazione e di ricostruzione sistematica, molto spesso pretermessa dal legislatore.

Inoltre, lo spazio sempre maggiore occupato dal diritto comunitario impone di tener conto del doveroso rispetto delle norme europee, la cui prevalenza orienta ormai obbligatoriamente i mutamenti della giurisprudenza. Certamente sarebbe utile che alla Sezione Tributaria fossero assegnati, per quanto possibile, magistrati che abbiano maturato una specifica esperienza nella materia tributaria.

Ciò richiederà, però, un mutamento delle attuali modalità con le quali il Consiglio Superiore della Magistratura valuta, in concorso unitario ed indistinto, i magistrati da assegnare alle funzioni di Consigliere di Corte di Cassazione.

Un mutamento di sistema è tra gli auspici della Prima Presidenza della Corte per le future assegnazioni”.

 

Si è voluto, in tal modo, sottolineare che le oscillazioni giurisprudenziali sono l’inevitabile conseguenza dell’assenza di una visione organica della normativa tributaria28.

 

 

La sindacabilità della congruità dei compensi

compenso agli amministratori della societàLa questione riguardante la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di sindacare, ai fini della determinazione del reddito d’impresa della società, la congruità dei compensi attribuiti agli amministratori della stessa è stata a lungo dibattuta nell’ambito della giurisprudenza della Corte di cassazione29 ed è connessa alla più ampia problematica concernente la possibilità di contestare la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere30.

La Sezione tributaria della Cassazione, rilevando un contrasto giurisprudenziale al proprio interno, con le ordinanze nn. 9024, 9025 e 9026 del 20 giugno 2002 ha rimesso la questione in esame al Primo Presidente, al fine di valutare la possibilità di far esprimere al riguardo le Sezioni Unite, che non si sono, però, fino ad oggi pronunciate.

In tali ordinanze era stato rilevato che la giurisprudenza della detta Sezione era “prevalentemente orientata nel senso di ammettere un sindacato di “inerenza” del costo derivante dal compenso attribuito all’amministratore di società” ma che era in seguito emerso un diverso orientamento, in virtù del quale

“allo stato attuale della legislazione l’Amministrazione finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori di società delle persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi”.

Tale orientamento si porrebbe in consapevole e meditato dissenso” rispetto a quello precedente e fa leva sulla constatazione che nel TUIR “è stato eliminato ogni riferimento alla misura dei compensi riconoscibili ai soci amministratori, da rapportare ai compensi erogabili agli amministratori esterni (art. 59 del DPR n. 597/1973). Mancando, poi, una clausola generale antielusiva, il problema non può essere risolto sul piano dell’inerenza”.

Nella sentenza n. 21169 del 6 agosto 2008 la Suprema Corte è giunta, peraltro, ad affermare, sia pure in via incidentale, che la sindacabilità della congruità dei compensi in esame potrebbe fondarsi anche sul principio della contestabilità degli atti che costituiscono “abuso del diritto”,

“perché l’evoluzione giurisprudenziale (nel senso del riconoscimento di un criterio generale antielusivo di matrice comunitario: cfr. Cass. 10257/08 , 21221/06), sembrerebbe superare le ragioni addotte da Cass. 21155/05 e 6599/02 a sostegno della tesi contraria (in disaccordo, peraltro, da precedente e stabilizzato orientamento: v. Cass. 13478/01 , 11454/01 , 10650/01 , 12813/00)”.

 

Passando ad esaminare più specificatamente le motivazioni poste alla base delle sentenze riguardanti la problematica in esame si rileva, innanzitutto, che in alcune di esse31 la Cassazione ha riconosciuto all’Amministrazione finanziaria il potere di contestare l’ammontare dei compensi attribuiti dalla società agli amministratori e dedotti in sede di determinazione del reddito d’impresa della stessa.

Una sentenza32 riguarda, in realtà, le somme attribuite agli associati in partecipazione in misura ritenuta sproporzionata rispetto alle dimensioni della società e ai compiti svolti dagli associati, ma la questione si pone in termini sostanzialmente analoghi con riguardo ai compensi degli amministratori.

In tali pronunce si afferma che se i comportamenti dei contribuenti non rispondono “ai canoni dell’economia” gli uffici possono legittimamente disconoscere la deducibilità dei costi nonostante l’annotazione delle delibere nei libri sociali, la registrazione dei contratti e le risultanze dei bilanci regolarmente approvati.

Ciò in quanto rientrerebbe nei poteri degli uffici la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nei bilanci e nelle dichiarazioni, senza che risulti necessario l’accertamento della nullità, totale o parziale, dei negozi giuridici attraverso i quali i fatti di gestione si sono realizzati.

 

In altre sentenze33 la Corte di cassazione ha negato la sindacabilità dell’ammontare del compenso attribuito dalle società agli amministratori.

Dall’esame di queste ultime sentenze si rileva che le stesse riguardano tutte società di persone, tranne la sentenza n. 28595 del 2008, nella cui motivazione si afferma, però, che il ricorso era stato presentato da una società a responsabilità limitata divenuta poi una società in accomandita semplice e si fa esplicito riferimento soltanto ai

“compensi corrisposti agli amministratori di società di persone”.

Anche in merito alle società di tipo personale non sono, comunque, mancate sentenze (che risalgono, però agli anni 2000 e 200134) che hanno, al contrario, affermato il potere per l’Amministrazione finanziaria di sindacare la congruità dei compensi.

La giurisprudenza di legittimità contraria a riconoscere il potere di verificare la detta congruità dei compensi si basa, in particolare, sulla considerazione che mentre l’art. 59 del DPR n. 597 del 1973 stabiliva che i compensi degli amministratori di società di persone erano deducibili nel limite delle misure correnti per gli amministratori non soci, un’analoga previsione non è stata più inserita nelle norme introdotte successivamente (fino a giungere all’attuale comma 5 dell’art. 95 del TUIR).

Nella sentenza n. 6599 del 2002 è stato, ad esempio, rilevato che il detto art. 59,

“sapientemente tendeva ad evitare le possibili manovre elusive che attraverso la maggiorazione dei compensi agli amministratori-soci possono senz’altro essere poste in essere per non pagare nella misura dovuta l’imposta che fa capo alla società di persone.

L’eliminazione (in sede di redazione del TUIR) del riferimento del limite delle ‘misure correnti per gli amministratori non soci’ ha senza dubbio natura innovativa poiché ha tolto all’Amministrazione (verosimilmente in maniera immotivata e senza che ve ne fossero ragioni convincenti e condivisibili) il potere di ricondurre ai prezzi di mercato previsti per gli amministratori non soci (prezzi facilmente individuabili nel concreto) i compensi sproporzionati.

La nuova disciplina ha, quindi, totalmente liberalizzato il concetto di spettanza ai fini della deducibilità”.

 

Poiché la norma non fa riferimento a tabelle o altre indicazioni vincolanti ai fini della determinazione dei limiti massimi di spesa oltre i quali i compensi agli amministratori non sono deducibili, la Cassazione afferma, di conseguenza, che

“nel sistema la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è determinata dal consenso che si forma o tra le parti o nell’ambito dell’ente sul punto, senza che all’Amministrazione sia riconosciuto un potere specifico di valutazione di congruità”.

 

Non è stato, pertanto, posto in discussione il principio di carattere generale della sindacabilità dei costi esposti in bilancio in presenza di comportamenti “antieconomici” ma è stato fatto esclusivo riferimento alla detta argomentazione basata sulla successione, nel corso del tempo, di norme che hanno diversamente regolamentato la materia in esame.

Si ritiene, peraltro, che tale motivazione non riguardi soltanto le società di persone ma si debba necessariamente estendere alle società di capitali, in quanto nell’art. 5, secondo comma, del DPR n. 598 del 1973 era espressamente stabilito che le disposizioni dell’art. 59 del DPR n. 597 dello stesso anno

“relative alle società in nome collettivo e in accomandita semplice valgono anche per le società di altro tipo soggette all’imposta sul reddito delle persone giuridiche e per gli enti pubblici e privati aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”.

Si può, quindi, affermare che la giurisprudenza della Cassazione si stia progressivamente orientando, almeno a partire dal 2002, a favore della “inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l’attività svolta”35.

L’unica sentenza che si è pronunciata, in tale lasso temporale, in senso contrario è, infatti, quella del 25 settembre 2006, n. 20748, riguardante, peraltro, i compensi attribuiti agli associati in partecipazione da parte di società di capitali.

Si ritiene, in conclusione, auspicabile l’intervento al riguardo delle Sezioni Unite della stessa Corte e probabile che, in tal caso, venga confermato quest’ultimo orientamento interpretativo, ormai prevalente, anche in considerazione del fatto che non dovrebbero verificarsi, nei casi in esame fenomeni di arbitraggio fiscale.

Appare, infatti, necessario, come già evidenziato in precedenza, che il sindacato della inerenza “quantitativa” dei componenti reddituali venga esercitato soltanto in presenza di situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle modalità di tassazione tra chi sostiene il costo e chi consegue il componente positivo36.

Tale principio è stato affermato dalla Corte di cassazione, con riguardo alla norma che prevede la regola del transfer pricing per i rapporti internazionali infragruppo, in alcune sentenze37 nelle quali è stato precisato che l’Agenzia delle entrate deve accertare se le operazioni siano finalizzate a sottrarre a tassazione reddito in Italia a favore di Paesi esteri con regime impositivo inferiore.

La necessità che si verifichi un arbitraggio dovrebbe, a maggior ragione, sussistere nelle ipotesi in esame, non regolamentate a livello normativo.

Nei casi in esame non si dovrebbero verificare i detti fenomeni di arbitraggio fiscale, atteso che l’imposizione (IRPEF e relative addizionali) gravante sull’amministratore è generalmente più elevata di quella relativa ai soggetti IRES38.

Più complesso risulta, peraltro, il raffronto in presenza di società di persone, i cui redditi sono assoggettati ad IRPEF in capo ai soci. In ogni caso i compensi attribuiti agli amministratori non sono deducibili ai fini dell’IRAP e sono, di conseguenza, venuti meno i fenomeni di arbitraggio che si verificavano in vigenza dell’ILOR, la cui base imponibile era, invece, influenzata dai detti compensi.

Tali considerazioni appaiono, tra l’altro, trovare conferma nel disposto del già menzionato art. 24, comma 1, del D.L. n. 78 del 2010, nel quale è stabilito che la vigilanza sistematica sulle imprese che presentano, per più di un periodo d’imposta, dichiarazioni in perdita fiscale non riguarda i casi in cui la stessa è determinata da compensi erogati agli amministratori, in quanto è stato, evidentemente, considerato che questi ultimi sono, nella generalità dei casi, assoggettati, in capo ai percipienti, ad IRPEF con aliquote progressive e, quindi, a tassazione sostanzialmente equivalente al risparmio d’imposta della società.

E’ stato, peraltro, affermato39 che l’arbitraggio ai fini fiscali potrebbe consistere nella convenienza per il socio amministratore a percepire gli utili sotto forma di compensi, per evitare di subire la parziale duplicazione impositiva che grava sugli utili stessi.

Si ritiene, comunque, che in caso di disconoscimento della deducibilità di parte del compenso corrisposto dalla società, quest’ultimo non dovrebbe essere assoggettato, nella stessa misura, ad imposizione in capo all’amministratore, al fine di evitare duplicazioni impositive.

 

 

I compensi “reversibili”

L’Amministrazione finanziaria, nella risoluzione n. 8/166 del 17 marzo 1977, ha affermato la deducibilità dei compensi attribuiti agli amministratori della società controllata che rivestono un’analoga qualifica anche presso la società controllante e che sono effettivamente riversati a quest’ultima40. In senso conforme si è espressa anche la Commissione tributaria provinciale di Lucca41.

La Commissione tributaria provinciale di Treviso ha affermato, nella sentenza n. 39 del 15 aprile 2010, che il compenso in esame, deducibile in capo alla controllata, “remunera l’attività di gestione e il coordinamento tra le società collegate” e non ne può essere, quindi, disconosciuta l’inerenza.

La Commissione tributaria regionale di Torino, nella sentenza n. 25 del 1° marzo 2010, ha, invece, esaminato una fattispecie nella quale l’ufficio aveva dimostrato che la società cui erano formalmente riversati i compensi era in realtà “di comodo”, confermando la legittimità dell’accertamento in quanto sussistevano sufficienti elementi per ritenere concretizzata un’operazione di “frode fiscale”, avendo l’amministratore, di fatto, mantenuto la disponibilità dei compensi.

 

La presunzione di percezione del compenso da parte dell’amministratore

La Corte di cassazione, nella sentenza n. 1915 del 29 gennaio 2008, ha affermato, con riguardo al caso di un contribuente che aveva ricoperto la carica di amministratore di una srl e di due condomini senza percepire apparentemente alcun compenso, che va considerato legittimo l’accertamento dell’ufficio che ha assoggettato a tassazione i compensi presumendone la percezione, in quanto si tratterebbe di un comportamento manifestamente antieconomico.

Ciò in base alla considerazione che

“a buon diritto l’amministrazione, anche in considerazione del disposto dell’art. 2389 c.c., che prevede come oneroso il mandato di amministratore della società, aveva ritenuto sussistenti i presupposti per fare ricorso all’accertamento induttivo, stante la manifesta irragionevolezza e/o comunque la eccezionalità dell’espletamento gratuito di attività complesse, impegnative e di responsabilità e, quindi, la relativa antieconomicità”.

Nella motivazione della stessa sentenza la Corte ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale “ai fini della prova per presunzioni semplici non occorre che fra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, in quanto è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità”42 ed ha affermato che appare “assolutamente ragionevole” presumere che l’attività dell’amministratore sia stata retribuita, anche perché

“il contribuente non ha offerto prova della gratuità dei mandati né di altri elementi idonei ad escludere la realizzazione, dall’attività svolta, di reddito fiscalmente rilevante”.

E’ stato, in particolare, precisato che l’autodichiarazione con la quale l’amministratore aveva attestato che dalle scritture contabili e dagli atti societari non risultava che gli fossero stati erogati corrispettivi avrebbe dovuto essere supportata, ad esempio, da

“stralci in copia autentica del bilancio consuntivo approvato a fine esercizio, oltre che del verbale assembleare di approvazione, relativi alle risultanze dei competenti capitoli – voce di spesa compensi e/o compensi per cariche istituzionali e/o amministratori – disposizioni statutarie e/o delibera assemblea società o consiglio amministrazione attestante gratuità prestazioni ecc.”

 

Al riguardo è stato osservato43, in modo condivisibile, che, poiché l’art. 2389 c.c. subordina la fissazione del compenso degli amministratori ad un’apposita deliberazione assembleare (all’atto della nomina o successiva) e l’art. 2364 c.c. conferma che è l’assemblea ordinaria dei soci a determinare il detto compenso se non è stabilito dallo statuto,

“la spettanza o meno del compenso per l’amministratore di una società di capitali non può essere una circostanza oggetto di presunzione, ma un semplice fatto da accertare; se esiste una delibera assembleare in tal senso ovvero se lo statuto sociale prevede l’importo da attribuire agli amministratori , a questi può essere erogato il compenso, in caso inverso no”.

 

Inoltre l’ordinamento tributario consente solo in via eccezionale la presunzione dell’avvenuto incasso del reddito (ad esempio in caso di capitali dati a mutuo, per i quali l’art. 45, comma 2, del TUIR prevede espressamente tale presunzione).

E’ stato, altresì, rilevato44 che

“la determinazione del reddito fiscalmente rilevante non può avvenire secondo modelli di corrispondenza ai dati della normalità economica, bensì attraverso schemi che consentano di intercettare l’effettivo arricchimento del soggetto passivo. In concreto, non in astratto.

Ciò che può apparire ‘normale’ per la massa potrebbe non esserlo per il singolo”.

 

La Corte di cassazione, risolvendo i contrasti giurisprudenziali insorti in precedenza45, ha affermato, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 21933 del 29 agosto 2008 (20 maggio 2008), che è necessaria una specifica delibera dell’assemblea dei soci per riconoscere la spettanza del compenso agli amministratori delle società di capitali e che è nulla l’attribuzione del compenso in assenza di tale delibera.

E’ stato, in tal modo, chiarito che gli amministratori non possono determinare autonomamente il proprio compenso e ottenere successivamente la ratifica dei soci in occasione dell’approvazione del bilancio nel quale è stata inserita l’apposita voce di spesa.

L’approvazione da parte dell’assemblea dell’attribuzione del detto compenso può avvenire contestualmente all’approvazione del bilancio esclusivamente se è provato che

“l’assemblea convocata soltanto per l’esame e l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, abbia anche espressamente discusso e approvato una specifica proposta di determinazione dei compensi degli amministratori”.

 

La disposizione contenuta nell’art. 2389 c.c. è stata, quindi, ritenuta imperativa e inderogabile dalla Corte, tenuto anche conto del fatto che l’ormai abrogato art. 2630, comma 2, c.c. sanzionava penalmente l’ipotesi della percezione, da parte degli amministratori, di compensi non preventivamente deliberati dall’assemblea e la successiva depenalizzazione della fattispecie non permette di ritenere che il medesimo comportamento, a suo tempo punito come delitto, possa oggi ritenersi consentito, esautorando l’assemblea dei soci della competenza attribuita dall’art. 2389 c.c., la cui disciplina risulterebbe, in tal modo, inutile e superflua.

Alla luce della menzionata interpretazione formulata dalla sezioni unite della Corte di cassazione si pone la questione se gli orientamenti della stessa Corte in ordine alla presunzione di percezione del compenso da parte dell’amministratore siano da ritenere ancora pienamente validi o meno.

Si è già evidenziato che nella sentenza n. 1915 del 2008 la Suprema corte aveva affermato che il contribuente avrebbe potuto fornire la prova della gratuità del mandato sulla base di elementi quali il bilancio e il verbale assembleare di approvazione dello stesso ovvero l’esistenza di una “clausola derogatoria” all’onerosità del mandato stesso nello statuto.

Però nella sentenza n. 21933 la Cassazione ha asserito che l’attribuzione del compenso va considerata nulla in mancanza di una specifica delibera assembleare che la preveda. Non appare, pertanto, possibile attribuire all’amministratore l’onere di provare la gratuità del proprio mandato sulla base di elementi oggettivi diversi dalla semplice evidenziazione dell’assenza della detta specifica delibera.

Dovrebbe, quindi, spettare all’amministrazione finanziaria l’onere di provare (mediante il controllo della contabilità ed, eventualmente, delle risultanze dei conti bancari) che, nonostante la mancanza di tale delibera, sia stato erogato, di fatto, un compenso all’amministratore. Si pone, inoltre, la questione se il compenso sia deducibile da parte della società nel periodo d’imposta in cui avviene l’erogazione anche qualora manchi la detta specifica delibera assembleare di attribuzione del compenso stesso.

Al riguardo dovrebbe senz’altro ritenersi superata l’affermazione della Commissione tributaria provinciale di Lucca46 secondo la quale l’approvazione del bilancio sarebbe condizione sufficiente a dimostrare la certezza del costo sostenuto dalla società in relazione ai compensi degli amministratori, essendo, invece, necessaria la presenza della specifica delibera.

In assenza di tale delibera si potrebbe sostenere che non possano derivare effetti fiscali da un’attribuzione di compensi da considerare nulla ai fini civilistici e che, pertanto, le relative somme vadano considerate dei semplici crediti vantati dalla società nei riguardi degli amministratori47.

 

 

I valori delle transazioni tra società residenti appartenenti allo stesso gruppo

E’ stata posta da tempo la questione del cosiddetto “transfer pricing interno”, cioè della possibilità per gli uffici delle entrate di contestare la congruità dei corrispettivi pattuiti in occasione dei trasferimenti “infragruppo” di beni e servizi, finalizzati a   ripartire l’imponibile tra le varie società del gruppo residenti in Italia per ottenere un vantaggio fiscale.

Tale questione ha assunto ulteriore rilevanza dopo l’abrogazione della disposizione che consentiva di applicare il regime di neutralità fiscale ai trasferimenti che avvenivano tra società che avevano optato per il regime del consolidato fiscale nazionale.

Al riguardo occorre, innanzitutto, esaminare i rapporti tra la problematica in discorso e l’apposita disposizione contenuta nell’art. 110, comma 7, del TUIR, nel quale è stabilito che

“i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente od indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali procedure amichevoli previste dalle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi […]”.

 

Dal punto di vista soggettivo, è dunque necessario che la transazione economica oggetto di rettifica venga posta in essere tra un’impresa residente e una società non residente e che tra le stesse sussista un rapporto di controllo diretto o indiretto.

Va, altresì, tenuto presente che nell’art. 160, comma 2, del TUIR la disciplina del transfer pricing è stata esplicitamente estesa, ai fini della tonnage tax, ai rapporti tra società entrambe residenti che fanno parte dello stesso gruppo.

Con tale intervento si è inteso contrastare comportamenti tesi a concentrare i redditi sui soggetti in regime forfetario (per i quali l’ammontare effettivo dei ricavi contabilizzati relativi alle attività incluse nel regime sarebbe, in ogni caso, irrilevante) e costi deducibili sui soggetti che fanno parte del gruppo ma che, invece, determinano il loro reddito con le ordinarie modalità di tassazione. In tali casi si è inteso, pertanto, evitare possibili arbitraggi fiscali.

L’impossibilità di applicare il disposto dell’art. 110, comma 7, del TUIR alle transazioni tra soggetti residenti è stata riconosciuta dall’Amministrazione finanziaria nella circolare n. 53/E del 26 febbraio 1999, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione48 e in alcune decisioni di merito49.

Si ricorda, peraltro, che nell’originaria bozza di testo unico era stata prevista l’applicazione di tale istituto anche ai rapporti tra aziende italiane, come sottolineato nella relativa nota illustrativa. Tale estensione era stata, però, eliminata in sede di stesura del testo definitivo, in adesione alla proposta formulata dalla Commissione Parlamentare dei Trenta, che aveva invitato il governo ad “evitare l’introduzione nel sistema di incontrollabili poteri discrezionali prevedendo la possibilità di ricorrere a presunzioni iuris tantum”.

Anche nella risoluzione n. 9/198 del 10 marzo 1982 l’Amministrazione finanziaria aveva affermato che “non può escludersi, in linea di principio, che gli Uffici possano far ricorso, in sede di accertamento, al criterio del “valore normale” anche in ipotesi diverse” da quelle normativamente previste, ma in tali casi “la presunzione assume soltanto valore di presunzione relativa”.

Al riguardo è stato rilevato50 che,

“anche se la norma prende in considerazione esclusivamente situazioni nelle quali le operazioni poste in essere dal contribuente generano sottrazione di materia imponibile alla potestà impositiva nazionale, tale strumento può essere utilizzato anche in manovre elusive fra soggetti residenti anche se con effetti decisamente minori.

Infatti, le operazioni potenzialmente a rischio andrebbero ricercate nelle operazioni commerciali poste in essere da soggetti residenti legati da un vincolo di controllo e/o collegamento51, dei quali almeno uno benefici di predeterminate agevolazioni a fini delle imposte dirette.

Si pensi, ad esempio, alla capogruppo cooperativa con funzioni meramente commerciali che controlla una serie di società di capitali deputate alla produzione di beni o servizi, ovvero alla controllata con sede in aree geografiche destinatarie di trattamenti impositivi ridotti, presso cui sono posizionate linee di produzione strategiche nel contesto del gruppo e che ha, quale unico cliente, la controllante commerciale.

I due esempi descritti, che certamente non esauriscono le molteplici forme attraverso cui è possibile sfruttare la grave smagliatura della legge, appaiono particolarmente efficaci in quanto permettono di dimostrare l’insidiosità del fenomeno, che esplica effetto sia sul versante degli elementi positivi di reddito che sui costi d’esercizio. Il primo dei due casi prospettati, infatti, è caratterizzato da un flusso di vendite di prodotti finiti, da parte delle società di capitali controllate verso la cooperativa controllante, il cui prezzo si avvicina il più possibile a quello complessivo.

Di contro, la capogruppo venderà i prodotti ad un prezzo di mercato, generando un volume di ricavi che, in pratica, comprende anche la quota relativa alle società produttrici, con la particolarità, tuttavia, che gli stessi beneficeranno della totale esenzione ai sensi dell’articolo 12 della legge n. 904/1977 o, quantomeno, dell’aliquota sensibilmente ridotta prevista dal titolo III del DPR 601/1973.

Nel secondo degli esempi descritti, che trae origine dalle disposizioni contenute nell’articolo 26 del DPR 601/1973, le cessioni da parte dell’impresa beneficiaria delle agevolazioni saranno operate a prezzi superiori al valore normale, in modo tale da comprimere il reddito dell’acquirente controllante atteso che, ovviamente, l’immissione nel circuito commerciale all’esterno del gruppo non potrà che avvenire a valori correnti52”.

 

E’ stato, però, osservato che uno strumento maggiormente incisivo potrebbe essere rappresentato dalla possibilità di confutare l’inerenza dei costi sostenuti per gli acquisti di beni e servizi infragruppo dando rilievo alla antieconomicità delle scelte compiute dalle società interessate.

Nella citata circolare n. 53/E del 1999 si è esclusa anche l’applicabilità nei casi in esame della norma antielusiva di carattere generale di cui all’art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973, mentre è stato ritenuto possibile fare ricorso: all’accertamento analitico-induttivo dell’art. 39, comma 1, lettera d), ovvero all’interposizione soggettiva fittizia di cui all’art. 37, comma 3, dello stesso DPR n. 600; alla disposizione in materia di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa; alla riqualificazione contrattuale, costruendo la fattispecie come negozio misto di vendita e donazione.

E’ stato, peraltro, osservato53, per quanto concerne la disciplina della interposizione fittizia, che nelle situazioni prospettate non sussiste alcun occultamento di materia imponibile, dato che i valori dichiarati dalle parti corrispondono a quelli effettivamente posti a regolamento delle operazioni considerate e, con riguardo alla destinazione a finalità estranee all’esercizio d’impresa e al negozio misto di vendita e donazione, che l’art. 782 del codice civile prevede per le donazioni la forma dell’atto pubblico ad substantiam.

Nella stessa circolare è stato ritenuto che tutte le operazioni infragruppo poste in essere fra società residenti, al fine di spostare parte degli utili presso quelle società che godono di esenzione fiscale o di minore tassazione, sono riconducibili al fenomeno del transfer pricing interno.

L’esenzione può derivare dal fatto che tali società sono ubicate in zone che godono di esenzione totale o parziale dalle imposte sui redditi oppure hanno perdite fiscali pregresse che possano essere utilizzate per compensare la componente di reddito trasferita per mezzo delle operazioni intercompany.

Nell’ambito delle operazioni poste in essere fra imprese residenti appartenenti allo stesso gruppo, l’Amministrazione finanziaria ha considerato potenzialmente elusive: la deduzione di versamenti effettuati a copertura di perdite; le transazioni commerciali a prezzi distorti di costi o di ricavi presso le filiali nazionali; il prestito o distacco di personale, ecc.

La complessità e la delicatezza della questione ha, comunque, indotto la detta Amministrazione a precisare che se “il ricorso alle suddette norme risultasse di difficile praticabilità, occorrerà valutare la possibilità di suggerire proposte normative” finalizzate a prevedere l’estensione dell’applicazione della norma sul transfer pricing “esterno” anche alle società residenti. L’opzione dell’intervento normativo appare tuttora senz’altro auspicabile.

Il ricorso alla disposizione dell’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973 appare, comunque, prevalere nella giurisprudenza di merito e di legittimità, anche se non mancano in dottrina critiche al riguardo54.

La Commissione tributaria provinciale di Milano ha, ad esempio, affermato, nella sentenza n. 577 del 18 marzo 1998 (riguardante minori ricavi contabilizzati in seguito a cessioni di partite di greggio ad un prezzo inferiore a quello di acquisto), che “la valutazione al valore normale di cessioni di beni fra soggetti residenti presuppone – di regola – l’assenza di corrispettivi” e che “pur se in via di principio non si può negare all’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento di raffrontare i prezzi convenuti fra le parti con quelli praticati dal mercato, il ricorso al criterio del valore normale risulta possibile soltanto se, in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’Amministrazione stessa sia in possesso di elementi comprovanti che i corrispettivi dichiarati siano inferiori a quelli effettivamente conseguiti”.

La Corte di cassazione ha, da parte sua, osservato, nella sentenza n. 10802 del 24 luglio 2002 (riguardante la possibilità di dedurre integralmente i costi di noleggio delle imbarcazioni e degli automezzi noleggiati alla società controllata da quella controllante, che li aveva a sua volta acquisiti dalle proprie controllate) , che la inapplicabilità della disposizione concernente il transfer pricing “esterno” non impedisce all’ufficio di contestare l’inerenza dei costi in presenza di un “comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia”.

Una delle ipotesi nelle quali si possono verificare le contestazioni in esame sono quelle relative alle cosiddette “spese di regia” o management fees, ossia quelle non specificamente imputabili e sostenute dalla società madre anche nell’interesse delle proprie articolazioni periferiche55.

Si ricorda che la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha affermato56, in merito alla deducibilità dei costi per servizi specifici (assistenza tecnica, legale ed amministrativa) resi dalla controllante alla controllata, che:

  • “il contribuente interessato è sicuramente tenuto a fornire alla Amministrazione finanziaria tutti gli elementi che consentano di esprimere un giudizio sull’inerenza e sulla congruità del costo addebitato”;
  • l’inerenza delle spese relative a servizi infragruppo (diversi da quelli finalizzati al soddisfacimento dell’esigenza di controllo della capogruppo, il cui corrispettivo è indeducibile) “può essere riconosciuta quasi esclusivamente sulla base della prova dei servizi svolti dalla prima in favore della seconda e della congruità del costo degli stessi rispetto alla norma”.

Nel caso specifico l’inerenza delle spese è stata desunta: dall’esistenza di un contratto nel quale sono disciplinate le attività di consulenza; dal fatto che, avvalendosi di tali attività, la controllata ha acquisito una società, aumentando notevolmente il proprio volume d’affari; dall’esigenza di evitare doppie imposizioni.

La sentenza è stata, peraltro, giustamente criticata57 perché: sembra mancare, nel caso specifico, un reale accertamento relativo all’effettiva prestazione del servizio e, ancor prima, alla sua individuazione58; nel sistema impositivo italiano (nel quale il consolidamento degli imponibili a livello di gruppo è meramente opzionale) “non si può escludere il travaso di reddito da un soggetto ad un altro al solo fine di ridurre il carico fiscale complessivamente gravante sul gruppo”; nelle transazioni infragruppo interne macroscopiche differenze tra prezzo di trasferimento e valore normale del bene o servizio scambiato possono essere combattute, dal lato dei costi, mediante il ricorso alla dimensione quantitativa dell’inerenza.

Nella sentenza n. 6532 del 3 febbraio 2009 la Suprema Corte ha, inoltre, affermato, con riguardo alle “spese di regia” intercorrenti tra la società capogruppo estera e la stabile organizzazione con sede in Italia, che il requisito dell’inerenza deve essere dimostrato da idonea attestazione tecnico-contabile e dalla inesistenza di duplicazione dei costi.

La prova può dirsi raggiunta quando la natura e la composizione dei servizi prestati alla stabile organizzazione e la loro funzionalità all’attività di questa risultino dai prospetti redatti dalla capogruppo e certificati da una società internazionale di revisione, tenuto conto della funzione di controllo pubblicistico che questa svolge, in posizione di indipendenza rispetto al soggetto che conferisce l’incarico e della responsabilità civile e penale in cui incorre il revisore, iscritto in apposito albo tenuto dalla Consob, che attesti dati non veritieri.

Ne consegue che la revisione rende affidabili le relative attestazioni, le quali, assumendo valore di prova decisiva, non possono essere disattese dall’Amministrazione finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata”59.

Al riguardo è stato osservato60 che l’iniziale diffidenza dell’Amministrazione finanziaria verso la deducibilità delle spese generali riaddebitate infragruppo è stata superata con la relazione del Secit del 26 giugno 1995, n. 60/95 e con la circolare n. 271/E del 1997.

E’ stata, quindi riconosciuta la deducibilità di tali spese al verificarsi dei requisiti di certezza, inerenza e congruità, come si evince anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione61.

La indeducibilità di tali spese si verificherebbe, di conseguenza, soltanto nel caso in cui i riaddebiti nascondano una manovra tesa alla manipolazione delle basi imponibili.

Nella sentenza in esame l’effettivo svolgimento dei servizi è stato considerato provato sulla base del principio della non duplicazione delle funzioni aziendali, non potendo la stabile organizzazione gestire direttamente il servizio richiesto alla casa madre, per la comprovata assenza di una funzione aziendale appositamente dedicata.

Pertanto, se le spese in esame riguardano funzioni amministrative, gestionali, contabili o di tesoreria dovrebbe sussistere il requisito della inerenza, a meno che si tratti dei cosiddetti costi relativi alla “funzione di azionista” della capogruppo, sostenuti, evidentemente, nell’esclusivo interesse di quest’ultima62.

Il descritto orientamento giurisprudenziale risulta coincidere, come già rilevato, con quello dell’Amministrazione finanziaria, la quale ha affermato63, con riguardo alle stabili organizzazioni di soggetti non residenti, che “la posizione pregiudiziale di diniego dell’inerenza delle “spese di regia” deve essere evitata in quanto si traduce, sostanzialmente, in una carenza di motivazione degli avvisi di accertamento” e che,

“per poter fondatamente contestare la deducibilità, in tutto o in parte, delle spese di regia, è opportuno effettuare tutte le possibili ricerche dirette a riscontrarne la certezza, l’inerenza e la congruità”.

 

La Corte di cassazione ha, altresì, esaminato64 il caso dell’inerenza dei costi correlati a servizi infragruppo per la raffinazione di prodotti petroliferi. La questione di diritto sottoposta alla Corte è stata dalla stessa così riassunta:

“se, date due società, rispettivamente madre e figlia, il reddito della prima possa essere diminuito dei costi, sostenuti dalla seconda, per il compimento di operazioni commissionate dalla società madre, contrattualmente impegnata al relativo pagamento, nella misura da esse determinata o se l’ufficio abbia il potere di determinare l’ammontare dei costi secondo criteri di mercato”.

La Cassazione ha sposato quest’ultima tesi, richiamando la giurisprudenza prevalente al riguardo, in base alla quale è stato

“riconosciuto il potere dell’Amministrazione finanziaria di rettificare i componenti negativi di reddito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR 29 settembre 1973, n. 600, anche in presenza di una contabilità regolarmente tenuta”.

 

In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto che il reddito della società madre non possa essere ridotto dei costi sostenuti dalla figlia per il solo fatto che la prima si è contrattualmente impegnata a rimborsarli, ma l’ufficio possa disconoscerne la deducibilità nel caso in cui li ritenga “sproporzionati”.

Al riguardo è stato osservato65 che la sentenza non tiene conto del fatto che l’operazione sindacata non si è realizzata tra soggetti indipendenti, bensì tra soggetti legati da un rapporto partecipativo riconducibile al controllo di diritto.

In altre parole, quand’anche si potesse effettivamente riscontrare una dissociazione tra corrispettivo e valore, essa ben potrebbe giustificarsi nell’attuazione di politiche di trasferimento infragruppo dei beni” 66.

E’ stato, altresì, rilevato67 che:

  • per disconoscere i prezzi di trasferimento nei rapporti infragruppo “domestici” non è sufficiente “un semplice scostamento dai valori di mercato, ma occorrono palesi anomalie e irragionevolezze nella determinazione dei corrispettivi, che si verificano solo in alcune fattispecie limite, delle quali, nel caso all’esame della Corte, non vi sono ragionevoli indizi”;

  • nella sentenza in esame “non viene fatto alcun accenno ai ricavi in capo alla controparte, che l’Ufficio finanziario ha ignorato e si è tenuti ben stretti nel formulare la contestazione, in spregio alle simmetrie che caratterizzano la fiscalità d’impresa. La necessità di aggiustamenti “correlativi” al reddito della controparte, in modo da evitare una doppia imposizione, è, invece,…una delle ragioni che hanno indotto il legislatore a …”legittimare” corrispettivi diversi da quelli che sarebbero stati praticati tra imprese indipendenti, presupponendo che gli squilibri trovino – per simmetria – compensazioni in capo all’altro contraente”.

La Suprema Corte ha, inoltre, affermato, nelle sentenze n. 9469 del 21 aprile 2010 e n. 11154 del 7 maggio 2010, che la mancata percezione di interessi di mora per crediti vantati nei riguardi di società dello stesso gruppo costituisce un comportamento antieconomico e irragionevole, tale legittimare l’accertamento finalizzato alla tassazione di tali interessi. A supporto di tale conclusione nelle dette sentenze è stato rilevato che:

  • non può condividersi la tesi secondo cui la dimostrazione della mancata percezione incombeva all’Agenzia, in quanto, oltre al carattere normalmente oneroso dei mutui, la normativa fiscale prevede, sempre per i capitali dati a mutuo, che si presume, salvo prova contraria, il diritto agli interessi al tasso legale se non convenuti o pattuiti in misura inferiore. A tale riguardo si rileva, però, che tale presunzione è stata dettata con riferimento ai contratti di mutuo e non agli interessi di mora e non è ammissibile l’applicazione analogica di una presunzione legale. Inoltre i crediti verso i clienti sono connessi ad operazioni commerciali anche complesse e che rispondono a logiche di mercato finalizzate ad incrementare le vendite68
  • con specifico riferimento ai crediti tra società dello stesso gruppo la Corte ha affermato, nella sentenza 21157 del 6 agosto 2008, “il principio secondo cui gli interessi attivi (e passivi) – da contabilizzarsi, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata decisione, secondo il criterio di competenza – costituiscono entrate (o uscite) di ciascun contribuente e debbono essere specificamente conteggiati, in virtù dei principi di trasparenza codificati nell’art. 2423 c.c., senza che assuma alcun rilievo il fatto che i rapporti di credito e debito, fonte degli interessi in questione, intercorrano tra società del medesimo gruppo, di guisa che agli effetti del gruppo si determini una mera partita di giro”.

 

Con riguardo alla necessità di tenere sempre presenti le peculiarità dei comportamenti economici dei gruppi di imprese rispetto a quelli degli altri soggetti, la Corte di cassazione ha, inoltre, affermato69 che è evidente che “le strategie degli investimenti di una impresa che si trova a capo di un gruppo non può essere confinata nei limiti di quella propria del c.d. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento di una redditività in tempi brevi.

L’impresa capogruppo può infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela dell’immagine globale del gruppo o nell’intento di assicurarsi una maggiore tutela sul mercato, mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella specie, stabili organizzazioni senza personalità giuridica distinta, anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi”.

In altra occasione la stessa Corte ha evidenziato70 che non si può escludere che, ad esempio,

“all’interno di un gruppo societario venga mantenuta in vita una società in se stessa in perdita, ma funzionale all’attività di altre società del gruppo, che alcuni oneri vengano assunti da una struttura anziché da un’altra, ecc.”.

 

Con riguardo ai gruppi di società la Cassazione ha, pertanto, ritenuto che potrebbe non risultare applicabile il principio, affermato in alcune sentenze71, secondo il quale la circostanza che un’impresa commerciale dichiari, ai fini delle imposte sui redditi, per più anni di seguito delle perdite ovvero sostenga costi sproporzionati ai ricavi costituisce una condotta commerciale anomala anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento, di per sé sufficiente a giustificare la rettifica della dichiarazione.

Si ricorda, peraltro, che l’art. 24 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122, ha stabilito che la programmazione dei controlli fiscali dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza deve assicurare una vigilanza sistematica, basata su specifiche analisi di rischio, sulle imprese che presentano dichiarazioni in perdita fiscale, non determinata dai compensi erogati ad amministratori e soci, per più di un periodo d’imposta e non abbiano deliberato e interamente liberato nello stesso periodo uno o più aumenti di capitale a titolo oneroso di importo almeno pari alle perdite fiscali stesse.

Si ribadisce, inoltre, la necessità che le contestazioni si rivolgano esclusivamente a situazioni di arbitraggio fiscale, come peraltro affermato dalla Corte di cassazione, con riguardo alla norma che prevede la regola del transfer pricing per i rapporti internazionali infragruppo, in relazione alla quale è stato precisato72 che l’Agenzia delle entrate deve accertare se le operazioni siano finalizzate a sottrarre a tassazione reddito in Italia a favore di Paesi esteri con regime impositivo inferiore.

La necessità che si verifichi un arbitraggio dovrebbe, a maggior ragione, sussistere nelle ipotesi in esame, non regolamentate a livello normativo.

 

 

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16 dicembre 2010

Gianfranco Ferranti

 

 

 

NOTE

1 Nella citata circolare n. 16/2009, paragrafo 1.1. e nota 10.

2 Da M. Andriola, “Portata e limiti della sindacabilità da parte del Fisco dei comportamenti assolutamente antieconomici”, in Fiscalitax n. 6/2008, pag. 904.

3 Cfr., al riguardo, R. Lunelli, “Cessione d’azienda: la plusvalenza va determinata in base al prezzo o al valore?”, in Guida ai controlli fiscali n. 9/2007, pag. 73.

4 L’art. 35, comma 2, del DL n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 dello stesso anno aveva inserito, nell’art. 54, terzo comma, del DPR n. 633 del 1972, una disposizione in base alla quale “per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova … s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al secondo comma sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’articolo 14 del presente decreto”.

5 L’art. 35, comma 3, del citato DL n. 223 del 2006 aveva inserito, nell’art. 39, primo comma, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, una disposizione in base alla quale “Per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova … si intende integrata anche se l’infedeltà dei ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni determinato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi …”.

6 A norma dell’art. 1, comma 307, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria 2007).

7 Cioè in base alle quotazioni immobiliari determinate dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del territorio.

8 Dall’art. 1, comma 265, della legge n. 244 del 2007.

9 Circolare 16 febbraio 2007, n. 11/E, paragrafo 12.4.

10 Nella citata sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

11 Ovvero in conseguenza del riporto delle perdite o di un diverso criterio di imputazione temporale.

12 Si vedano le sentenze della Corte di cassazione n. 22023 del 13 ottobre 2006 e n. 11226 del 16 maggio 2007.

13 Da M. Andriola, op. loc. ult. cit.

14 In questa sentenza sono state richiamate, a conferma del principio affermato, le precedenti sentenze n. 15228 del 2001, n. 11109 del 2003 e n. 13205 del 2003.

15 Da R. Lupi, “L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità”, in Corr. Trib. n. 4/2009, pag. 258. A. Salvati, “Riflessioni in tema di antieconomicità e ragionevolezza dell’accertamento induttivo”, in Rassegna Tributaria n. 3/2009, pag. 811, sostiene, invece, che l’effetto dell’assunzione dell’antieconomicità del comportamento del contribuente alla base della rettifica “si sostanzia in un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente”.

16 Cfr., al riguardo, G. Verna, “Il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro vince la prova contabile o da questa è vinto?”, in Boll. Trib. n. 11/2010, pag. 902.

17 Da E. Zanetti, “Prova contraria “facile” all’azienda plusvalente a valore normale”, in Eutekneinfo-Il quotidiano del commercialista del 31 agosto 2010.

18 V. Achilli, “La rilevanza tributaria delle scelte antieconomiche d’impresa”, in Boll. Trib. n. 11/2010, pag. 827, ha, peraltro, osservato che “nella valutazione dell’economicità dell’atto deve poi essere incluso l’errore di scelta imprenditoriale”, in quanto “dall’incoerenza economica di un atto d’impresa, frutto di un comprovato errore di valutazione da parte dell’imprenditore, il tipico cattivo affare, non si può costruire una presunzione dell’esistenza di una realtà dichiarata diversa dalla realtà effettiva”.

19 Si tratta dell’interrogazione n. 5-03498 presentata dal deputato Antonio Pepe.

20 E agli enti di cui all’art. 73, comma 1, del TUIR.

21 Non si condividono, pertanto, le perplessità di D. Liburdi, “Compensi, inerenza ad hoc”, in Italia Oggi del 1° ottobre 2010, pag. 23, il quale ha affermato che la risposta all’interrogazione parlamentare non modificherebbe “nulla rispetto al dibattito che si è generato sulla scorta delle indicazioni dei giudici di legittimità” e che la stessa lascerebbe “comunque il campo ad una applicazione del principio espresso dalla Corte di cassazione non affermandosi né l’assoluta deducibilità dei compensi erogati agli amministratori né una distinzione tra periodi di imposta sui quali le indicazioni della Corte possono essere applicate o non applicate”.

22 Ovvero, in caso di periodo d’imposta non coincidente con l’anno solare, a partire dal periodo che ha inizio a decorrere dal 1° gennaio 2004.

23 Il relatore dell’ordinanza n. 18702 del 2010, Paolo D’Alessandro, aveva, invece, così risposto alla domanda se lo stesso orientamento interpretativo restasse valido dopo la riforma che nel 2004 ha riscritto le norme del Testo unico: “In linea di massima direi di sì. Finora già due diversi collegi della Corte di cassazione si sono espressi nella stessa direzione, in relazione alla vecchia norma. Ma solo quando ci si presenterà l’occasione avremo modo di studiare a fondo la questione in relazione alle nuove norme”. Cfr., al riguardo, M. Longoni, “Compensi, Cassazione avanti tutta”, in Italia Oggi del 14 settembre 2010, pag. 21.

24 Tale decadenza potrebbe non essersi verificata in presenza di periodi d’imposta per i quali non si è fruito del “condono” ovvero sia intervenuta la constatazione di violazioni penalmente rilevanti.

25 E, ante 2004, dall’art. 52 dello stesso TUIR.

26 Cfr., al riguardo: G. Fransoni, “L’indeducibilità dei compensi agli amministratori e i “nonsense” fiscali”, in Corr. Trib. n. 35/2010; L. Miele, “Compensi ai manager fuori rotta”, in Il Sole 24 Ore-Norme e tributi del 27 settembre 2010, pag. 1; G. Andreani e A. Tubelli, “I compensi degli amministratori costituiscono ordinari componenti negativi di reddito”, in Corr. Trib. n. 39/2010, pag. 3201.

27 Cfr., al riguardo: D. Stevanato, “Amministratore non fa rime con imprenditore individuale”, in Il Sole 24 Ore-Norme e tributi del 27 settembre 2010, pag. 1; F. A. Genovese, “Aspetti processuali e sostanziali dell’ordinanza della Cassazione sui compensi degli amministratori”, in Corr. Trib. n. 39/2010, pag. 3197; G. Andreani e A. Tubelli, op. loc. ult. cit.; la circolare n. 13 del 4 ottobre 2010 della Fondazione studi consulenti del lavoro.

28 Da G. Negri, “Giudici più preparati sul fisco”, in Il Sole 24 Ore del 6 ottobre 2010, pag. 34.

29 La Commissione tributaria provinciale di Torino ha affermato, nella sentenza n. 79 del 10 giugno 2009, che nei casi in esame sussiste l’obiettiva incertezza che consente la disapplicazione delle sanzioni, tenendo, evidentemente, conto del contrasto verificatosi nella giurisprudenza di legittimità.

30 Si veda, al riguardo, G. Ferranti, “La prova dell’inerenza e le risultanze delle scritture contabili”, in Corr. Trib. n. 36/2010, pag. 2929; id. “E’ sindacabile la congruità dei compensi attribuiti agli amministratori?”, in Corr. Trib. n. 42/2008, pag. 3379.

31 Si vedano le sentenze della Corte di cassazione del 27 settembre 2000, n. 12813, del 3 agosto 2001, n. 10650, del 6

settembre 2001, n. 11454, del 30 ottobre 2001, n. 13478, e del 12 giugno 2006, n. 20748 (relativa alle somme attribuite agli associati in partecipazione).

32 La sentenza n. 20748 del 2006.

35 Così la sentenza n. 28595 del 2008.

36 Ovvero in conseguenza del riporto delle perdite o di un diverso criterio di imputazione temporale.

37 Si vedano le sentenze della Corte di cassazione n. 22023 del 13 ottobre 2006 e n. 11226 del 16 maggio 2007.

38 Cfr., al riguardo, A. Criscione e L. Gaiani, “Amministratori: i compensi restano deducibili”, in Il Sole 24 Ore del 1° ottobre 2010, pag. 31.

39 Da D. Stevanato, “Compensi corrisposti agli associati in partecipazione e sindacato di congruità del costo”, in Corr. Trib. n. 45/2006, pagg. 35-69.

40 Si veda, al riguardo, F. e L. Dezzani, “Compensi amministratori della controllata riversati alla controllante. Deducibilità fiscale. La sindacabilità o meno del quantum”, in il Fisco n. 43/2006, pag. 6614.

41 Nella sentenza n. 64 del 14 luglio 2006.

42 Cosi le sentenze della Corte di cassazione n. 26081 del 2005, n. 23079 del 2005, n. 2700 del 1997 e n. 3302 del 1996.

43 Da C. Pino, “E’ ‘comportamento antieconomico’ l’attività di amministratore svolta senza percepire compensi?”, in Corr. Trib. n. 12/2008, pag. 958.

44 Da M. Beghin, “Il commento”, in Corr. Trib. n. 12/2008, pag. 962.

45 A favore della tesi della validità della ratifica in sede di approvazione del bilancio dell’autonoma attribuzione dei compensi da parte degli amministratori si erano espresse, tra le altre, le sentenze della Corte di cassazione n. 6935 del 1983, n. 2832 del 2001, n. 28243 del 2005 e n. 11490 del 2007. In senso conforme a quanto affermato dalle Sezioni unite della stessa Corte si erano, invece, pronunciate le sentenze n. 2672 del 1968, n. 3774 del 1995, n. 1319 del 1995, n. 10895 del 2004 e n. 21130 del 2007.

46 Contenuta nella sentenza n. 64 del 14 luglio 2006.

47 Cfr., al riguardo, F. Cornaggia e N. Villa, “Data in causa ai fini della deducibilità”, in Italia Oggi del 6 ottobre 2008, pag. 29.

48 Si veda, in particolare, la sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

49 Ad esempio la sentenza della commissione provinciale di Milano, sez. I, del 18 marzo 1998, n. 577.

50 Da P. Alonzo, G. Committeri, G. Pallaria e G. Scifoni, “Transfer pricing e paradisi fiscali”, collana Temi di reddito d’impresa, IPSOA 2008, pag. 130.

51 Escluse, sino al 31 dicembre 2007, quelle incluse nel regime del consolidato fiscale nazionale.

52 Si veda M. Pisani e R. Pisani, “Prezzo di trasferimento interno ed elusione fiscale”, in Il Fisco, n. 29/2000 pag. 9413, ed anche M. Micheli, “Transfer pricing interno-traslazione del reddito fra tipi diversi di società”, in Il Fisco n. 13/2000, pag. 3561.

53 Da P. Alonzo, G. Committeri, G. Pallaria e G. Scifoni, op. loc. ult. cit.

54 Cfr. C. Rotondaro, “Il transfer pricing interno: brevi note in tema di strumenti giuridici di accertamento e metodi di repressione”, in Diritto e pratica tributaria 2003, I, pag. 101.

55 Cfr., al riguardo, E. della Valle, “La deducibilità dei costi per servizi infragruppo”, in Corr. Trib. n. 42/2008, pag. 3397.

56 Nella sentenza 15 febbraio 2008, n. 82.

57 Da E. della Valle, op. loc. ult. cit.

58 Si ricorda che, in base alle Guidelines dell’OCSE in materia di transfer pricing del 1995, non si giustifica alcun addebito al fruitore dei servizi in presenza di attività che costituiscono espressione della qualità di azionista della capogruppo.

59 Cfr., in tal senso, anche la sentenza 12 marzo 2009, n. 5926.

60 Da F. Tundo, “La deducibilità delle cosiddette management fee nella determinazione del reddito dei gruppi di imprese: spunti per i rapporti tra soggetti residenti”, in Rass. Trib. n. 6/2009, pag. 1816.

61 Si vedano, tra le altre, le sentenze: 8 settembre 2006, n. 19343; 21 febbraio 2008, n. 4416; 14 marzo 2008, n. 6939.

62 Si veda, al riguardo, F. Crovato, “Servizi centralizzati di gruppo e ripartizione dei costi”, in GT – Riv. giur. trib  2008, pag. 494.

63 Nella circolare n. 271/E del 21 ottobre 1997.

64 Nella sentenza dell’11 aprile 2008, n. 9497.

65 Da M. Beghin, “La Cassazione legittima la rettifica della dichiarazione per diversità tra prezzo e valore”, in Corr. Trib. n. 24/2008, pag. 1948.

66 Anche D. Stevanato, “Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla derivazione contrattuale del concetto di reddito”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 86, ritiene che le argomentazioni della Cassazione avrebbero “un senso nelle operazioni tra parti non correlate, dove una significativa discrepanza tra “prezzo pattuito” e “valore di mercato” può essere il sintomo della non veridicità del corrispettivo palese e della presenza di un corrispettivo occulto. In un caso come quello deciso dalla Corte di cassazione non vi era, invece, alcuna ragione per ipotizzare una situazione di questo tipo”.

67 Da F. Crovato, “Il controllo a valore normale nei rapporti commerciali tra mancanza di un “transfer pricing interno” ed esigenze di simmetria impositiva”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 82.

68 Cfr., al riguardo, S. Muleo e M. Mauro, “Sindacabilità delle scelte imprenditoriali sulle modalità di pagamento”, in Corr. Trib. n. 24/2010, pag. 1920, E D. Stevanato, “Crediti verso la clientela e presunzione di percezione degli interessi: un principio di diritto non generalizzabile”, in Dialoghi tributari n. 4/2010, pag. 405, secondo il quale “la sentenza  affastella…un insieme di temi tra loro slegati, in una motivazione priva di un filo conduttore”.

69 Nella sentenza del 1° agosto 2001, n. 10062.

70 Nella sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

71 Si vedano le sentenze n. 21536 del 15 ottobre 2007 e n. 24436 del 4 luglio 2008.

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