Accertamento analitico induttivo: il caffè reso amaro dal Fisco

La Corte di Cassazione, con due distinte sentenze, ha legittimato il caffè corretto fiscalmente (la CTR ha valutato, con giudizio di fatto, gli elementi forniti dall’Ufficio a sostegno della pretesa quali presunzioni gravi, precise e concordanti, senza che la contribuente avesse fornito “prova contraria circa la quantità di polvere di caffè reputata necessaria per preparare una tazzina di caffè”), e ha ritenuto che, qualora il caffè sia stato utilizzato congiuntamente in una pluralità di attività svolte, l’Ufficio non può attribuire a una sola di esse, sulla base della ricostruzione indiretta dei ricavi, i proventi relativi anche a una delle altre

il caffè amaroSe con l’ordinanza n. 21130 del 24 agosto 2018 la Corte di Cassazione ha legittimato il caffè corretto fiscalmente (la CTR ha valutato, con giudizio di fatto, gli elementi forniti dall’Ufficio a sostegno della pretesa quali presunzioni gravi, precise e concordanti, senza che la contribuente avesse fornito “prova contraria circa la quantità di polvere di caffe reputata necessaria per preparare una tazzina di caffè[1]), con l’ordinanza n. 27612 del 30 ottobre 2018 la stessa Cassazione ha ritenuto che qualora il caffè sia stato utilizzato congiuntamente in una pluralità di attività svolte, l’Ufficio non può attribuire a una sola di esse, sulla base della ricostruzione indiretta dei ricavi, i proventi relativi anche a una delle altre.

In particolare, una volta che non è contestata la quantità complessiva di caffè acquistata dall’albergo nel suo insieme, dopo che i ricorrenti hanno dimostrato che parte del caffè è stata venduta, oltre che nel comparto bar, anche nei comparti alberghiero e ristorante, con la produzione in giudizio di tutte le relative fatture, non è possibile ritenere che parte del caffè (cioè quella venduta dal ristorante o addebitata alla camera di albergo) sia stata ceduta “in nero”, senza fatturazione.

In questi casi non v’è stata solo una imprecisione formale, ma un errore che incide sulla “sostanza” dei risultati dell’accertamento, in presenza della prova della fatturazione del prodotto da parte degli altri due comparti (ristorante ed albergo).

Nè la motivazione della sentenza “sana” la contraddittorietà della precedente affermazione laddove aggiunge, a rafforzare il proprio convincimento, che “ciò è dimostrato dal fatto che, a fronte delle 84.300 porzioni di caffè (sul cui numero parte appellante concorda) l’Ufficio ne ha contemplato soltanto la metà (all’albergo) ritenendo che l’altra metà venisse servita al ristorante o al bar con separata fatturazione”, essendo state prodotte in atti le specifiche fatture dell’albergo e del ristorante con l’indicazione del consumo del caffè, anche in tali comparti.

Nè la motivazione supera la contraddizione iniziale quando precisa che “le separate fatturazioni (documentate con insistenza dagli appellanti) sono state “abbuonate” dall’Ufficio perchè il calcolo dell’imponibile relativo all’albergo vede conteggiati soltanto i pernottamenti (senza extra) come pure per il ristorante sono stati conteggiati i pasti ad un prezzo onnicomprensivo di Euro 10,33″.

In tal modo, per la Commissione regionale, l’Ufficio, con riferimento all’accertamento induttivo dei ricavi da attività alberghiera, con il computo di presenze da aggiungere a quelle risultanti dalle fatture, ha calcolato l’imponibile senza tenere conto di quanto l’ospite (che si assume non dichiarato) ha pagato per i consumi extra.

Di nuovo la motivazione risulta contraddittoria, in quanto seguendo tale ragionamento si avrebbe una duplicazione dei “consumi”. Tali consumi risultano, infatti, già fatturati tutti dall’attività di bar, sicchè non se ne può tenere conto anche per calcolare l’imponibile del comparto alberghiero o del comparto ristorante”.

In queste attività, il controllo dei verificatori, diretto alla ricostruzione indiretta dei ricavi, di fatto, viene eseguito verificando il rapporto tra il quantitativo di caffè acquistato e utilizzato nell’anno (considerando, naturalmente, anche gli eventuali acquisti non fatturati emersi nel corso della verifica) e quello necessario per la somministrazione di una consumazione.

In pratica si segue lo stesso percorso logico utilizzato per le rettifiche che investono i ristoranti, dove si parte da dei dati certi – tovaglioli, acqua, coperti, etc- per ricostruire il volume d’affari.

Tuttavia, nel caso di specie, tale metodo doveva tenere conto del fatto che la medesima società esercitava attività di bar, ristorazione ed alberghiera e pertanto la quantità di prodotti acquistata poteva essere venduta separatamente in ciascuno dei singoli comparti.

Per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione[2] il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo per risalire ad un fatto ignoto: gravi sono gli elementi presuntivi oggettivamente e intrinsecamente consistenti e resistenti alle obiezioni, precisi sono quelli specifici e concreti e non suscettibili di diversa o più verosimile interpretazione, e concordanti sono quelli non confliggenti tra loro e non smentiti da altri dati certi.

***                            

[1] Nel caso in questione, secondo la CTR, l’Ufficio aveva calcolato in 8 grammi la polvere di caffè occorrente per una tazzina di caffè, riconoscendo lo sfrido, atteso che “normalmente vengono considerati 6,5 o 7 g.”, e scorporandola dal caffè utilizzato per preparare i cappuccini e da quello venduto sfuso in confezioni. Inoltre, l’accertamento operato aveva tenuto conto dell’ubicazione dell’esercizio (nella stessa zona insistevano altri cinque bar).

[2] Fra le altre, Cass., Sez.I, Sent. del 28 agosto 1996, n.7931

Gianfranco Antico

7 febbraio 2019