La ricostruzione dei ricavi nei ristoranti da parte del fisco: bottigliometro, tovagliometro etc.

Tovagliometro, bottigliometro sono alcuni dei nomi con cui vengono chiamate le tecniche di ricostruzione dei ricavi nelle attività del settore della ristorazione: il Fisco ricalcola il conto economico basandosi sugli ingredienti utilizzati, per dimostrare l’incongruità dei dati riguardanti il numero di coperti o l’utilizzo di materie prime e servizi. In questo articolo di 10 pagine offriamo una panoramica di tali metodologie di controllo

Come il Fisco ricostruisce i ricavi dei ristoranti con i “giusti ingredienti”

accertamento induttivo per ricostruire i ricavi dei ristorantiCome è noto, ormai da diversi anni, l’Amministrazione finanziaria procede al controllo dell’attività dei ristoratori, attraverso gli stessi ingredienti utilizzati dagli imprenditori (pasta, tovaglioli, bottiglie, caffè, acqua…), valorizzando, altresì, l’utilizzo dei tavoli, e gli eventuali acquisti in nero (tipico l’acquisto di pesce), ovvero la manodopera in nero.

In pratica, i verificatori si sostituiscono al ristoratore, calcolando i ricavi che ne derivano dall’utilizzo della materia prima ovvero dei beni strumentali.

Il controllo dei verificatori, diretto alla ricostruzione indiretta dei ricavi, di fatto, può essere eseguito nei ristoranti in due modi diversi:

  1. verifica dei rapporti esistenti tra l’impiego delle materie prime acquistate e utilizzate (considerando, naturalmente, anche gli eventuali acquisti non fatturati emersi nel corso della verifica) e i pasti somministrati risultanti dalle ricevute fiscali emesse;
  2. verifica dei coperti disponibili.

E’ naturale che il primo metodo di controllo potrà essere suffragato dal secondo e viceversa ovvero costituire due autonomi percorsi di controllo.

Ed è ovvio che il metodo di controllo utilizzato è diverso a secondo del tipo di ristorante: in genere, vengono scomposti gli acquisti fatturati, per tipologia merceologica, rilevando le date di approvvigionamento, determinando i pasti somministrati risultanti dalle ricevute fiscali e/o fatture emesse, le percentuali di sfrido relative ad alcuni elementi, gli eventuali deterioramenti dei prodotti e porzioni rimasti invenduti, i possibili diversi impieghi delle materie prime (per esempio, il caffè può essere utilizzato oltre che per la preparazione della bevanda anche per i dolci), e le somministrazione riferibili ai dipendenti e all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci.

In tutte queste ipotesi, l’accertamento redatto dall’ufficio trova naturale collocazione nell’ambito dell’art. 39, comma 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/73, cosiddetto accertamento analitico, con posta induttiva sui ricavi.

Caratteristica principale di tale norma è quella di consentire di desumere “l’esistenza di attività non dichiarate … anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.

Al fine di ritenere correttamente desunta una presunzione semplice, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo, invece, sufficiente che le circostanze sulle quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del secondo come una conseguenza del primo (già accertato in giudizio) alla stregua di canoni di ragionevole probabilità, dovendosi cioè ravvisare una connessione tra la verificazione del fatto già accertato e quella del fatto ancora ignoto alla luce di regole di esperienza che convincano il giudice circa la verosimiglianza della verificazione stessa dell’uno quale effetto dell’altro.

Pertanto, in mancanza di elementi probatori di segno diverso, non può censurarsi l’operato del giudice di merito che, adeguatamente motivando, fondi il proprio convincimento su un unico elemento presuntivo, là dove tale elemento risulti grave e preciso, mentre, dall’altro lato, l’apprezzamento di detto giudice circa l’esistenza degli elementi assunti a fronte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti richiesti dalla legge si sottrae al sindacato di legittimità, se convenientemente motivato alla stregua dei criteri sopra indicati (cfr. Corte Cass. 26 marzo 1997, n. 2700; Corte Cass. 6 giugno 1997, n. 5082; Corte Cass. n. 8494/1998; Corte Cass. 14 settembre 1999, n. 9782).

Il controllo attraverso il numero dei coperti

La quantificazione dei ricavi può essere effettuata, come abbiamo visto, tenendo conto del numero di coperti (dato dichiarato in contraddittorio e constatato in sede di accesso), della diversa utilizzazione a secondo della stagione, dei giorni di chiusura al pubblico, dell’ubicazione dell’esercizio, dei dati dichiarati dalla parte per la somministrazione dei pasti e dei prezzi praticati esposti nel menù dell’anno in esame e acquisito agli atti.

Una ricostruzione eseguita sulla base di tali elementi potrà essere avvalorata da ulteriori indizi:

  • numero dei coperti disponibili;
  • quantità e professionalità degli addetti al servizio sala;
  • costi relativi ai beni di consumo essenziale;
  • ubicazione del ristorante e sua notorietà;
  • rispondenza dei prezzi medi da menù con quelli indicati sui documenti fiscali;
  • uso di tovaglie e tovaglioli;
  • pagamenti a mezzo carte di credito.

 

Esempio pratico per un ristorante tipico estivo

Prospetto relativo alla somministrazione dei pasti nel corso dell’anno
Coperti Mesi di riferimento Giornate lavorative Percentuale di utilizzazione dei coperti Numero di pasti somministrati
120 Gennaio Febbraio Marzo 104 20% = 24 2.496 (104 X
Aprile 24)
120 Maggio Giugno 53 30% = 36 1.908 (53 X 36)
120 Luglio Agosto Settembre 80 70% = 84 6.720 (80 X

84)

120 Ottobre Novembre Dicembre 80 20% = 24 1.920 (80 X 24)
Totale pasti somministrati          13.044

 

Quantificazione del prezzo medio praticato per ogni

somministrazione

Tipologia del pasto Prezzo medio Origine del dato
Primi Piatti 10 euro listino prezzi e dichiarazioni rese in contraddittorio
Secondi Piatti 20 euro listino prezzi e dichiarazioni rese in contraddittorio
Contorni 5 euro listino prezzi e dichiarazioni rese in contraddittorio
Vino 10 euro listino prezzi e dichiarazioni rese in contraddittorio
Sommatoria 45 euro

 

Dall’analisi effettuata si ottengono n. 13.044 somministrazioni nell’anno, che moltiplicate per 45 euro (prezzo medio di ciascun pasto), determinano un importo complessivo di corrispettivi di euro 586.980,00, che vanno raffrontati con i ricavi dichiarati.

Il controllo attraverso le materie prime

Nel corso di questi anni, la Corte di Cassazione ha più volte legittimato la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base di una serie di elementi che investono l’attività stessa (per tutti, il consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia).

Sulla prova presuntiva per il controllo dei ristoranti, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9884 dell’1 marzo 2002 (dep. l’8 luglio 2002), ha avuto modo di affermare che

la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.

Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito di impresa, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. 29 settembre 1973, 600, è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)”.

 

La Corte di Cassazione, nella citata sentenza tovagliometro, dopo aver affermato la legittimità dell’accertamento, sostiene che

una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei pasti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale occorrente per ciascun pasto (Corte Cass. n. 51/1999, cit.)”.

 

Pertanto, l’accertamento, fondato soprattutto sulla presunzione di omessa annotazione e dichiarazione di ricavi da somministrazione di pasti desumibile dalla quantità di tovaglioli utilizzati nel periodo in questione, benché sia di natura induttiva, si basa su elementi certi ed obiettivi tali da far ritenere sicuramente infedele la dichiarazione e, quindi, giustificabile la sua rettifica.

Salvo, infatti, l’apprezzamento della cosiddetta percentuale di scarto, la quale, come si è detto, deve essere applicata per sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (Cass. n. 51/1999), è palese che, in forza dei principi sopra richiamati, il consumo unitario dei tovaglioli impiegati, ovvero il numero di questi, rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente, cioè del tutto legittimamente (senza che intervenga la mediazione di alcun terzo fattore o l’applicazione di alcuna presunzione di secondo grado), presumere il numero dei pasti effettivamente forniti dall’impresa di ristorazione, così da ricostruirne i ricavi in sede di accertamento analitico-induttivo di tali specifiche poste”.

 

E’ legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia), costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sè solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati.

E tuttavia, è evidente che occorre, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (l’uso da parte dei camerieri, e le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli… – cfr. Cass. 20060/2014, 9884/02, 15808/06 e 13068/11).

La stessa Suprema Corte, con la sentenza n. 12121/2000, ha legittimato l’accertamento nei confronti di un ristorante operato dall’ufficio attraverso la quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata. Afferma la Corte,

il reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero dei coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati; oppure dalla quantità di materie prime utilizzate (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; si vedano in questi termini le sentenze della Cassazione n. 12774 del 22 dicembre 1998 e n.12482 dell’11 dicembre 1998 ”. In un simile quadro “appare perfettamente legittimo l’operato della Amministrazione che ha dedotto il reddito del ristorante gestito dal contribuente dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata”.

Principi di fatto ribaditi nella sentenza n. 9884/2002, ove la Corte aggiunge in più che resta salva,

l’apprezzamento della cosiddetta percentuale di scarto, la quale, come si è detto, deve essere applicata per sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (Cass. n. 51/1999)”.

 

Le regole dettate dalla Corte di Cassazione sono presenti anche in ulteriori pronunce: si veda la sentenza n. 16048/2005, con i cui i supremi giudici hanno ritenuto legittimo

“l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base di del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ogni pasto, ciascun cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati, e pur dovendosi, del pari ragionevolmente, presumere una sottrazione dal totale dei tovaglioli usati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, o l’uso da parte dei camerieri”;

e la sentenza n. 8643/2007, che ha legittimato il metodo induttivo utilizzato per la ricostruzione dei ricavi, partendo da un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati, corroborato da altri riscontri, quali la quantità di vino e di altri alimenti consumati.

Ed ancora altre sentenze si segnalano che individuano il dato principe per la ricostruzione nei tovaglioli utilizzati (sentenza n. 8869/2007, secondo cui è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un ristorante sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati; e sentenza n. 12438/2007, secondo cui è legittimo che da un fatto noto, nella specie, dal numero dei tovaglioli, si possa dedurre un primo fatto ignoto, il numero dei coperti e da questo fatto un terzo elemento, il reddito), ovvero sul consumo dell’acqua minerale (sentenza n. 17408/2010, che ha legittimato la ricostruzione indiretta effettuata sulla base del consumo dell’acqua, ritenendo che la stessa

“può anch’esso costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari della società intimata, esercente la medesima attività, in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria, più degli altri elementi indicati dalla parte ricorrente – gas, elettricità, tovaglie e tovaglioli o dal numero di coperti disponibili, dal personale dipendente e dai prezzi praticati”;

sentenza peraltro confermata dalla successiva pronuncia n. 11622 del 15 maggio 2013, ud. 10 dicembre 2012, secondo cui

è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate – Sez. 5, Sentenza n. 17408 del 23/07/2010, Rv. 614681)1

e sentenza n. 25129 del 7 dicembre 2016, secondo cui l’acqua minerale può costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari, “in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante sia della pizzeria”), ovvero dalla materie prime (sentenza n. 6361 del 19 marzo 2014, ud. 26 giugno 2013, con cui la Corte di Cassazione ha legittimato l’accertamento presuntivo, effettuato nei confronti di un ristorante, partendo proprio dall’acquisto delle materie prime).

Sempre secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 12799 del 10.06.2011, ud. del 31.03.2011) è legittimo l’accertamento presuntivo operato nei confronti di una pizzeria, prendendo a base il consumo dell’acqua minerale, poichè esso costituisce

valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari della società intimata…, in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria, più degli altri elementi indicati dalla parte ricorrente (gas, elettricità, tovaglie e tovaglioli o dal numero di coperti disponibili, dal personale dipendente e dai prezzi praticati)“.

 

E con la sentenza n. 20060 del 24 settembre 2014 (ud. 10 febbraio 2014) la Corte di Cassazione ha ancora una volta legittimato l’accertamento effettuato nei confronti di un ristorante, utilizzando il metodo basato sul cosiddetto tovagliometro (l’ufficio recuperava a tassazione i maggiori redditi di impresa, sulla base del numero dei pasti – desumibile dal consumo dei tovaglioli di carta, ridotto di una percentuale di errore del 25% – cosiddetto sfrido – e di stoffa adoperati – maggiore di quelli risultanti dalle fatture e ricevute fiscali emesse negli anni in contestazione).

I massimi giudici, quindi, rilevano che la Corte

ha più volte avuto modo di affermare, in materia, che in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art.39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia), costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sè solo, a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati.

E tuttavia, è evidente che devesi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri, le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli, ecc. (c.d. percentuale di sfrido) (cfr. Cass. 9884/02; 15808/06; 13068/11)”.

 

E quindi, il metodo di ricostruzione del reddito utilizzato dall’Ufficio,

nel caso di specie, deve ritenersi del tutto legittimo”.

E anche il personale in nero misura i ricavi. Infatti, con l’ordinanza n. 24250 del 13 novembre 2014 (ud 17 ottobre 2014) la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo, da parte dell’ufficio, l’utilizzo dell’accertamento induttivo, in presenza di lavoratori in nero impiegati in un ristorante. Per la Corte,

l’impugnata decisione sembra in linea con i richiamati principi, essendo stato, oltretutto, adeguatamente esplicitato sia l’iter logico giuridico seguito per giungere ad affermare la legittimità del metodo di accertamento adoperato, pur con le riduzioni imposte dai Giudici di primo grado, avendo esplicitato che l’accertata utilizzazione di tre lavoratori dipendenti non risultanti dai libri obbligatori, era circostanza, peraltro contestata in sede di accertamento (pag. 3), idonea a far ritenere complessivamente inattendibile la documentazione fiscale e ad integrare la presunzione di maggiori ricavi non dichiarati. Peraltro, la decisione impugnata, aveva pure evidenziato che i Giudici di primo grado, nel rettificare il reddito avevano espressamente tenuto ‘conto dei costi dovuti all’autoconsumo’“.

Mentre, con la sentenza n. 1103 del 18 gennaio 2017 la Corte di Cassazione ha affermato che la determinazione dei maggiori ricavi sulla base di un consumo eccessivo di vino e sproporzionato rispetto al numero dei coperti si presenta aleatoria e determina l’illegittimità dell’accertamento (nel caso in questione i maggiori ricavi erano stati accertati con riferimento ai numeri dei coperti praticati in un anno sulla base del consumo di vino pari a 33 cl. pro capite)2.

Nel caso in questione, il rilievo operato dall’ufficio non veniva condiviso dalla Commissione Tributaria Provinciale, che accoglieva il ricorso del contribuente atteso che

“a) la quantità di consumo di vino per pasto appariva un dato aleatorio, perché variabile in relazione ai gusti ed alle abitudini di ciascun cliente;

  1. un ristorante tipico, come utilizzava una quantità di vino per la preparazione di alcune sostanze;
  2. il vino somministrato ai clienti poteva essere rifiutato dai clienti, per vari motivi”.

 

La CTR rigettava l’appello dell’Ufficio, ritenendo che

nelle presunzioni dell’ufficio mancano i requisiti di gravità, precisione e concordanza perché la mera ipotesi sul consumo medio dei vini non può avere il requisito della concordanza in quanto unico elemento portato all’attenzione dei Giudici, circa la gravità e precisione nel caso di specie manca il fatto noto su cui fondare la presunzione: invero il consumo medio di vino di cui alla nota metodologica non è affatto un dato statistico…”.

Per la Corte,

“assodato che l’apprezzamento della sussistenza del requisito della gravità precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell’accertamento attiene alla valutazione dei mezzi di prova, rimessa in via esclusiva al giudice del merito”,

nel caso di specie,

non è in discussione la validità teorica dell’utilizzo del criterio del consumo di vino, o del numero dei tovaglioli, ma è ovvio che se l’esito del metodo adottato confligge con le possibilità teoriche (come evidenziate nella motivazione della sentenza di primo grado, fatta propria dalla sentenza oggi impugnata con puntuale risposta alle censure mosse) di consumo di vino e di servizio dell’esercizio commerciale, viene meno la attendibilità nel suo complesso della metodologia di accertamento, e ciò attiene alla prova a carico dell’Ufficio, in quanto solo a seguito della valutazione di sufficienza della medesima l’onere di prova contraria si trasferisce sul contribuente”.

Osservano i massimi i giudici che

la Commissione, con valutazione di merito non censurata in sé dall’Ufficio sotto il profilo della correttezza e congruità, ha constatato che l’esito dell’accertamento, portava a presupporre un aumento notevole delle possibilità teoriche di somministrazione pasti, attraverso l’uso del vino da parte dell’esercizio considerato e che tale fatto da solo rendeva inattendibile il calcolo dell’Ufficio. Ha inoltre osservato che occorreva fare riferimento alla media ponderata e non aritmetica sulla base del rilievo, in sé non illogico, che la T.M. serve anche vino sfuso conservato in taniche, che tende a rovinarsi se non consumato nelle 36 ore successive all’apertura e, per questo motivo, la trattoria si era dotata nel 2005 di un impianto di refrigerazione all’azoto per conservare più a lungo il vino sfuso. Inoltre, la CTR considera che: a) è documentato dalle fatture di acquisto che l’incidenza delle bottiglie da 0,375 rispetto agli acquisti totali è al di sotto del 6%, ne consegue che il vino che residua al tavolo dopo i pasti è di quantità considerevole; b) talvolta i clienti chiedono di poter acquistare i vini locali difficili da reperire fuori dai circuiti specializzati”.

 

Questi elementi portano

logicamente a ritenere che la quantità di vino esitata non corrisponda al numero dei clienti del ristorante in sede di legittimità”.

 

Brevi conclusioni

Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 12799 del 10.06.2011, ud. del 31.03.2011)

la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento proprio nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica.

Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi allorchè i dati forniti dal contribuente risultino inattendibili)“.

 

Resta fermo che, nelle rettifiche presuntive, e in particolare nei ristoranti, che presentano diverse sfaccettature (alcune materie prime sono utilizzate per piatti diversi), è necessario che i verificatori “bilancino gli ingredienti”.

 

Per ulteriori approfondimenti sulla materia, puoi leggere:

“Accertamenti fiscali ai parrucchieri”

“La valutazione equitativa non è ammessa nel giudizio tributario”

“Ristoranti: attenzione alle materie prime acquistate”

 

A cura di Gianfranco Antico

18 dicembre 2017

 

NOTE

1 Nella richiamata sentenza n. 11622 del 15 maggio 2013, ud. 10 dicembre 2012, osserva la Corte che, riguardo al settore della ristorazione, non vi è un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, ben potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso ed essendo compito del fisco, prima, e del giudice tributario di merito, poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta. “Nella prova per presunzioni, il giudice di merito deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento. Occorre, prima, una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Occorre, poi, una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida presunzione semplice, nel senso che ognuno rafforzi e tragga vigore dall’altro in rapporto di vicendevole completamento (Sez.5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012, Rv. 622995)”. Ed è ciò che ha fatto, nella specie, “il giudice di appello che:

  • ha scartato i dati sul consumo unitario dei tovaglioli risultanti dalla fatturazione dei lavaggi preferendo altro dato obiettivo ossia quello del consumo di acqua minerale, il cui legittimo utilizzo estimativo è confermato dalla giurisprudenza di questa Corte;
  • ha, inoltre, trovato ulteriore riscontro al proprio convincimento nella relazione tra unità di pasto e consumo di caffè;
  • indi, ha riscontrato che, ben potendo i consumi di acqua minerale e caffè essere inferiori all’effettivo numero dei pasti a seconda delle preferenze dei clienti in tema di bevande, il risultato finale è approssimato per difetto ed è, dunque, più che favorevole per le parti contribuenti e tale da coprire anche l’incidenza dell’autoconsumo (soci; personale di sala e di cucina)”.

riduttive (autoconsumo, sfrido etc.; cfr. gli abbattimenti di cui al p.v.c. richiamato nell’accertamento e nelle difese erariali di merito), dovendosi ricordare che il deperimento non ha senso per le acque minerali ed è poco verosimile per un elemento di continuo consumo come il caffè, mentre l’invocato utilizzo in cucina nelle preparazioni ha scarso senso per l’acqua minerale mentre manca qualsiasi riferimento, finanche grafico, a non consuete preparazioni (es. di pasticceria) a base di caffè”. Ed ancora, quanto ai dati sulla fatturazione del lavaggio dei tovaglioli, “essi forniscono nello specifico caso in esame conclusioni illogiche, perchè, tali dati, anche se rapportati al prezzo/coperto stimato dall’Ufficio, portano, per espressa indicazione delle ricorrenti, addirittura a un ammontare di ricavi (L. 1.006.489.320) inverosimilmente inferiore a quello dichiarato (L. 1.035.819.000), il che costituisce indubbio indice rivelatore della inattendibilità dei dati medesimi, scartati dal giudice di merito e additati a sospetto dalla controricorrente (perchè inficiato dal possibile ricorso a prestazioni non fatturate, ad es. perchè effettuate in proprio)

2 Cfr. DE VITA, Gli astemi salvano i contribuenti, in Rassegna Tributaria, n. 4/2017, pag. 1062.

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