I presupposti per il tovagliometro

uno dei metodi accertamento induttivo più utilizzati contro i ristoranti è il cosidgetto “tovagliometro”: analizziamo i presupposti per tale tipo di accertamento e le modalità con cui il Fisco può desumere fatturato ed utili non dichiarati dal contribuente

tovagliometro per ricostruire il fatturato dei ristorantiLa sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze n. 597/3/15 del 15 settembre 2015 ha risolto, a favore del contribuente, un contenzioso in tema di presupposti per l’accertamento induttivo e tovagliometro.

L’Agenzia delle Entrate, nel corso dell’anno 2011, aveva infatti invitato una società, che gestiva bar e ristorante, a produrre tutta la documentazione contabile e giustificativi di spese relativi all’anno d’imposta 2007.

La società vi provvedeva e produceva il libro cespiti, registri IVA, fatture di acquisto e di vendita, estratti conti bancari, relative contabili e bilancio di verifica.

Non produceva però il dettaglio delle rimanenze iniziali e le ricevute emesse nell’anno 2007.

L’Ufficio rilevava allora che il libro cassa evidenziava numerosi saldi negativi e che le rimanenze a fine esercizio comprendevano solo vini e spumanti e non faceva cenno a prodotti alimentari.

Da questo l’Ufficio deduceva che il saldo cassa a fine anno fosse inattendibile e per nulla indicativo della reale movimentazione dell’anno; quanto alle rimanenze riteneva poi poco probabile che queste fossero costituite solo da vini e spumanti.

L’Ufficio procedeva quindi alla ricostruzione induttiva dei ricavi sulla base di un campione di ricevute, utilizzando la metodologia del cd. “tovagliometro”, caratterizzato dalla seguente sequenza:

  • quantificazione dei tovaglioli lavati in base alle fatture ricevute dalla lavanderia di cui si serviva il ristorante;
  • quantificazione dei coperti risultanti dalle ricevute emesse;
  • differenza tra tovaglioli utilizzati e tovaglioli lavati;
  • valorizzazione dei maggiori ricavi sulla base della differenza tra tovaglioli utilizzati e tovaglioli lavati.

In base alla ricostruzione così effettuata l’Ufficio accertava dunque un maggior reddito d’impresa ai fini IRES ed IRAP per Euro 112.774,65 e, ai fini IVA, un maggior imponibile di Euro 112.774,65.

L’accertamento veniva impugnato dalla società che contestava il metodo induttivo seguito dall’Ufficio e i risultati cui era giunto.

Il ricorso, secondo la CTP, doveva essere accolto. L’Ufficio, secondo i giudici di merito, aveva infatti proceduto all’accertamento induttivo senza che ve ne fossero i presupposti.

L’accertamento induttivo può essere del resto utilizzato anche quando esistono scritture e contabilità formalmente corrette, ma sia stata rilevata l’esistenza di attività o ricavi non dichiarati o l’inesistenza di passività dichiarate, oppure dove esistano gravi incongruenze fra i ricavi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta o dagli studi di settore ove applicabili.

Nel caso di specie però la società aveva fornito tutta la documentazione richiesta ed aveva prodotto tutti i libri contabili e dopo averli esaminati l’Ufficio aveva rilevato solo la mancata presentazione del dettaglio delle rimanenze iniziali, rilevabili peraltro dal libro inventari.

Tale mancanza, secondo i giudici, non era dunque da sola sufficiente a rendere sostanzialmente inattendibile la contabilità.

Né tali potevano essere considerati i “saltuari saldi negativi di cassa rilevati nel periodo”.

Infine, anche la non congruità dei ricavi dichiarati e la non coerenza dell’indice di ricarico, nonostante l’adeguamento operato dalla società, erano, secondo la Commissione, privi di significato, anche considerato che, anche nel merito, la ricostruzione operata dall’Ufficio sulla base del cd. “tovagliometro” era tutta da dimostrare.

La società era del resto in regola con l’applicazione degli studi di settore e dunque, conclude la CTP nella sentenza in commento, anche sotto questo aspetto l’accertamento appariva immotivato, non risultando nel caso di specie sussistenti i presupposti per un accertamento induttivo.

La CTP di Firenze ha dunque ritenuto in realtà prevalente il dato “formale” della regolare applicazione degli studi di settore, rispetto a quello “sostanziale” della ricostruzione da tovagliometro, confermando così come la ”arma” degli studi di settore, mero strumento di ricostruzione statistica, sia in realtà un’arma a doppio taglio, a volte anche a sfavore della stessa Amministrazione.

Il cosiddetto “tovagliometro” è del resto ormai uno strumento sempre più usato dall’Amministrazione Finanziaria e l’efficacia del suo utilizzo è stata peraltro confermata anche dalla giurisprudenza di legittimità.

Al fine infatti di verificare, sotto il profilo sostanziale, quanto rappresentato in contabilità, e di approfondire eventuali incongruenze, l’Amministrazione Finanziaria può, attraverso tale strumento, ricostruire il reddito di impresa prendendo a riferimento il numero di coperti utilizzato nel corso dell’anno oggetto di controllo.

Proprio la irregolare tenuta del libro degli inventari, in particolare sotto il profilo delle rimanenze, rappresenta del resto un elemento fondamentale per tale tipo di controllo e tale da legittimare la conclusione che le scritture contabili siano considerate inattendibili, in quanto irregolarmente tenute.

L’inattendibilità delle scritture contabili, sotto il profilo della irregolarità della loro tenuta e della loro conservazione, legittima del resto, come noto, anche la possibilità di procedere ad accertamento analitico-induttivo di cui agli artt. 39 e 40 D.P.R. 600/73, soprattutto laddove la sostanziale inattendibilità della contabilità venga eventualmente confermata anche dalla antieconomicità nella gestione dell’impresa.

E’ peraltro la Cassazione a dire, espressamente, con la sentenza n. 24436 del 02.10.2008, che

“… anche in presenza di una contabilità formalmente regolare come nella specie, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi, senza riscontro analitico della documentazione, secondo il metodo cosiddetto ‘induttivo’, purché l’accertamento in rettifica risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ. e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie”.

A tal punto, partire dalla premessa che al coperto di ogni cliente debba corrispondere almeno un tovagliolo nell’apparecchiatura del tavolo, e conteggiare i tovaglioli di stoffa, come ricavati dalle fatture della lavanderia di riferimento, utilizzati dalla società nell’arco dell’anno per valutare la rispondenza di quanto fatturato ai coperti effettivamente utilizzati, sembrerebbe in effetti rispondere ai criteri di “comune esperienza” richiamati dalla Suprema Corte.

Certo, tanto più tale ricostruzione sarà dettagliata e “raffinata” (magari tenendo conto delle differenze tra pranzo e cena, dell’uso anche di tovaglioli di carta, di uno “sfrido” di tovaglioli, dovuto all’uso che dei tovaglioli fanno i camerieri per servire al tavolo, per coprire o appoggiare le portate etc, e che abbatta dunque anche il numero di tovaglioli di stoffa utilizzati), tanto più forte sarà la sua valenza probatoria.

La piena ammissibilità delle presunzioni del cosiddetto “tovagliometro”, come detto, è stata spesso per tali motivi confermata dalla Corte di Cassazione, la quale, tra le altre, con la sentenza n. 12438 del 28 maggio 2007, pronunciandosi proprio in relazione alla legittimità di accertamenti fondati sul numero di tovaglioli, lavati (e quindi utilizzati) nell’ambito di un’attività di ristorazione, dopo aver rilevato che il ragionamento inferenziale che collega i tovaglioli lavati al maggior reddito sottratto ad imposizione costituisce un ragionamento presuntivo, ha ammesso la sua piena legittimità in quanto del tutto ragionevole.

Ancora la Cassazione, con la Sentenza n. 8869 del 13 aprile 2007, aveva poi avuto modo di sottolineare come

“… è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati” (cfr. anche Cass. 8 luglio 2002, n. 9884).

La prova per presunzioni ai fini dell’accertamento tributario, quindi, non esige, in realtà, che il fatto ignoto sia desumibile da una pluralità di fatti noti, cioè una pluralità di fonti certe che convergano verso un identico risultato logico-deduttivo, bastando infatti anche un unico fatto noto.

E nel caso di specie, a ben vedere, i fatti noti, ritenuti però non sufficienti dalla CTP, erano diversi: i saldi di cassa negativi, la non congruità dei ricavi e la non coerenza dell’indice di ricarico, la mancata presentazione del dettaglio delle rimanenze iniziali ed infine i risultati del tovagliometro, a sua volta basato sul fatto noto costituito dal periodico lavaggio di tovaglioli, nell’ambito della gestione del ristorante, per quantità eccedenti quelle che avrebbe richiesto la clientela a cui la dichiarazione annuale dei redditi faceva riferimento.

27 gennaio 2016

Giovambattista Palumbo