Ristoranti: attenzione alle materie prime acquistate

tovagliometro, bottigliometro… sono tante le modalità di accertamento induttivo possibili contro le attività del settore della ristorazione: il Fisco può legittimamente presumere il reddito dai dati delle materie prime acquistate per ricalcolare il numero dei coperti serviti

Con la sentenza n. 6361 del 19 marzo 2014 (ud. 26 giugno 2013) la Corte di Cassazione ha legittimato l’accertamento presuntivo, effettuato nei confronti di un ristorante, partendo dall’acquisto delle materie prime.

Il processo

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Molise che, accogliendo l’appello della società esercente attività di ristorante pizzeria, ha annullato l’avviso di accertamento ai fini dell’IRPES e dell’ILOR per l’anno 1993, col quale con metodo induttivo era stata rettificata la dichiarazione, determinando un maggiore reddito in relazione a ricavi non fatturati e contabilizzati.

Il giudice d’appello rilevava, tra l’altro, “l’assoluta mancanza di qualsiasi presupposto logico e giuridico giustificativo dell’operato dell’ufficio” nell’accertamento induttivo effettuato, basato “esclusivamente su presunzioni che, di fatto, nessun riscontro possono trovare nel caso concreto“.

Il maggior reddito era stato infatti accertato, in via solo presuntiva, considerando il numero di somministrazioni di alimenti al pubblico, determinato sulla base del quantitativo di materie prime acquistate per la preparazione dei piatti, senza considerare che le materie alimentari acquistate non possono essere interamente utilizzate, stante la perdita parziale dovuta a calo di peso, sfrido, deterioramento… “Le stesse dichiarazioni fatte dalla contribuente in merito ai quantitativi di merce utilizzata ai fini culinari non assume alcuna valenza e rilevanza probatoria, trattandosi di generi alimentari e dunque, in quanto tali, soggetti a facile ed oggettivo deterioramento. Dunque, mancando nella fattispecie i requisiti della gravità, precisione e concordanza, così come richiesto dalla normativa tributaria vigente, l’accertamento fiscale induttivo posto in essere dall’ufficio, ex D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. c) e d), si appalesa del tutto infondato e illegittimo“.

La sentenza

I giudici supremi rilevano che dalla sentenza impugnata risulta che l’ufficio assumeva di aveva effettuato “l’attività di rettifica induttiva sulla scorta delle risultanze emerse durante il controllo delle scritture contabili e documentali della stessa, nonchè sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla parte in sede di verifica eseguite dalla Guardia di finanza ed inoltre dalle risposte indicate sul questionario n. 86/97 inviato alla società“. L’attività compiuta era legittima, “potendosi desumere la esistenza di ricavi non dichiarati sulla scorta di presunzioni semplici, precise e concordanti, derivanti da dati e notizie individuati dall’ufficio oppure dichiarati dalla parte, idonei alla ricostruzione indiretta di un reddito non espresso ed indicato dalla contribuente“.

La Corte, sul punto, richiama un proprio precedente con cui ha chiarito che “mentre in presenza di irregolarità della contabilità meno gravi, contemplate dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, l’amministrazione può procedere a rettifica analitica, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente, ovvero dimostrando, anche per presunzioni, purchè munite dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., l’inesattezza o incompletezza delle scritture medesime, allorquando, invece, constati un’inattendibilità globale delle scritture, l’ufficio è autorizzato, ai sensi del successivo comma 2, a prescindere da esse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva. La circostanza che le irregolarità cantabili siano così gravi e numerose da giustificare un giudizio di complessiva inattendibilità delle stesse rende, dunque, di per sè sola legittima l’adozione del metodo induttivo, senza che sui presupposti per il ricorso ad esso incidano le modalità con cui tale forma di accertamento viene poi eseguita: l’amministrazione può quindi utilizzare elementi esterni rispetto alle scritture, ma anche dati da queste emergenti, nella misura in cui risultino singolarmente affidabili. L’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo non esclude, infatti, che l’amministrazione possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico di cui all’art. 39, comma 1, oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie” (Cass. n. 27068 del 2006; ed inoltre, Cass. n. 25001 del 2006 e n. 23096 del 2012).

 

Le sentenze della Cassazione maggiormente significative

Indichiamo, brevemente, le diverse sentenze sulla prova presuntiva per il controllo dei ristoranti, emesse dalla Corte di Cassazione.

  • Sentenza n. 51 del 14 luglio 1998, dep. il 7 gennaio 1999, secondo cui è legittimo l’avviso di accertamento che ricostruisca presuntivamente i ricavi di un ristorante sulla base del numero dei tovaglioli fatti lavare e sul consumo delle materie prime. La Corte ritiene corretto “il procedimento accertativo dell’ufficio, costituendo dato assolutamente normale quello per cui per ciascun pasto ogni cliente adoperi un solo tovagliolo, ed essendo poi ragionevolmente possibile e verosimile ricavare dal numero dei tovaglioli usati il numero dei pasti consumati, pur dovendosi ragionevolmente sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (posti dei soci e dei dipendenti, uso da parte dei camerieri, ecc.); così come, una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei posti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale per ciascun posto (cfr. Cass. n. 23091/1991)”.

  • Sentenza n. 12121 del 19 aprile 2000, dep. il 15 settembre 2000, che ha legittimato l’accertamento nei confronti di un ristorante operato dall’ufficio attraverso la quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata. Afferma la Corte, “il reddito di un ristorante può essere dedotto dal numero dei coperti, a sua volta dedotto dal numero di tovaglioli lavati; oppure dalla quantità di materie prime utilizzate (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; si vedano in questi termini le sentenze della Cassazione n. 12774 del 22 dicembre 1998 e n.12482 dell’11 dicembre 1998”. In un simile quadro “appare perfettamente legittimo l’operato della Amministrazione che ha dedotto il reddito del ristorante gestito dal contribuente dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata”.

  • Sentenza n. 9884 del 1° marzo 2002, dep. l’8 luglio 2002, secondo cui “… è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)”. La Corte di Cassazione, dopo aver affermato la legittimità dell’accertamento, sostiene che “una volta calcolata la quantità normale di materie prime che si utilizza per ciascun pasto, è ragionevole desumere che il numero dei pasti sia uguale alle materie prime acquistate diviso la quantità normale occorrente per ciascun pasto (Corte Cass. n. 51/1999, cit.)”. Resta salva, “l’apprezzamento della cosiddetta percentuale di scarto, la quale, come si è detto, deve essere applicata per sottrarre i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi (Cass. n. 51/1999), è palese che, in forza dei principi sopra richiamati, il consumo unitario dei tovaglioli impiegati, ovvero il numero di questi, rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente, cioè del tutto legittimamente (senza che intervenga la mediazione di alcun terzo fattore o l’applicazione di alcuna presunzione di secondo grado), presumere il numero dei pasti effettivamente forniti dall’impresa di ristorazione, così da ricostruirne i ricavi in sede di accertamento analitico-induttivo di tali specifiche poste”.

  • Sentenza n. 16048 del 28 aprile 2005, dep. il 29 luglio 2005, che ha ritenuto legittimo “l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base di del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ogni pasto, ciascun cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati, e pur dovendosi, del pari ragionevolmente, presumere una sottrazione dal totale dei tovaglioli usati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, o l’uso da parte dei camerieri”.

  • Sentenza n. 8643 del 13 marzo 2007 (dep. il 6 aprile 2007). Per la Corte, i giudici di secondo grado hanno osservato che, “nel caso di specie, l’ufficio avrebbe legittimamente applicato il metodo induttivo per la ricostruzione degli esatti ricavi, giungendo a risultati accettabili, pur in presenza di un solo dato certo costituito dal numero di tovaglioli lavati. Ma poi, in realtà, enumera altri dati giustificativi della presunzione di reddito, affermando testualmente che – nel caso in esame i fatti noti sono: il numero dei tovaglioli lavati, i prezzi dei singoli pasti ricavati dalle ricevute fiscali esaminate; aggiungendo a ciò il rilievo che il numero presunto dei coperti serviti trovava riscontro nella quantità di vino e di altri alimenti consumati”.

  • Sentenza n. 8869 del 5 marzo 2007, dep. il 13 aprile 2007, secondo cui è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un ristorante sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati.

  • Sentenza n. 12438 del 28 marzo 2007 (dep. il 28 maggio 2007), secondo cui è legittimo che da un fatto noto, nella specie, dal numero dei tovaglioli, si possa dedurre un primo fatto ignoto, il numero dei coperti e da questo fatto un terzo elemento, il reddito.

  • Sentenza n. 17408 del 23 luglio 2010 (ud. del 24 giugno 2010) che ha legittimato la ricostruzione indiretta effettuata dall’ufficio, ad un ristorante, sulla base del consumo dell’acqua. La Corte richiama suoi precedenti, ove ha ritenuto che “nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità. Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, (quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sè solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili)” (cfr., Cass. civ. sentt. nn. 51/1999, 6465/2002, 9884/2002). “Se tale presunzione è stata più volte ritenuta valida per l’accertamento del reddito di un impresa di ristorazione deve anche convenirsi che le stesse considerazioni devono ritenersi valide anche in caso di accertamento I.V.A. e che l’elemento de quo (acqua minerale) può anch’esso costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva del volume di affari della società intimata, esercente la medesima attività, in quanto il consumo dell’acqua minerale deve ritenersi un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate sia nel settore del ristorante che della pizzeria, più degli altri elementi indicati dalla parte ricorrente (gas, elettricità, tovaglie e tovaglioli o dal numero di coperti disponibili, dal personale dipendente e dai prezzi praticati)”.

  • Sentenza n. 11622 del 15 maggio 2013 (ud. 10 dicembre 2012) secondo cui “è legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate (Sez. 5, Sentenza n. 17408 del 23/07/2010, Rv. 614681)”. Inoltre, non può dirsi che, riguardo al settore della ristorazione, vi sia un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi, ben potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso ed essendo compito del fisco, prima, e del giudice tributario di merito, poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta.Nella prova per presunzioni, il giudice di merito deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento. Occorre, prima, una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Occorre, poi, una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida presunzione semplice, nel senso che ognuno rafforzi e tragga vigore dall’altro in rapporto di vicendevole completamento (Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012, Rv. 622995)”. Ed è ciò che ha fatto, nella specie, “il giudice di appello che: (a) ha scartato i dati sul consumo unitario dei tovaglioli risultanti dalla fatturazione dei lavaggi preferendo altro dato obiettivo ossia quello del consumo di acqua minerale, il cui legittimo utilizzo estimativo è confermato dalla giurisprudenza di questa Corte; (b) ha, inoltre, trovato ulteriore riscontro al proprio convincimento nella relazione tra unità di pasto e consumo di caffè; (c) indi, ha riscontrato che, ben potendo i consumi di acqua minerale e caffè essere inferiori all’effettivo numero dei pasti a seconda delle preferenze dei clienti in tema di bevande, il risultato finale è approssimato per difetto ed è, dunque, più che favorevole per le parti contribuenti e tale da coprire anche l’incidenza dell’autoconsumo (soci; personale di sala e di cucina)”. Per la Corte, “il risultato finale, essendo approssimato per difetto è in grado di coprire anche ipotesi riduttive (autoconsumo, sfrido etc.; cfr. gli abbattimenti di cui al p.v.c. richiamato nell’accertamento e nelle difese erariali di merito), dovendosi ricordare che il deperimento non ha senso per le acque minerali ed è poco verosimile per un elemento di continuo consumo come il caffè, mentre l’invocato utilizzo in cucina nelle preparazioni ha scarso senso per l’acqua minerale mentre manca qualsiasi riferimento, finanche grafico, a non consuete preparazioni (es. di pasticceria) a base di caffè”. Ed ancora, quanto ai dati sulla fatturazione del lavaggio dei tovaglioli, “essi forniscono nello specifico caso in esame conclusioni illogiche, perchè, tali dati, anche se rapportati al prezzo/coperto stimato dall’Ufficio, portano, per espressa indicazione delle ricorrenti, addirittura a un ammontare di ricavi (L. 1.006.489.320) inverosimilmente inferiore a quello dichiarato (L. 1.035.819.000), il che costituisce indubbio indice rivelatore della inattendibilità dei dati medesimi, scartati dal giudice di merito e additati a sospetto dalla controricorrente (perchè inficiato dal possibile ricorso a prestazioni non fatturate, ad es. perchè effettuate in proprio)”.

2 maggio 2014

Roberta De Marchi