I terreni posseduti dalle società: questioni fiscali

Una guida approfondita alle problematiche fiscali che riguardano i terreni posseduti dalle società: il reddito degli immobili patrimoniali; detrazione e indetraibilità dell’IVA; cessioni di terreni edificabili; aree non edificabili: IVA e registro; piani di lottizzazione; piani di recupero edilizio; piani di recupero e riqualificazione urbana; convenzioni con gli enti locali; demolizione con successiva costruzione sull’area; valore normale e valore venale; i terreni delle società non operative.

Indice degli argomenti

  • Il reddito degli immobili patrimoniali
  • Detrazione e indetraibilità dell’IVA
  • Le cessioni di terreni edificabili
  • Aree non edificabili: IVA e registro
  • I piani di lottizzazione
  • I piani di recupero edilizio
  • Piani di recupero e riqualificazione urbana
  • Le convenzioni con gli enti locali
  • La demolizione con successiva costruzione sull’area
  • Valore normale e valore venale
  • I terreni delle società non operative

I terreni posseduti dalle imprese: aspetti generali

terreni posseduti dalle impreseIl possesso di terreni da parte imprese delle presenta numerosi aspetti di tipo civilistico e di natura tributaria; in termini generalissimi, può affermarsi che il terreno (area edificabile, non edificabile, edificata) viene inquadrato diversamente a seconda sia della natura, sia della destinazione cui è preposto, con conseguenze sia nel comportamento in bilancio (classificazione), sia quanto alla tassazione in caso di redditi prodotti anche in sede di cessione dell’area.

In generale, escludendo l’ipotesi dell’utilizzo agricolo-strumentale, il trasferimento di un terreno viene valutato (sotto il profilo tributario) in ragione della sua edificabilità, cioè della possibilità di costruirvi fabbricati (industriali, commerciali, abitativi), ovvero della presenza nell’area trasferita di fabbricati già edificati.

Occorre altresì considerare che il settore immobiliare è tuttora penalizzato da una pluriennale crisi economica e i trasferimenti di immobili strumentali sono resi più difficili dal venir meno della domanda da parte delle imprese. Tale situazione si ripercuote negativamente sulla possibilità (per le imprese di gestione, compravendita e costruzione immobiliare)– di soddisfare i risultati economici minimi richiesti dalle normative speciali in materia di società non operative (art. 30, L. L. 23.12.1994, n. 724) e in perdita sistemica (art. 2, cc. da 36-quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148).

I terreni come beni immobili nel reddito di impresa

Le aree di proprietà delle società, e delle imprese in generale, possono essere edificabili, non edificabili ovvero edificate, e in tale ultima ipotesi il loro valore deve essere separato rispetto al fabbricato che su di esse insiste, o rispetto al quale esse assumono carattere pertinenziale.

Come è noto, le imprese possono possedere immobili che concorrono in vario modo all’attività, ovvero non vi concorrono e sono semplicemente tenuti a disposizione.

Sotto il profilo tributario, i beni immobili delle imprese – fabbricati e terreni – si suddividono in:

  • strumentali per destinazione (art. 43, primo comma, primo periodo, TUIR);
  • strumentali per natura (art. 43, primo comma, secondo periodo, TUIR);
  • immobili «merce», produttivi di ricavi secondo le previsioni dell’art. 85 del TUIR;
  • «patrimoniali» (art. 90, TUIR). Si rammenta che sono strumentali:
  • per destinazione, tutti gli immobili – civili o commerciali – utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’impresa da parte del loro possessore;
  • per natura, gli immobili che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni, anche se non utilizzati o concessi in locazione o in comodato.

Gli immobili-merce, ovvero immobili del «magazzino», sono iscritti nel conto economico nell’attivo circolante e non tra le immobilizzazioni materiali, e sono tipicamente detenuti dalle imprese di costruzione e rivendita immobiliare.

Sotto il profilo civilistico un bene immobile può essere «non strumenta- le» se esso, già destinato all’attività economica dell’impresa, è temporaneamente non utilizzato nell’attività produttiva, ed eventualmente con- cesso in locazione.

Sotto il profilo fiscale, invece, il bene materiale o è «strumentale», e pertanto partecipa al reddito dell’impresa indiretta- mente, concorrendo alla produzione dei ricavi ottenuti concorrendo allo svolgimento dell’attività economica propria, oppure esso è un «bene- merce», costituente il «magazzino», poiché destinato a essere impiegato nella vendita, oppure nella trasformazione o comunque nella predisposi- zione di operazioni atte a produrre direttamente un beneficio economico, inquadrabile nella definizione di «ricavo» ex art. 85 del TUIR.

Sono invece «patrimoniali» gli immobili che non sono né strumentali, né «merce», i cui redditi concorrono al reddito complessivo dell’impresa secondo i coefficienti catastali, ovvero, se superiori, in ragione dei canoni locativi percepiti.

 

Il reddito degli immobili patrimoniali

Gli immobili situati in Italia, diversi da quelli strumentali e da quelli costituenti il «magazzino» (tipicamente, dell’impresa di costruzioni) concorrono alla formazione del reddito d’impresa secondo criteri catastali, e le spese ad esse afferenti sono fiscalmente indeducibili (art. 90, TUIR). La cessione di tali immobili genera plusvalenze imponibili ai sensi del- l’art. 86 del TUIR.

L’indeducibilità dei componenti reddituali negativi appare giustificata dal fatto che si tratta di beni in qualche modo isolati dal compendio patrimoniale impiegato nell’esercizio dell’attività d’impresa, e per tale moti- vo le relative spese sono oggetto dell’«abbattimento» forfetario del 15% (25% per Venezia e le isole) del canone di locazione (art. 37, c. 4-bis, TUIR), o si intendono comunque «assorbite» dall’utilizzo del criterio ca- tastale (art. 37, c. 1, TUIR).

 

Detrazione e indetraibilità dell’IVA

Il diritto alla detrazione dell’IVA trova fondamento, per i soggetti passivi del tributo, nell’articolo 1, secondo comma, secondo periodo, della direttiva 28.11.2006, n. 2006/112 («a ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo»), nonché – nell’ordinamento interno – nell’art. 19 del D.P.R. 26.10.1972, n. 633.

L’articolo 19–bis 1 del medesimo decreto individua delle ipotesi nelle quali, in deroga al principio generale, la detrazione non è consentita; tra tali ipotesi figura quella dell’acquisto, alla locazione e alle altre spese relative a fabbricati a destinazione abitativa.

La possibilità di limitare il diritto alla detrazione è prevista, nel diritto comunitario, nell’ambito del titolo X, capo 3, della citata direttiva n. 112 del 2006.

In particolare, nelle disposizioni IVA interne, 19–bis 1, lett. i), dispone che è indetraibile l’IVA assolta sugli acquisti di fabbricati o porzioni di fabbricati a destinazione abitativa (appartamenti classificati nel gruppo A, con l’esclusione della categoria A 10).

Il diritto alla detrazione viene escluso,  in particolare,  con riferimento all’imposta relativa:

  • all’acquisto di fabbricati a destinazione abitativa;
  • all’acquisto di porzioni di fabbricati a destinazione abitativa;
  • alla locazione di fabbricati a destinazione abitativa;
  • alla manutenzione,   al   recupero e alla   gestione   degli stessi fabbricati.

L’imposta è invece ammessa in detrazione per le imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale della propria attività la costruzione o la rivendita dei medesimi fabbricati e porzioni.

Le disposizioni dell’articolo 19–bis 1, lett. i), non si applicano ai soggetti che esercitano attività che danno luogo a operazioni esenti ai sensi dell’articolo 10, n. 8), che comportano la riduzione della percentuale di detrazione secondo l’art. 19, quinto comma, e l’art. 19–bis.

 

Le cessioni di terreni edificabili

Dal punto di vista tributario, dopo l’unificazione avvenuta a opera del D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4.8.2006, n. 248, un’area può essere considerata «fabbricabile» se essa è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, a prescindere dall’approvazione della Regione o dall’adozione di specifici strumenti attuativi (come, ad esempio, i piani particolareggiati, o i piani di lottizzazione).

Le cessioni di aree edificabili poste in essere da imprese generano:

  • ricavi, se poste in essere da imprese che operano nel settore immobiliare nell’ambito della propria attività caratteristica, e quindi hanno a oggetto beni iscritti in bilancio nell’attivo circolante;
  • plusvalenze imponibili, ovvero minusvalenze deducibili, se poste in essere da imprese al di fuori dell’attività caratteristica, avendo a oggetto beni iscritti in bilancio tra le immobilizzazioni.

Aree non edificabili: IVA e registro

Le cessioni di terreni non edificabili non rientrano nell’ambito applicativo dell’IVA, ai sensi dell’art.2, co. 3, lett. c), D.P.R. 26.10.1972, n. 633. Nel settore dell’imposta di registro, le cessioni di terreni agricoli sono soggette all’aliquota di cui all’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 26.10.1986, n. 131.

Nello stesso ambito, alle cessioni aventi a oggetto i terreni agricoli risulta preclusa la valutazione automatica «catastale» (art. 54, commi 4 e 5-bis, D.P.R. 131/1986).

Il principio di alternatività tra IVA e imposta di registro è contenuto nell’art. 40, D.P.R. 131/1986.

La cessione di terreni non suscettibili di edificazione è esclusa dall’IVA, restando invece soggetta all’imposta proporzionale di registro. Infatti, ai sensi dell’art.2, co. 3, lett. c), D.P.R. 26.10.1972, n. 633, non sono considerate cessioni di beni quelle aventi per oggetto terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria, a norma delle vigenti disposizioni.

A prescindere dalle ulteriori considerazioni che verranno fatte più avanti sulla nozione di «edificabilità» del terreno, può rammentarsi che non costituisce utilizzazione edificatoria la costruzione delle opere indicate nell’art. 9, lett. a), L. 28.1.1977, n.10 (c.d. «Bucalossi»), in ordine alle opere da realizzare nelle zone agricole, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale.

Sulla tematica del trattamento impositivo delle cessioni di aree agricole, con qualche interessante peculiarità, si è registrato l’intervento interpretativo dell’Agenzia delle Entrate, espressasi con la risoluzione 7.1.2009, n. 6/E.

In tale pronuncia l’Agenzia delle Entrate ha fornito la propria soluzione interpretativa al caso di una società denominata «Alfa S.r.l.», trasformatasi in S.p.a. nel 2005, la quale aveva stipulato nel 2003, in qualità di conduttrice, un contratto di locazione immobiliare con la società «Beta S.r.l.».

Il contratto, della durata di 5 anni, riguardava una porzione di terreno agricolo da destinare all’attività commerciale di vendita di carburanti per autoveicoli. Unitamente alla locazione, era stato stipulato anche un contratto di promessa di compravendita avente ad oggetto la cessione del fondo in via definitiva1.

Nel periodo in cui l’area era concessa in locazione, il conduttore aveva installato le apparecchiature necessarie per lo svolgimento dell’attività commerciale, realizzandovi i necessari manufatti. A tale riguardo, era stato chiesto all’Agenzia se allo stipulando atto di acquisto del terreno dovesse essere applicata l’imposta di registro nella misura del 15%, nonché le imposte ipotecarie e catastali nella misura del 2% e dell’1%.

Secondo quanto osservato dall’Agenzia, le norme IVA – sopra richiamate – stabiliscono l’esclusione dal campo applicativo dell’imposta delle cessioni di terreni non suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo le disposizioni vigenti.

Opera pertanto per tali cessioni la regola dell’alternatività ex art. 40, D.P.R. 131/1986, ragion per cui, nel caso di specie, doveva soprattutto verificarsi se la costruzione dell’impianto di distribuzione di carburanti avesse comportato la variazione della destinazione urbanistica del terreno da agricola in edificatoria.

Richiamando poi la norma di interpretazione autentica del 2006, in base alla quale l’edificabilità del terreno è fatta discendere dall’adozione del piano regolatore da parte dell’ente locale, l’Agenzia ha evidenziato che il terreno oggetto dello stipulando atto di compravendita si qualificava come «parte di una zona territoriale omogenea classificata E5 di preminente interesse agricolo».

Sulla base di tale considerazione è stato affermato che, ancorché il terreno fosse utilizzato a fini produttivi, esso non aveva acquisito una nuova destinazione urbanistica e, in particolare, non risultava utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico vigente adottato dal comune di competenza.

L’Agenzia ha quindi affermato che la cessione del terreno, in quanto esso aveva natura agricola, doveva essere assoggettata – ai sensi dell’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986 – all’imposta di registro nella misura del 15% e alle imposte ipotecarie e catastali rispettivamente nella misura del 2% e dell’1%.

 

I piani di lottizzazione

Il piano di lottizzazione è finalizzato ad attuare le previsioni del PRG (o del piano di fabbricazione, PF), per mezzo di uno strumento elaborato a cura dei privati ed approvato generalmente dall’autorità comunale, relativo ad una porzione del territorio comunale, in cui siano previsti insediamenti abitativi o produttivi.

Unitamente al piano di lottizzazione, è approvata una convenzione, con la quale il privato, che (tipicamente) assume l’iniziativa per la sua redazione, assume l’obbligo di eseguire, entro un determinato arco di tempo, le opere previste nel piano stesso, e di cedere al comune le aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.

Vi è «lottizzazione» non in corrispondenza del mero frazionamento dei terreni, essendo invece necessario prevedere un’utilizzazione del suolo che preveda la realizzazione di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale (comportando quindi la predisposizione di opere di urbanizzazione primarie e secondarie).

L’Amministrazione finanziaria ha ritenuto – già nella risalente R.M. 22.3.1979, n. 7/786 – che la lottizzazione «risulta realizzata con l’approvazione da parte dell’Ente locale del relativo progetto e con la cessione in contropartita di una porzione del terreno, nonché con il conseguente rilascio delle licenze edilizie».

Inoltre, per quanto precisato dalla successiva R.M. 20.5.1983, n.7/353,

«il requisito della “lottizzazione” (…) sussiste ogni qual volta viene venduto un terreno oggetto di un piano di lottizzazione approvato dalle competenti autorità locali».

 

I piani di recupero edilizio

La risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 383/E dell’11.12.2002 è intervenuta fornendo chiarimenti ufficiali relativamente all’applicazione delle agevolazioni in favore dei trasferimenti di immobili posti in essere nell’ambito di piani di recupero di iniziativa pubblica o privata.

Va evidenziato a tale riguardo che i piani di recupero, previsti dalla L. 5.8.1978, n. 457 (artt. 27 e ss.), sono finalizzati al recupero degli immobili dei complessi edilizi degli isolati e delle aree, anche attraverso interventi di ristrutturazione urbanistica.

Tali strumenti di pianificazione hanno come destinazione le zone nelle quali, per le condizioni di degrado, si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente attraverso interventi rivolti: alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione o alla migliore utilizzazione del patrimonio medesimo.

La pronuncia dell’Agenzia delle Entrate ha affermato che, nonostante la successiva introduzione del regime fiscale di cui all’art. 33, comma 3, della L. 23.12.2000, n. 388, in presenza di piani di recupero continuava ad applicarsi il più favorevole regime previsto dall’art. 5 della L. 22.4.1982, n. 168. In virtù di tale normativa, tutte le imposte sugli atti (registro, ipotecaria e catastale) risultavano dovute nella misura fissa di euro 129,11 (ora euro 168).

Sotto il profilo delle imposte sui redditi, l’inclusione di un’area nel piano di recupero ne determina la qualificazione come area suscettibile di utilizzazione edificatoria, a prescindere dalla preesistente edificazione di fabbricati sulla stessa.

 

Piani di recupero e riqualificazione urbana

L’art. 5 della L. 22.4.1982, n. 168, stabilisce che

«nell’ambito dei piani di recupero di iniziativa pubblica, o di iniziativa privata purché convenzionati, di cui agli artt. 27 e seguenti della L. 5 agosto 1978, n. 457, ai trasferimenti di immobili nei confronti dei soggetti che attuano il recupero, si applicano le imposte di registro, catastali e ipotecarie in misura fissa.

Nello stesso ambito le permute sono esenti dall’imposta sull’incremento del valore sugli immobili e sono soggette alle imposte di registro, catastale e ipotecaria in misura fissa».

Si registra in materia un esaustivo intervento dell’Agenzia delle Entrate, tradottosi nella risoluzione n. 181/E del 24.7.2007, in seno al quale sono state congiuntamente esaminate le problematiche dell’imposizione diretta e indiretta.

Si trattava, nel caso di specie, di un intervento realizzato nella regione Campania, avente a oggetto la riqualificazione urbanistica di un’area a opera di una S.r.l. unipersonale nella quale dovevano essere trasferiti – mediante atto di conferimento – gli immobili ricadenti nel programma integrato di intervento.

Nel compiere la ricostruzione dei riscontri normativi in materia, l’Agenzia ha richiamato l’art. 27 della L. n. 457/1978, il quale pone a carico dei comuni l’individuazione, nell’ambito degli strumenti urbanistici generali, delle

«zone ove, per le condizioni di degrado, si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente mediante interventi rivolti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso».

Tali zone, secondo la normativa in rassegna,

«possono comprendere singoli immobili, complessi edilizi isolati ed aree, nonché edifici da destinare ad attrezzature (…)». Inoltre, «nell’ambito delle zone (…), possono essere individuati gli immobili, i complessi edilizi, gli isolati e le aree per i quali il rilascio della concessione è subordinato alla formazione dei piani di recupero».

 

Secondo quanto affermato dall’Agenzia, i presupposti applicativi dell’agevolazione in materia di imposte indirette sono stati circoscritti già nella risoluzione n. 383/E dell’11.12.2002, precisando che il piano di recupero è uno strumento attuativo che nasce per adattare il tessuto edilizio ed urbanistico esistente a finalità specifiche.

A tale riguardo, era stata tra l’altro richiamata la giurisprudenza del Consiglio di Stato (sentenze del C.d.S., sez. IV, 27.2.1986, n. 181, e sez. V, 20.11.1989, n. 749), la quale aveva individuato, all’interno della pianificazione urbanistica attuativa:

  • gli strumenti a destinazione indifferenziata (come i piani particolareggiati e di lottizzazione convenzionata);
  • gli strumenti per l’insediamento di particolari tipi di costruzione e/o attività per la realizzazione di specifiche finalità urbanistiche (come i piani di recupero).

Le convenzioni con gli enti locali

Nei confronti delle imprese costruttrici, il diritto di superficie può essere concesso anche dall’ente locale, per consentire la realizzazione di beni destinati a divenire di proprietà dell’ente medesimo.

La controprestazione è costituita appunto dalla possibilità di costruire e sfruttare economicamente i beni stessi, per una durata convenuta tra ente locale e impresa costruttrice.

Può dunque essere stipulata con il comune una convenzione, in base alla quale quest’ultimo concede all’impresa il diritto di superficie su di un terreno per la durata di «n» anni, per consentire la realizzazione fabbricati a destinazione varia.

Nelle operazioni poste in essere potrebbero forse ravvisarsi gli estremi del contratto di permuta (artt. 1552 e ss., c.c.): la fattispecie prevede infatti la costituzione di un diritto reale a fronte della cessione di un immobile conguagliata con una somma di denaro.

Le operazioni permutative, il cui ambito risulta, in campo IVA, più vasto di quello della permuta «civilistica», sono incardinate nell’art. 11, D.P.R. 633/1972 («le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate»).

Nel caso in cui si tratti di cessione contro cessione, può trattarsi di permuta; le ipotesi di cessione contro prestazione di servizi, o prestazione contro prestazione, configurano invece delle operazioni permutative.

Alla luce di tali considerazioni, il contratto tra comune e privato, sopra descritto, dovrebbe essere qualificato come contratto di natura mista, avente sia i caratteri della vendita che quelli dell’appalto, potendosi ravvisare in esso due prestazioni di servizi «incrociate»:

  • quella della società (costruire i fabbricati e impegnarsi a trasferirli poi al comune in tutto o in parte);
  • quella speculare del comune (concedere la proprietà superficiaria del terreno, per consentire alla società l’esecuzione dei lavori).

Secondo la Corte di Cassazione, il contratto di cessione della proprietà di un’area in cambio di un fabbricato, o di parte di esso, da erigere sull’area a cura e con mezzi del cessionario, ha la natura giuridica del contratto di permuta di bene presente con bene futuro, ovvero del contratto misto vendita-appalto, a seconda che, rispettivamente, il sinallagma negoziale consista nel trasferimento reciproco del diritto di proprietà attuale del terreno e di quello futuro sul fabbricato (mentre l’obbligo di costruire resta meramente accessorio e strumentale), o la costruzione del fabbricato risulti l’oggetto principale della volontà delle parti (ad essa risultando strettamente funzionale la cessione dell’area) (Cass. Civ., sez. II, 29.5.1998, n. 5322; Cass. Civ., sez. I, 21.11.1997, n. 11643, sez. II, 5.8.1995, n. 8630, e sez. II, 11.3.1993, n. 2952).

Si ha permuta quando il proprietario del suolo edificatorio lo cede ad un imprenditore contro appartamenti del costruendo fabbricato, ma non quando le due parti si obbligano l’una a costruire un edificio e l’altra, (il proprietario del suolo), a cedere parte dell’immobile quale compenso (ipotesi analoga all’appalto, rispetto al quale si distingue per la mancanza di corrispettivo in danaro) (Cass. Civ., sez. II, 18.11.1987 n. 8487).

L’impresa deve quindi trattare la cessione imponibile ai fini IVA valorizzando il bene secondo il suo valore normale (cioè secondo il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stato di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui è stata effettuata l’operazione o nel tempo e nel luogo più prossimi), ai sensi dell’art. 13, secondo comma, lett. d) del D.P.R. n. 633/1972. Su tale base imponibile, dovrebbe essere applicata l’IVA con aliquota ordinaria.

 

La demolizione con successiva costruzione sull’area

Con sentenza n. 5166 dell’1.3.2013, la Corte di Cassazione ha affermato che i terreni ubicati in zona agricola, con annessi fabbricati rurali, possono essere riconosciuti come suscettibili di utilizzazione edificatoria, e quindi ritenuti edificabili ai fini della determinazione della plusvalenza. La controversia che ha condotto alla pronuncia della S.C. sorgeva dall’avviso di accertamento IRPEF per il periodo di imposta 1999, impugnato da una contribuente.

Quest’ultima aveva contestato l’operato dell’ufficio sulla base della considerazione che il terreno ceduto era tecnicamente «agricolo», ma i giudici di merito in primo e in secondo grado si erano allineati all’Agenzia delle Entrate riconoscendo la suscettibilità edificatoria dell’area, nonostante la sua qualificazione formale come agraria.

Secondo la CTR, il terreno era stato oggetto di interventi edilizi per la demolizione e la ricostruzione dei fabbricati rurali presenti sullo stesso, e per tale ragione non poteva non essere considerato fabbricabile ai fini della plusvalenza.

Nell’avvalorare l’orientamento espresso dai giudici di merito, la Cassazione ha precisato che le aree edificabili possono essere tali di fatto, ovvero di diritto.

L’area edificabile è «di diritto» quando è così qualificata in un piano urbanistico, mentre l’area edificabile «di fatto» è quella che, pur non essendo individuata dal piano urbanistico, ha una vocazione edificatoria, cioè è comunque potenzialmente edificabile.

L’edificabilità di fatto – che prescinde dall’avvenuto inserimento dell’area come fabbricabile in un PRG – deve essere individuata attraverso la constatazione dell’esistenza di taluni fatti indice ( vicinanza al centro abitato, sviluppo edilizio delle zone adiacenti, esistenza di servizi pubblici, presenza di opere di urbanizzazione primaria, collegamento con centri urbani già organizzati, nonché di elementi quali, ad esempio, il rilascio del permesso di costruire).

Tale indirizzo si richiama a precedenti giurisprudenziali come, in particolare, quello costituito dalla pronuncia della sezione tributaria n. 9131 del 19.4.2006.

Secondo la Cassazione, poiché l’edificabilità di fatto è giuridicamente riconosciuta dalle discipline dell’ICI [art. 2, primo comma, lett. b), D.Lgs. 504/1992] e dell’indennità di espropriazione [art. 37, quinto comma, D.P.R. n. 327/2001], l’edificabilità di fatto assume rilevanza anche ai fini della plusvalenza nell’ambito dell’imposizione sui redditi.

La Corte ha pertanto ritenuto che il terreno fosse suscettibile di utilizzazione edificatoria, costituendo un corpo unico rappresentato dal terreno e dai fabbricati rurali destinati alla demolizione e alla ricostruzione come fabbricati residenziali.

L’inserimento del terreno stesso nel PRG come «zona agricola normale» non impediva in tale contesto il riconoscimento della suscettibilità di utilizzazione edificatoria del terreno medesimo.

 

Valore normale e valore venale

Il criterio del valore normale (corrispondente, in sostanza, a un valore «di mercato» come individuato dal fisco) per le cessioni immobiliari poteva essere adottato nell’ambito degli accertamenti e delle rettifiche di tipo analitico-induttivo ai sensi dell’art. 39, terzo comma, del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, e dell’art. 54, terzo comma, del D.P.R. 26.10.1972, n. 633.

Tale possibilità derivava dall’integrazione normativa disposta dell’art. 35, commi secondo e quarto, del D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4.8.2006, n. 248.

Le successive modifiche recate dalla legge Comunitaria 2008 (L. L. 7.7.2009, n. 88) hanno però comportato l’abrogazione delle norme sulle rettifiche in base al valore normale per imposte sui redditi e IVA.

La possibilità di impiegare in sede di controllo il criterio del valore normale ha trovato riscontro in un’analoga facoltà costituita in capo agli uffici ai fini degli accertamenti di valore nel settore impositivo del registro.

Con l’art. 35, comma 23-ter, del D.L. 223/2006, era stato infatti integrato l’art. 52, D.P.R. 26.4.1986, n. 131, mediante l’inserimento di un nuovo comma 5-bis, a norma del quale

«le disposizioni dei commi 4 e 5 non si applicano relativamente alle cessioni di immobili e relative pertinenze diverse da quelle disciplinate dall’articolo 1, comma 497, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, e successive modificazioni».

La preclusione alla potestà accertativa degli uffici non si applica, quindi, alle cessioni diverse da quelle che intervengono fra persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze.

Per effetto della rimozione del predetto limite alla potestà di rettifica (che non è stata oggetto di intervento da parte della legge Comunitaria 2008), agli atti da ultimo richiamati tornavano applicabili le disposizioni generali enunciate all’art. 52, primo comma, del D.P.R. n. 131/1986, che consentono all’ufficio di rettificare il valore dichiarato sulla base del «valore venale in comune commercio» dell’immobile.

Questa possibilità può rappresentare di fatto un «revival» dell’accertamento fondato sul valore normale, dal momento che la giurisprudenza di legittimità autorizza la trasposizione delle rettifiche in materia di imposta di registro all’ambito dell’imposizione reddituale e dell’IVA.

A tale riguardo si rammenta che la Cassazione con la sentenza Cass. 9.11.2010 n. 22793 ha fornito una soluzione nel senso della piena legittimazione dell’amministrazione finanziaria a procedere in via induttiva all’accertamento della plusvalenza generata dalla cessione di un bene sulla base dell’accertamento di valore effettuato ai fini dell’imposta di registro,

«ed è onere probatorio del contribuente superare tale presunzione di corrispondenza tra il corrispettivo della cessione del bene, o il suo valore venale nelle ipotesi di destinazione a finalità estranee, e il valore accertato definitivamente in sede di applicazione dell’imposta di registro»2.

Inoltre, secondo la Corte, la presunzione che un bene sia venduto al valore di mercato, cioè a quello accertato ai fini dell’imposta di registro, non è superata dal rilievo che l’acquisto sia stato effettuato da persone giuridiche,

«ben potendo queste, come quelle fisiche, pagare in nero il maggior prezzo rispetto a quello dichiarato nell’atto notarile; non può infatti assurgere al valore di presunzione contraria quella insussistente di veridicità delle scritture contabili».

Secondo la successiva sentenza n. 22869 del 3.11.2011, più che operare una trasposizione automatica registro – imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria può valersi a titolo presuntivo dell’accertamento definitivo per l’imposta di registro ai fini del calcolo della plusvalenza rilevante per le imposte dirette, e spetta al contribuente l’onere di fornire la prova contraria rispetto alla presunzione di corrispondenza dei due valori.

Se nell’ambito delle attività di controllo, e più precisamente in seno a un procedimento di adesione, con il consenso del contribuente, viene a essere definito per un determinato bene un valore ai fini dell’imposta di registro, questo valore può essere «pacificamente» trasferito nel settore delle imposte sui redditi, al fine di rettificare la plusvalenza originata dalla cessione di un terreno edificabile. Questo il senso dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 14574 del 10.6.2013.

I giudici di merito avevano tuttavia ignorato:

a) che il terreno era stato acquistato solo sette mesi prima con un valore dichiarato pari a quello della successiva rivendita senza che l’ufficio avesse proceduto a rettifica;

b) che tra acquisto e rivendita non erano intervenute modificazioni urbanistiche;

c) che il nuovo valore rettificato era quello definito in adesione sottoscritta dal solo acquirente e non anche dalla parte venditrice. Per questi motivi, i giudici di legittimità accoglievano il ricorso per cassazione richiedendo alla CTR una nuova valutazione.

 

I terreni delle società non operative

Le società c.d. «di comodo», o non operative, sono strutture approntate per la gestione (improduttiva) di beni (immobili, autoveicoli, natanti, etc.) essenzialmente riconducibili alla sfera privata dei contribuenti, in assenza di attività economica effettiva.

Si tratta quindi di schermi societari volti, secondo la presunzione operata dal legislatore, a un utilizzo indebito delle regole fiscali che assistono le imprese (fiscalità analitica, detraibilità dell’IVA). Per tale ragione è stata approntata una normativa speciale, in seguito estesa anche alle società che presentano reiterate perdite fiscali in dichiarazione.

La normativa primaria di riferimento in materia è rappresentata:

  • per le società non operative: dall’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724, modificato dapprima dal L. 4.7.2006, n. 223 (convertito dalla L. 4.8.2006, n. 248), e quindi dalla L. 27.12.2006, n. 296 e dalla L. 24.12.2007, n. 244;
  • per le società in perdita sistemica, dall’art. 2, commi da 36- quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 9.2011, n. 148.

In sostanza:

  • la condizione di società non operativa (di comodo) scaturisce dalla presenza di un determinato volume di asset patrimoniali, con i quali vengono confrontati i ricavi della società (test di operatività): se questi sono troppo bassi rispetto a un valore percentualmente determinato in base ai beni patrimoniali (immobilizzazioni), la società ha l’obbligo di dichiarare un reddito minimo presunto, anch’esso determinato percentualmente in base agli asset;
  • la condizione di società in perdita sistemica origina, a partire dal quarto periodo di imposta, dall’aver presentato tre dichiarazioni fiscali in perdita consecutive all’interno del c.d. triennio di osservazione, ovvero due sole dichiarazioni in perdita, se nel rimanente periodo di imposta del triennio il reddito dichiarato è inferiore rispetto a quello minimo presunto ai sensi dell’art. 30 della n. 724/1994.

Pertanto, la società può essere soggetta ai vincoli previsti per le società di comodo anche se è operativa (presentando ricavi superiori ai valori del test di operatività), nel caso in cui ricorra la condizione di perdita sistemica.

Nel vigente contesto normativo, le società non operative e in perdita sistemica possono chiedere e ottenere la disapplicazione della norma restrittiva utilizzando la procedura di disapplicazione dell’37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600 del 1973).

Il possesso di terreni per queste società assume una notevole importanza in quanto:

  • per le società con oggetto immobiliare (di costruzione), i terreni edificabili sono classificati in bilancio tra le rimanenze e quindi fuoriescono dal test di operatività, però chiaramente non possono concorrere al reddito minimo presunto (essendo inidonei alla produzione di un risultato economico), e pertanto non possono far venir meno l’eventuale condizione di perdita sistematica che si determinasse a fronte dei costi di esercizio della società;
  • per le società con oggetto diverso, i terreni concorrerebbero (da soli ovvero come parte non ammortizzabile del bene immobile strumentale) al test di operatività, incrementando il livello di ricavi minimi che la società dovrebbe presuntivamente generare per poter essere considerata non di comodo (infatti, ai fini della normativa speciale in rassegna il valore dei cespiti da assumere è quello determinato ai sensi dell’art. 110 del TUIR anche con riferimento alle aree su cui insiste un fabbricato strumentale, a prescindere dalla circostanza che il costo da assumere ai fini della determinazione delle quote di ammortamento deducibili sia al netto del costo delle stesse).

 

16 marzo 2015

Fabio Carrirolo

 

leggi anche La tassazione delle plusvalenze su terreni edificabili: fra perizie e pertinenze

 

NOTE

1 Nella sostanza, si trattava di un’ipotesi analoga – se considerata unitariamente – a quella della locazione con clausola di trasferimento della proprietà (trattata dal Fisco in modo analogo alla vendita con riserva di proprietà, di cui agli artt. 1523–1526, c.c.: cfr. sul punto la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 338/E del 1° agosto 2008).

2 La Corte ha richiamato a tale riguardo la propria precedente giurisprudenza (Cass., sez. trib., 20.11.2001, n. 14581).

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