La difesa del contribuente (parte III): abuso del diritto e reati fiscali

Continuiamo ad analizzare i problemi posti al contribuente che vuole difendersi dalle pretese del Fisco; in questa terza parte: abuso del diritto, i casi di falsa fatturazione, rateazione e riscossione e tanto altro ancora.

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Abuso del diritto

abuso del dirittoUltimamente, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del problema dell’abuso del diritto, ossia del carattere elusivo che può assumere un’operazione posta in essere dal contribuente con il solo fine di evadere la normativa ed ottenere un indebito risparmio d’imposta.

Infatti, con la sentenza n. 16428, depositata il 27 luglio 2011, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo cui grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di chiarire il perché l’operazione abbia carattere elusivo, in quanto non è sufficiente richiamare esclusivamente la normativa antiabuso esistente nell’ordinamento.

Nell’arco di tempo di un mese, a cavallo tra il 2010 ed il 2011, sia la Corte di Giustizia Europea che la Corte di Cassazione, rispettivamente nelle sentenze C-277/09 e n. 1372 del 21 gennaio 2011, riportano l’abuso del diritto nella sua connotazione specifica: occorre, cioè, che sia stata posta in essere una costruzione di puro artificio.

Il caso inglese, trattato a Lussemburgo, ha dato ragione al contribuente, perché il giudizio di rinvio non aveva accertato la natura artificiosa dell’operazione, anche se l’utilizzo di una controllata in un altro Paese Comunitario aveva consentito di non pagare l’IVA in nessuno dei due Paesi.

Il caso italiano è significativo per le affermazioni sul diritto del contribuente ad utilizzare la struttura giuridica con un minor costo fiscale, con la conseguente insindacabilità di queste scelte da parte dell’Amministrazione finanziaria, e sulla necessità di valutare con una diversa attenzione le operazioni di ristrutturazione societaria rispetto a quelle di tipo puramente finanziario, oggetto delle prime sentenze su questo specifico argomento (si rinvia per un’analisi completa all’interessante articolo di Raffaele Rizzardi, in Corriere Tributario IPSOA n. 9/2011, pagg. 663-672).

E’ da accogliere con soddisfazione l’importante svolta della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia UE, soprattutto perché, nel corso degli anni, altre rigide interpretazioni giurisprudenziali avevano penalizzato i contribuenti per le loro iniziative produttive, anche perché in fase istruttoria i limiti difensivi, imposti dalla legge e più volte criticati nel presente scritto, non consentivano un’efficace difesa.

D’ora in poi l’Amministrazione finanziaria dovrà sempre evidenziare e motivare le ragioni del carattere elusivo di un’operazione imprenditoriale priva di valide ragioni economiche.

L’abuso del diritto non avrà in futuro una casistica ma una vera norma con un principio generale, come riferito al questione time della Commissione Finanze della Camera dal sottosegretario all’Economia Bruno Cesario, il quale ha rilevato che sarebbe certamente auspicabile una previsione normativa volta a coordinare l’attuale norma antielusiva con il principio dell’abuso del diritto, richiamato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Si conferma così, in via ufficiale, la scelta, già espressa dall’Agenzia delle entrate, di prevedere una norma antielusiva di carattere generale (vedi il Sole 24-Ore del 13 e del 27 ottobre 2011).

Vi sono due esigenze in conflitto la lotta all’elusione e l’interesse dei privati alla certezza del diritto.

La scrittura di una norma generale è problema non facile: si richiede grande realismo e finezza giuridica con l’occhio rivolto a quanto accade in sede comunitaria.

Fatture false e deducibilità dei costi

emissione di fatture falseLa Corte di Cassazione, con l’importante sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011, ha stabilito il principio che, in tema di imposte sui redditi, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purchè supportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa.

Infatti, con l’abrogazione dell’art. 75, c. 6, del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 ad opera dell’art. 5 del D.P.R. n. 695 del 9 dicembre 1996, si è avuto un sensibile ampliamento (Cass. Trib. sent. n. 3305 dell’11 febbraio 2009) del regime di prova dei costi da parte del contribuente, prova che può essere fornita anche coi mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dall’art. 75, c. 4, del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986.

In sostanza, il contribuente, oggi, col nuovo indirizzo giurisprudenziale, può dimostrare l’effettiva sussistenza nonché l’ammontare e l’inerenza di quegli specifici costi.

Il problema, però, rimane sempre quello dei limiti difensivi, in quanto il contribuente, in assenza di idonea documentazione, avrà difficoltà a dimostrare nel processo i suddetti costi effettivi, in quanto non può utilizzare la testimonianza né il giuramento decisorio o suppletorio.

Infine, si precisa che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9537 del 16 febbraio 2011, ha avuto modo di ritornare sulla “vexata quaestio” della deducibilità o meno ai fini delle imposte sui redditi dei costi derivanti da operazioni considerate soggettivamente inesistenti, riaffermando l’importante principio di diritto per cui, nel comparto dell’imposizione diretta, a differenza di quello dell’IVA, i costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti, purchè sopportati a fronte di operazioni effettive e reali, sono deducibili dal reddito d’impresa.

Riscossione, ruoli, rimborsi e privilegi 

1. In fase di riscossione, con le recenti manovre economiche estive, si è messo uno stop alla mora sugli interessi.

Infatti, ai sensi dell’art. 7, cc. 2-sexies e 2-septies, del D.L. n. 70/2011 cit., gli interessi di mora non si applicano più sulle somme corrispondenti alle sanzioni pecuniarie tributarie ed agli interessi (divieto del c.d. Anatocismo).

2. Al tempo stesso, però, il legislatore ha reso le rate iniziali di pagamento particolarmente preziose.

A renderle tali è il nuovo meccanismo che porta il fisco a rinunciare alle fideiussioni per le dilazioni dei debiti superiori a 50.000 euro ma in tutti i casi, a prescindere dall’ammontare della richiesta al contribuente, introduce una garanzia decisamente pesante: la sanzione pari al 60% del debito residuo per chi non paga una rata (successiva alla prima) entro il termine di scadenza di quella successiva.

3. Oltre un milione e ottocentomila istanze, per un controvalore di 2 miliardi di euro, cui si devono aggiungere circa 260 milioni di interessi.

A tanto ammonta lo stock totale dei rimborsi delle imposte dirette alla fine del 2010 (Italia Oggi di mercoledì 3 agosto 2011).

Gran parte delle pendenze risulta fisiologicamente concentrata nel biennio più recente (2007-2008), mentre le pratiche ancora da lavorare, risalenti a prima del 2005, sono poche migliaia.

Il problema, secondo me, si potrebbe risolvere rendendo immediatamente esecutive le sentenze di condanna del fisco in tema di rimborsi, senza dover attendere, come oggi, il passaggio in giudicato della sentenza (art. 69 D.Lgs. n. 546 cit.) per iniziare, poi, il giudizio di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. n. 546 cit.).

In prospettiva di una completa riforma del processo tributario, infatti, tutte le parti (pubbliche e private) devono trovarsi sullo stesso piano processuale, senza alcuna posizione di privilegio, come oggi ha il fisco.

Infatti, mentre l’Amministrazione finanziaria, in caso di vittoria totale o parziale, ha la possibilità di riscuotere provvisoriamente gran parte delle somme in contestazione (art. 68 D.Lgs. n. 546 cit.), il contribuente, invece, per essere tempestivamente rimborsato dei suoi crediti deve attendere la fine di tutti i gradi di giudizio (fino in Cassazione) per ottenere il passaggio in giudicato della sentenza, a meno che non si tratti di maggiori somme versate a titolo provvisorio a seguito della notifica di avvisi di accertamento, per le quali è applicabile la più celere procedura dell’art. 68, c. 2, D.L.gs n. 546 cit. (Circolare n. 49/E dell’1 ottobre 2010 e n. 37/E del 21 giugno 2010 dell’Agenzia delle entrate – Direzione centrale affari legali e contenzioso).

Solo l’effettiva parità processuale delle parti rende veramente operativo il dettato costituzionale dell’art. 111: ‘’La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata’’.

4. Inoltre, si segnala la recente ordinanza n. 1M/52/11 del 6-21 luglio 2011 della CTR di Napoli che ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza di secondo grado impugnata dal contribuente dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, ma ha subordinato la suddetta sospensione alla produzione da parte del contribuente di una garanzia fideiussoria assicurativa o bancaria.

Ciò, però, non risolve i problemi del contribuente, che può avere difficoltà ad ottenere la fideiussione, col rischio del fallimento e del licenziamento dei dipendenti.

Appunto per questo è necessario modificare l’attuale normativa, non prevedendo alcuna forma di garanzia fino alla definizione totale della controversia.

5. Infine, l’ampliamento dei privilegi fiscali oltre ogni limite (anche temporale) e la retroattività delle norme hanno stravolto i rapporti esistenti tra fisco e privati, soprattutto nelle procedure in corso di votazione, permettendo all’Amministrazione Finanziaria di far valere in sede di ripartizione delle finanze un maggior credito, tutto di natura privilegiata, e di conseguenza di avere un diverso e maggior peso nella composizione concordataria, sia giudiziale che stragiudiziale, del credito rispetto agli altri creditori.

6.La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 281 del 28 ottobre 2011, ha dichiarato incostituzionale l’art. 85 D.P.R. n. 602/73 nella parte in cui prevede che, se il terzo incanto ha esito negativo, l’assegnazione dell’immobile allo Stato ha luogo per il minor valore tra il prezzo base del terzo incanto e la somma per la quale si procede, anziché per lo stesso prezzo base.

In sostanza, la Consulta indica come criterio (minimale, fino all’intervento del legislatore) quello di prendere a base il prezzo del terzo incanto, che è il più congruo rispetto al valore dell’immobile pignorato.

 

Rimessione in termini

1. La legge n. 69/2009, modificando in parte il codice di procedura civile, ha abrogato l’art. 184-bis c.p.c. ed ha spostato il contenuto nell’art. 153 c. 2 c.p.c., che così recita:

“la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma’’.

Al suddetto istituto giuridico deve ora essere riconosciuta una valenza di carattere generale e deve, di conseguenza, ritenersi applicabile anche ad attività esterne al processo.

Data questa nuova valenza generale, la rimessione in termini può di sicuro ritenersi applicabile anche al ricorrente che abbia incolpevolmente fatto decorrere il termine di impugnazione del provvedimento impositivo.

2.Prima della suddetta riforma processuale, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 14482 del 29 settembre 2003, aveva precisato che: “Come appare evidente dalla sua stessa collocazione (libro secondo, titolo I, capo II, sezione II della trattazione della causa), la norma riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nell’ambito della causa in corso di trattazione.

Essa, quindi, pur rendendo di applicazione generale l’istituto della rimessione in termini (operante, quindi, dopo la soppressione del riferimento alle decadenze previste negli articoli 183 e 184, contenuto nel testo originario, anche per le decadenze stabilite nei confronti del convenuto dagli artt. 167, secondo comma, e 171, secondo comma), non è invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio.

Per queste vige tuttora la regola della improrogabilità dei termini perentori (art. 153 c.p.c.), che impedisce di utilizzare l’istituto in discorso anche per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 10094/1997, 8999/1999, 5778/2000, 9178/2000, 15491/2000, 2875/2002, 11136/2002, 11218/2002, 1285/2003), quale quello non rispettato dalla contribuente che ha chiesto di essere rimessa in corsa’’.

I suddetti principi, inoltre, erano stati ribaditi dalla Corte di Cassazione con le seguenti sentenze:

  • n. 7814/03 del 19 maggio 2003;

  • n. 4973/98 del 19 maggio 1998;

  • n. 12935 del 2000;

  • n. 6954 del 1999;

  • n. 5197 del 1998.

In definitiva, la Corte di Cassazione, prima delle modifiche, riteneva costantemente che l’istituto della rimessione in termini atteneva ad eventuali nullità di ordine endoprocessuale, e cioè determinatesi nel corso del processo, in cui le parti fossero incorse per cause ad esse non imputabili, e non certo ad invalidità che investono il rituale instaurarsi del rapporto processuale.

3. Col nuovo art. 153, c. 2, c.p.c. lo scenario processuale oggi cambia a favore del ricorrente, che può utilizzare l’istituto anche se, senza colpa, ha fatto decorrere il termine perentorio d’impugnazione del provvedimento impositivo (i.e. avviso di accertamento, avviso di rettifica, avviso di sanzioni, cartella esattoriale…).

Ciò comporta che d’ora in poi sarà affidato al giudice tributario di trovare, di volta in volta, e nel caso concreto al suo esame, il giusto equilibrio tra l’effettività del diritto di difesa della parte che invoca la rimessione in termini e l’improrogabilità dei termini perentori su cui, invece, fa esclusivo riferimento l’ufficio fiscale ( c.d. auto responsabilità da decadenza in senso oggettivo ovvero per colpa).

Ultimamente, sull’applicabilità della rimessione in termini nel processo tributario si è pronunciata la CTP di Lecce, con l’ordinanza n. 377/2011 (in ‘’Il Sole 24 Ore’’ di lunedì 1 agosto 2011), a seguito della decadenza imputabile solo al difensore e non al contribuente.

Il nuovo istituto, però, potrebbe non avere pratica applicazione nel processo tributario perché il contribuente, coi limiti istruttori imposti per legge (divieto di testimonianza e giuramento) rischia di non poter dimostrare, in mancanza di documenti ufficiali, che non ha potuto impugnare per tempo l’atto fiscale per cause a lui non imputabili.

 

Problemi della giurisdizione

Oggi, anche se può sembrare strano, il maggior problema processuale che incontra il contribuente è quello di individuare ed adire il giudice competente, che dovrà decidere la sua causa in tempi ragionevoli.

Infatti, con una normativa tributaria alquanto complessa e poco chiara, senza l’indicazione dei principi, e con l’aggravante delle problematiche connesse alla finanza locale, anche a seguito del federalismo fiscale, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, è spesso intervenuta per dirimere le controversie in tema di giurisdizione (art. 41 c.p.c.).

Segnaliamo, a titolo puramente indicativo, alcune questioni risolte dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

  • Spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi oggetto la debenza di contributi previdenziali (sent. n. 15168 del 23 giugno 2010).

  • Rientrano nella giurisdizione delle Commissioni Tributarie, e non in quella dei giudici amministrativi, le cause contro i provvedimenti di rigetto delle istanze di rateizzazione (ord. n. 15647 dell’1 luglio 2010).

  • Appartiene alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie la domanda proposta nei confronti dell’Amministrazione finanziaria per la restituzione di somme indebitamente versate a titolo di IVA (sent. n. 16281 del 12 luglio 2010).

  • Ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di contributi a favore dei Consorzi di bonifica spetta al giudice amministrativo, ricollegandosi a posizioni di interesse legittimo, la domanda diretta a denunciare lo scorretto esercizio del potere impositivo del Consorzio, mentre è devoluta alla cognizione del giudice ordinario la domanda con cui si contesti l’esistenza di tale potere, in quanto la domanda è diretta a tutelare il diritto soggettivo dello stesso a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali fuori dai casi previsti dalla legge (sent. n. 18327 del 6 agosto 2010).

  • Spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie attinenti ad una contestata debenza dei canoni chiesti dal Comune a titolo di COSAP, aventi ad oggetto l’accertamento dell’esistenza del credito azionato dall’ente locale (ord. n. 22628 dell’8 novembre 2010).

  • Rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice tributario le controversie relative all’opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), in tema di videogiochi (sent. n. 23107 del 16 novembre 2010).

  • Rientrano nella giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla restituzione dell’indebito pagamento di somme a titolo di TIA, in forza della natura tributaria riconosciuta alla TIA dalla sentenza della Corte Costituzionale (ord. n. 23291 del 18 novembre 2010); in senso contrario, invece, si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 2064 del 28 gennaio 2011, con cui è stata riconosciuta appartenere alla giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la restituzione dell’IVA corrisposta all’atto del pagamento della TIA.

  • Nei giudizi instaurati primadell’entrata in vigore della Legge n. 69/2009 (modifiche al c.p.c.), può essere chiesto d’ufficio il regolamento di giurisdizione, a norma dell’art. 59, c. 3, della suddetta legge (ord. n. 24686 del 6 dicembre 2010).

  • Appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto la debenza, nei confronti della SIAE, delle somme prescritte, ai sensi dell’art. 181-bis della legge n. 633/1941, per l’apposizione sui supporti multimediali del previsto contrassegno (ord. n. 1780 del 26 gennaio 2011).

  • Il giudice tributario non può dichiarare il difetto di giurisdizione in seguito alla contestazione degli atti della riscossione coi quali il concessionario recupera anche entrate non tributarie; in sostanza, la giurisdizione permane anche se la competenza sugli atti è parziale (sentenza n. 16858 del 2 agosto 2011).

E l’elenco potrebbe continuare a lungo…

A questo punto, è auspicabile che, in vista della prossima riforma fiscale da tutti auspicata, sia riformato totalmente il processo tributario con un’elencazione chiara e definitiva di tutte le controversie di competenza dei giudici tributari, senza generiche petizioni di principio, in modo da non disorientare il contribuente ed il professionista che lo assiste.

Oggi, infatti, è vero che l’art. 2, c. 1, D.Lgs. n. 546 cit. stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati.

Ma è altresì vero che la Corte Costituzionale ha più volte precisato che per qualificare come tributarie le entrate erariali si devono seguire i seguenti criteri, indipendemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate:

  • doverosità della prestazione;

  • collegamento di questa alla pubblica spesa;

  • con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante.

In tal senso, si citano le seguenti sentenze della Corte Costituzionale:

  • n. 334 del 2006;

  • n. 73 del 2005;

  • n. 64 del 2008;

  • n. 335 del 2008.

Questi principi, però, validi sul piano teorico, possono essere di difficile applicabilità sul piano pratico, tanto è vero che alcune volte la stessa Corte di Cassazione ha dovuto rivedere criticamente una sua precedente interpretazione.

Per esempio, con le sentenze nn. 15031 e 15032 del 2009, i giudici di legittimità hanno cambiato indirizzo in tema di controversie fra sostituto e sostituito, stabilendo che sono di competenza del giudice ordinario e non del giudice tributario, trattandosi di diritto esercitato dal sostituto verso il sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario.

Ecco perché è importante che intervenga una legge che stabilisca in modo chiaro ed analitico l’oggetto della giurisdizione tributaria per dare certezze ai contribuenti, ai professionisti, agli uffici ed ai giudici tributari.

Infine, nella materia tributaria, bisogna prevedere un unico processo dove discutere e decidere le questioni fiscali, quelle penali (senza più il c.d. ‘’doppio binario’’) e persino quelle civili, in tema, per esempio, di risarcimento danni per atti o comportamenti illeciti da parte dell’Amministrazione finanziaria, senza che il contribuente debba impazzire nell’individuazione del giudice competente e nell’attesa della definizione dei vari processi intentati o da intentare per tutelare e far valere i propri diritti ed interessi, soprattutto con le ultime modifiche penali-tributarie fatte con il D.L. n. 138/2011.

 

Autotutela

diniego di autotutela1.Il potere di autotutela dell’ufficio fiscale è disciplinato dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/1994, convertito dalla Legge n. 656 del 1994 e dal Decreto Ministeriale n. 37/1997 e consiste nella possibilità da parte dell’Amministrazione di annullare in modo totale o parziale un atto, o rinunciare ad una pretesa, quando l’atto si manifesti come illegittimo o non conforme alla legge che lo regola, anche senza istanza di parte, e pure in pendenza di giudizio od in caso di non impugnabilità del provvedimento tributario, col solo limite di una sentenza di merito (non di diritto) passata in giudicato.

In definitiva, si può sostenere che l’autotutela tributaria è espressione di un potere-dovere di ripristino della legalità violata, incidente sul diritto del contribuente, e pertanto, anche ai sensi dell’art. 7 della Legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), grava sull’Amministrazione finanziaria l’obbligo di dare corso alla relativa istanza fornendo motivata risposta.

L’autotutela non è espressamente prevista tra gli atti impugnabili dall’art. 19 D.Lgs. n. 546 e questo vuoto normativo, gravemente lesivo dei diritti di difesa del contribuente, ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali che soltanto ultimamente la Corte di Cassazione ha cercato di dirimere, anche se in modo non sufficientemente esaustivo.

2. In un primo momento, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9669/09 del 23 aprile 2009, aveva precisato che: “Nella già citata sentenza n. 7388 del 2007 si chiarisce, infatti, che l’esercizio del potere di autotutela ‘non costituisce un mezzo di tutela del contribuente’ e che ‘nel giudizio instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato, nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria’”.

3.Ultimamente, però, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con l’importante sentenza n. 26313 del 29 dicembre 2010, ha precisato che:

  • l’esercizio del potere di autotutela ha natura eminentemente discrezionale ed esercitabile esclusivamente nel perseguimento di soli interessi pubblici;

  • di conseguenza, il contribuente non ha un diritto perfetto ma un interesse legittimo, che potrà trovare tutela nell’ambito della giurisdizione tributaria, e non amministrativa, per effetto della riserva di legge;

  • l’autotutela è sottoposta ai limiti di sindacabilità degli atti discrezionali, ovvero nell’ambito della legittimità dell’operato dell’Amministrazione (anche in caso di inerzia) e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario all’Amministrazione nell’adozione di un atto di autotutela;

  • in definitiva, ne consegue che il sindacato del mero rifiuto dell’esercizio di autotutela deve limitarsi all’esame della legittimità della condotta amministrativa, e non può estendersi al merito, o a valutare la fondatezza della pretesa tributaria del contribuente.

Dagli enunciati principi, dunque, i giudici di legittimità, con la citata sentenza n. 26313/2010, fanno discendere che:

  • l’esercizio del sindacato sull’attività di autotutela costituisce procedimento autonomo e ben distinto dal procedimento di impugnazione di un atto impositivo, con cui non interferisce;

  • in ogni caso, noncostituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti.

4. Nonostante la parziale apertura della Corte di Cassazione, la difesa del contribuente in tema di autotutela non è piena ed efficace, per cui è necessario, nella generale ed organica riforma del processo tributario, inserire l’autotutela espressamente tra gli atti impugnabili, anche come silenzio-rifiuto, e con possibilità di entrare nel merito, senza alcuna limitazione istruttoria al contribuente, che può chiedere anche la rimessione in termini, se sussistono le condizioni (vedi supra).

Infine, non bisogna dimenticare il principio che il fisco è tenuto al risarcimento dei danni se non applica correttamente l’autotutela (Cassazione, Sez. III civile, sentenza n. 5120 del 3 marzo 2011).

5. L’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 22/E del 26 maggio 2011, ha precisato che gli uffici devono annullare in autotutela tutti gli accertamenti sbagliati.

Leggi la IV parte dell’approfondimento, sulle commissioni tributarie >

1 novembre 2011

Maurizio Villani