La messa alla prova per reati tributari nel D.Lgs 231/2001

di Redazione

Pubblicato il 23 agosto 2023

Sembrava definitiva la parola fine per la messa alla prova nel D.Lgs. 231/2001, invece, il Tribunale di Bari, ancora una volta, si è espresso positivamente sull’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alle sanzioni inflitte agli enti a seguito dell’accertamento della responsabilità da reato.

messa alla provaGià dalla lettura delle prime righe del provvedimento del Giudice monocratico del Tribunale di Bari, Prima Sezione Penale, si poteva comprendere l’esito finale della sua decisione a proposito della richiesta di ammissione alla prova in un procedimento di illecito amministrativo dipendente da reato di cui all’art. 25 septies del D.Lgs. n. 231/2001.

Invero, rifacendosi “… integralmente ….” a quanto stabilito dallo stesso Tribunale in una fattispecie analoga (Tribunale di Bari, Sez. I, Ordinanza, 22 giugno 2022), il Giudice ha sancito la possibilità per l’ente richiedente di estinguere il reato ex D.Lgs. n. 231/2001 beneficiando della misura di sospensione del procedimento nella previsione dello svolgimento di un particolare programma di trattamento ovvero dell’esecuzione di lavori di pubblica utilità (istituto di messa alla prova).

 

L'istituto della messa alla prova

Introdotto con Legge 28 aprile 2014, n. 67, l’istituto della messa alla prova, funzionale a dare concretezza agli scopi costituzionali della funzione rieducativa della pena attraverso l’attuazione di un progetto concreto di reinserimento sociale, è la forma di “probation giudiziale” innovativa (in aggiunta alla “probation penitenziaria”, di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354, ovvero misure alternative alla detenzione che presuppongono l’esistenza di una condanna definitiva) che consiste, su richiesta dell’imputato, nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado riservata solo ed esclusivamente a particolari fattispecie (reati di minore allarme sociale e reati puniti con la reclusione fino a quattro anni).

La vocazione preventiva caratterizzante il d.lgs. n. 231/2001, quindi, ben potrebbe autorizzare – consentitemi di dire – per analogia di intenti l’applicazione dello strumento della messa alla prova anche per i procedimenti relativi alla responsabilità degli enti valorizzando, quindi, di fatto, anche soluzioni alternative volte sia a mitigare la (paventata) rigidità della norma sia a consentire forme di ravvedimento e di eliminazione delle conseguenze del reato in una più generale ottica riparatoria.

 

E la responsabilità degli enti

La Suprema Corte, però, ha recentemente (Cassazione pen., sez. III, 2 novembre 2020 n. 30305) ribadito il proprio consolidato orientamento (Cass. pen., sez. IV, 25 giugno 2013 n. 42503; Cass. pen., sez. II, 15 dicembre 2011 n. 10822) secondo il quale l’istituto della sospensione condizionale della pena non è applicabile alle sanzioni inflitte agli enti a seguito dell’accertamento della responsabilità da reato ai sensi del d.lgs. 231/2001, assumendo un atteggiamento formalista e, conseguentemente, escludendo l’applicazione del beneficio considerando:

  1. la natura amministrativa della responsabilità da reato, che «non consente l’applicabilità di istituti giuridici specificatamente previsti per le sanzioni di natura penale»;
     
  2. il riferimento alle pene principali ed accessorie ma non alle sanzioni amministrative.

Ancora più recentemente la Cassazione Penale, SS.UU. sent. n. 14840/2023, sembrava aver inserito la parola fine alla questione affermando:

«…L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001»

ovvero non è possibile l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova a situazioni non espressamente previste dal d. lgs. n. 231/2001, apparendo indebito introdurre per via giurisprudenziale per le fattispecie in esso previste, un nuovo istituto del quale il giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali.

Il Giudice di Bari, invece, si discosta da questo principio apparentemente vincolante, richiamando altrettanto autorevole giurisprudenza, ed osservando ovvero ben approfondendo, in via preliminare ed assorbente, che:

“il vincolo derivante del principio di diritto affermato, ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p., dalle Sezioni Unite della Corte riguarda esclusivamente l’oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni”.

Invero, nel caso di specie, la Quarta sezione delle Corte di Cassazione (ordinanza n. 15493 del 23.03.2022) aveva sollevato il seguente quesito:

“Se il Procuratore Generale sia legittimato a proporre impugnazione avverso l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464 bis cod. proc. Pen. e avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies cod. proc. Pen. e quali siano i vizi deducibili con il ricorso avverso tale sentenza”.

Quindi, appurato che l’oggetto del quesito sottoposto alle Sezioni Unite aveva natura esclusivamente processuale e che la conseguente decisione non può essere considerata vincolante per dirimere la questione della possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, il giudice (ribadisce la posizione del Tribunale di Bari e) afferma che la natura giuridica della messa alla prova va ritenuta pienamente compatibile con quella della responsabilità dell’ente avuto anche riguardo alla loro medesima ragione di finalismo rieducativo.

Tra l’altro, corre in aiuto a tale posizione, l’espresso richiamo degli artt. 34 e 35 del D.Lgs. n. 231/2001 alle norme del codice di procedura penale ed alle disposizioni processuali relative all’imputato in quanto compatibili.

Ciò consentirebbe, in pratica, di non trattare l’applicazione dell’istituto in base ad analogia espressa (che pare comunque consentita dal legislatore con il solo limite della compatibilità) ma per mera interpretazione estensiva.

Sia consentita, quindi, qualche riflessione:

  1. la sanzione pecuniaria prevista dal d.lgs. n. 231/2001, non avendo funzione risarcitoria, e neppure recuperatoria a favore del danneggiato, trovando la sua fonte nella violazione di norme dettate per la tutela di interessi generali assumendo intrinsecamente la natura di pena, in quanto è afflittiva e dissuasiva, è assimilabile alla sanzione penale, come risulterebbe anche dalla circostanza che i criteri di commisurazione della stessa (cfr. art. 11, d.lgs. 231/2001) sono gli stessi indicati nell’art. 133 c.p.; 
     
  2. si può applicare, nel processo di cui al d.lgs. 231/2001, anche quanto ivi non regolamentato, con l’unico limite della compatibilità, non derivando da ciò alcuna violazione dei principi di tassatività e di riserva di legge, dal momento che il divieto di analogia opera soltanto quanto genera effetti sfavorevoli per l’imputato; e, soprattutto
     
  3. la Corte Europea Diritti dell’Uomo, ai fini del controllo del rispetto dei principi afferenti alle guarentigie contemplate dalla Convenzione ha, invero, classificato come penali misure punitive particolarmente afflittive, nonostante la loro qualificazione formale come amministrative negli ordinamenti nazionali, con il preciso obiettivo di evitare che diverse “etichette” formali portino all’elusione delle garanzie convenzionali.
    Auspicabile, allora, un intervento urgente del legislatore per dare la giusta dignità al d. lgs. 231/2001 valorizzandone la vocazione preventiva e la finalità di consolidare principi e valori di una nuova cultura di impresa.

 

Fonte: Sentenza Tribunale di Bari n. 57/2023.

 

NdR: potrebbe interessarti anche...Sospensione del procedimento penale con messa alla prova e rottamazione delle cartelle: due istituti da valutare con attenzione

 

A cura di Salvatore Sodano

Mercoledì 23 Agosto 2023