Accertamento analitico-induttivo o misto e accertamento induttivo puro o extracontabile: i casi

Ogni verifica fiscale comporta una diversa metodologia di accertamento che deve essere rispondente alla situazione in cui opera e lavora il contribuente accertato: i casi in cui si opera un accertamento analitico-induttivo sono diversi da quelli in cui si utilizza il metodo induttivo puro.

Metodo di accertamento: varietà

A fronte della dichiarazione del contribuente, l’Ufficio può rettificare in aumento l’imponibile esposto nella dichiarazione con tre metodi, quello analitico-contabile, quello extracontabile o induttivo e quello misto, analitico-induttivo.

Con tale metodologia, la determinazione (o meglio, la rettifica) del reddito viene effettuata sempre nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi, attivi o passivi, di cui risulti provata aliunde l’inesattezza o la mancanza.

Nell’ipotesi prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, c. 1, lett. d, in tema di imposte reddituali, la rettifica in aumento dell’imponibile esposto in dichiarazione è possibile se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonchè dei dati e delle notizie raccolte dall’Ufficio, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti (Cass. 04-09-2013 n. 20255 sez. T).

 

Discrimine: “parziale” o “assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili

Il discrimine1 tra l’accertamento condotto con metodo c.d. analitico-induttivo o misto (D.P.R. n. 600 del 1973,art. 39 c. 1 lett. d) e quello condotto con metodo c.d. induttivo puro o extracontabile (D.P.R. n. 600 del 1973 art. 39, c. 2 lett. d) in materia di imposte dirette; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, c. 2, n. 3, in materia di imposte indirette) va ricercato, rispettivamente, nella “parziale” o “assoluta” inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la ’’incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da non consentire di prescindere dalle scritture contabili, le cui lacune possono essere colmate dall’Ufficio accertatore utilizzando anche presunzioni semplici (praesumptio hominis) rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c., per dimostrare l’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, ovvero l’inesistenza di componenti negativi dichiarati; nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” inficiano più radicalmente l’attendibilità (e dunque l’utilizzabilità dell’accertamento) degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari2, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c. (Cass. 14-11-2014 n. 24278 sez. T).

 

Irregolarità formali delle scritture contabili gravi, numerose e ripetute

In caso di irregolarità formali delle scritture contabili è legittimo il ricorso al metodo induttivo (puro od analitico-extracontabile) di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, nonché l’impiego, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento (Cass. 14-12-2012 n. 23096 sez. T).

In caso di irregolarità formali delle scritture contabili così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili i dati in esse esposti (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, c. 2, lett. d; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 55, c. 2, n. 3), è legittimo il ricorso al metodo induttivo di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziarla, nonché l’Impiego, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi,

“dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento” .

In caso di irregolarità formali delle scritture contabili cosi’ come nel caso in cui i dati contabili (alla stregua dell’esame dei documenti commerciali o di prove presuntive) evidenzino una infedeltà o un difetto di veridicità è, pertanto, legittimo il ricorso (secondo la gravità ed estensione del deficit di attendibilità) al metodo induttivo puro od analitico-extracontabile di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, nonchèl’impiego, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, “dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento” (Corte Cass. 5′ sez. 06.08.2002 n. 11813), specificandosi ulteriormente che

“la rideterminazione del ricarico, operata in base a dati non privi di concretezza – quali i prezzi unitari di acquisto e di vendita, l’incidenza di ciascun prodotto sul costo del venduto, il ricarico medio riscontrato nel settore di appartenenza sulla scorta di un’analisi a campione per gruppi merceologici omogenei e il raffronto con i prezzi di vendita – costituisce operazione senz’altro legittima in quanto finalizzata alla ricostruzione del volume di affari, salva la eventuale riduzione da parte del giudice tributario del maggior reddito accertato in caso di insufficienza o inadeguatezza del campione” (Corte Cass. 5′ sez. 18.09.2003 n. 13816).

 

 

Metodo analitico–induttivo

Nell’accertamento analitico-induttivo dei redditi d’impresa, consentito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, c. 1, lett. d,

“l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse” (Corte di Cassazione sentenza 4 febbraio 2015, n. 1951).

accertamento fiscale induttivoGli accertamenti analitico-induttivi possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore.

L’Ufficio finanziario, allorché ravvisi siffatte gravi incongruenze, può procedere all’accertamento induttivo anche in presenza di una contabilità formalmente3 in regola (Cass. civ. Sez. VI, Ordinanza, 18-11-2014, n. 24482).

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture formalmente corrente non esclude la legittimità dell’accertamento” sempre che la contabilità “possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.

L’accertamento con metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, presuppone l’esistenza di scritture contabili regolarmente4 tenute dal punto di vista formale ma, tuttavia, contestabili in virtù di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti.

La legittimità della rettifica analitico-induttiva non è subordinata necessariamente all’irregolare tenuta della contabilità quando la stessa contabilità contrasta

“con i criteri di ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità, essendo in tali casi, consentito all’Ufficio di dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e di desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché chiari, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente”.

 

Perdita di esercizio correlata alla diminuita percentuale di ricarico

Di fronte all’accertamento tributario realizzato con metodo analitico-induttivo di fronte alla perdita di esercizio5 correlata alla diminuita percentuale di ricarico deve ritenersi che non si sia in presenza di un rilievo fiscale fondato su un dato statistico estrinseco ed astratto rispetto alle circostanze concrete in cui opera la impresa verificata, ma di un fatto storico che, se pure certamente verificabile nella vita della impresa, tuttavia, nel caso specifico, si palesa come anomalia nella gestione economica, in quanto riferibile alla drastica riduzione della percentuale di ricarico applicata sui prodotti venduti, non altrimenti apprezzabile alla stregua di circostanze obiettive attinenti l’andamento del mercato o le strategie d’impresa, dovendosi dunque ritenere configurabile la prova presuntiva dei maggiori ricavi/redditi, richiesta dall’articolo 39 comma 1 lettera d Dpr n. 600/73 e dall’art. 54 c. 2 Dpr 633/72 in quanto tale idonea ex se a fondare l’accertamento con tale metodo (Cass. 02-07-2014 n.15038 sez. T).

 

Modestissime percentuali di ricarico per diverse annualità

La circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un volume di affari di molto inferiore agli acquisti ed applichi modestissime percentuali di ricarico sulla merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente6 a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, con conseguente potere di applicare anche una diversa percentuale di ricarico (Cass. 17-01-2013 n. 1053).

 

Saldo di cassa in negativo

Per procedere legittimamente alla rettifica o all’accertamento delle dichiarazioni annuali delle imposte IVA e sui redditi basta la sola presenza di un conto cassa con saldi negativi; il conto di cassa in rosso è elemento di per sé sufficiente a supportare l’accertamento per ricavi in nero.

Spetta al contribuente superare la presunzione del Fisco, fornendo la prova contraria in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo.

Siccome la chiusura ‘in rosso’ di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati.

Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di attività (almeno equivalente al disavanzo).

Di talché, atteso il riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni dell’art. 54, c. 2, D.P.R. n. 633 e dell’art. 39, c. 2, D.P.R. n. 600, l’Ufficio non è tenuto a fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati.

Com’è noto, in questi casi, l’onere della prova s’inverte,

“dovendo la società contribuente offrire prove contrarie mercé la dimostrazione di ulteriori componenti positive del reddito (per es. a titolo di prestiti e/o conferimenti, corrispondenti al suddetto saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati), ovvero dimostrare errori di scritturazione e/o problemi di impostazione contabile”.7

 

Scelta tra i due tipi di accertamento 

L’accertamento analitico, rispetto a quello induttivo, offre maggiori garanzie al contribuente, in quanto vengono chiariti i motivi delle singole riprese permettendo un più puntuale esercizio del diritto di difesa, consentendo un contraddittorio su base analitica e non presuntiva.

Inoltre, non esiste alcuna disposizione di legge in forza della quale in presenza dei presupposti di fatto che consentano sia l’accertamento analitico che quello induttivo, debba essere privilegiato il secondo, potendosi al contrario sostenere come la regola generale debba essere quella di privilegiare sempre e comunque il primo, in quanto garante di maggiore certezza.

Il passaggio dall’accertamento analitico a quello induttivo si determina, infatti, in ragione della progressiva diminuzione di attendibilità delle scritture contabili in ragione delle violazioni contestate.

Nel caso in cui, dunque, vengano rinvenuti elementi extra contabili dai quali sia possibile dedurre l’incompletezza, la falsità, o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione, è data facoltà (ex art. 39, c. 1, D.P.R. n. 600/19738) all’Ufficio di procedere ad un accertamento analitico-induttivo, che dunque assume come base del ragionamento presuntivo le risultanze delle scritture contabili quando ritenute affidabili.

Il ricorso al metodo induttivo ex art. 39, c. 2,seppur giustificato dall’assoluta inattendibilità delle scritture contabili, e legittimante un accertamento “sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza” dell’ufficio, non comporta il sorgere in capo all’Ufficio dell’obbligo di disattendere la documentazione ufficiale, che costituisce comunque il termine di raffronto rispetto alla ricostruzione del reddito effettuata aliunde.

Riguardo al ricorso al metodo induttivo, si parla di facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze documentali, non di obbligo in tal senso.

In sostanza, in presenza dei presupposti che consentano il ricorso all’accertamento induttivo, all’Ufficio non è preclusa la possibilità di procedere ad accertamento analitico, rinunciando ad una sua facoltà, mentre non può dirsi il reciproco, nel senso che al ricorrere dei presupposti per l’accertamento in via analitica non può procedersi ad accertamento induttivo.

In definitiva, ricorrendo i presupposti sia dell’accertamento analitico che di quello induttivo, l’ufficio legittimamente può utilizzare l’uno o l’altro metodo, e dovrà esaminare i singoli recuperi e, nei limiti del devolutum, contestare specificamente l’eventuale erroneità dell’operato dell’Ufficio.(Cass. 17-01-2013 n. 1122 sez. T).

 

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12 marzo 2015

Ignazio Buscema

 

1 Il potere-dovere del giudice tributario di quantificare la misura del dovuto non configura un mutamento del titolo della rettifica da analitico a induttivo (Cass. 20-01-2010 n.863 sez. T).

L’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di “impugnazione-annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una c.d. “impugnazione-merito”, perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria, implicante per esso giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte; ne consegue che il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale (nella specie, incongruenza delle motivazioni e dei dati posti a base della pretesa dell’ufficio), non deve limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (Sent. n. 3995 del 19 febbraio 2009 della Corte Cass., Sez. tributaria; cfr., sentt. nn. 4280/2001, 7791/2001, 3309/2004 e 11212/2007).

2 È legittimo l’accertamento nei confronti del laboratorio di analisi cliniche che, per cinque annualità, realizzava un risultato d’esercizio negativo (o al più, modestamente positivo), continuando, tuttavia, a movimentare una notevole entità di risorse (economiche, finanziarie ed umane). È legittimo l’accertamento analitico – induttivo a carico dell’azienda che, a fronte di un risultato di esercizio negativo per più annualità, abbia continuato a movimentare una notevole entità di risorse economiche, finanziarie e umane, avvalendosi di molteplici lavoratori dipendenti e di collaboratori autonomi. La dichiarazione, per più anni consecutivi, di rilevanti perdite, nonché l’ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce “una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione “, salvo che il contribuente “non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate”. In presenza di comportamenti manifestamente antieconomici che potrebbero nascondere operazioni evasive è legittimo l’operato dell’ufficio che accerta un maggior reddito anche in assenza di irregolarità formali nella contabilità. È legittimo l’accertamento induttivo quando il risultato sia contrario a criteri di economicità. In tali casi la contabilità va considerata inattendibile e l’Amministrazione può operare le rettifiche anche sulla base di semplici presunzioni (Cass. 30-05-2014 n. 12167 sez. T)

3 In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico – induttivo del reddito d’impresa (articolo 39 del D.p.r. 600/73) qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamenti del contribuente. L’ufficio, dunque, può dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (Cass. 06-11-2013 n. 24902 sez. T).

4 “È legittimo l’accertamento basato sugli studi di settore se dalla contabilità aziendale emergono operazioni antieconomiche che denunciano una “gestione inverosimile negli anni”. In tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione Finanziaria può (ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973) fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta, sia sugli studi di settore, “nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi anche su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente”. Inoltre, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili all’apparenza regolari non esclude la legittimità dell’accertamento analitico–induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973, qualora la contabilità stessa possa considerarsi nel complesso inattendibile, perché confliggente coi criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. Quindi, in tali casi è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla scorta di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova sul contribuente (Cass. 09-11-2012 n. 19550).

5 In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600 del 1973, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio determinando il reddito d’impresa utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente. La circostanza che un’impresa commerciale, ai fini dell’imposta sul reddito, dichiari per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta anomala, di per sé sufficiente a giustificare la rettifica della dichiarazione da parte del Fisco, salvo che il contribuente non dimostri l’effettività delle perdite (cfr. Cass. n. 21536 del 2007).

6 Se la difformità riscontrata tra la percentuale di ricarico dichiarata dal contribuente e quella rilevata dalle medie di settore può costituire elemento di sospetto idoneo a giustificare la verifica fiscale, d’altra parte tale mera difformità non è idonea a fondare ex se la prova del maggiore imponibile accertato, occorrendo che dalle indagini svolte dall’Amministrazione finanziaria emergano elementi indiziari che rendano inattendibile il dato economico esposto in dichiarazione e siano dotati dei requisiti necessari volti a consentire la inferenza della conoscenza del dato ignorato (ricavo/reddito prodotto) (Cass. 17-12-2014 n.26508 sez. T). In caso di contabilità formalmente regolare, l’accertamento analitico-induttivo è legittimo se i valori dichiarati sono abnormi e irragionevoli rispetto agli standard. La difformità tra la percentuale di ricarico applicata e la media di settore dev’essere abnorme e irragionevole. In presenza di una contabilità formalmente regolare (come nella specie), la legittimità dell’accertamento, in via analitico-induttiva, di maggiori redditi da parte dell’Ufficio postula l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore, tale da incidere sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, soprattutto sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente; in presenza di tale situazione, è consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, anche mediante il ricorso alle percentuali di ricarico, con la conseguenza che l’onere della prova, in siffatta ipotesi, si sposta a carico del contribuente (Cass. 24-09-2014 n.20096 sez. T). L’atto impositivo è valido solo se le percentuali di ricarico, rispetto a quelle riscontrate nel settore di appartenenza, hanno uno scostamento «abnorme», tale cioè, da privare di ogni attendibilità la contabilità. In altri termini, una divergenza dagli standard al di sotto del 10% rovescia sull’amministrazione finanziaria l’onere della prova. In caso di contabilità regolarmente tenuta, “l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, quando essa raggiunga livelli di abnormità, tali da privare, appunto, la documentazione contabile di ogni attendibilità». Diversamente questa incongruenza rimane sul piano del mero indizio, «ove si consideri che gli indici elaborati per un determinato settore merceologico, pur basati su criteri statistici, non integrano un fatto noto e certo e non sono idonei, da soli, a integrare una prova per presunzioni» (Cass. 19-03-2014 n.6389)

7 L’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità accorda valore presuntivo circa la sussistenza di proventi non dichiarati al saldo negativo di cassa dovendosi ritenere anomala la registrazione di uscite superiori ai ricavi contabilizzati. L’Ufficio (richiamando le risultanze contabili) non è tenuto ad addurre ulteriori prove, incombendo semmai alla contribuente l’onere di dimostrare da quali operazioni attinga la liquidità risultante dai pagamenti effettuati nonostante il saldo passivo (Cass. civ. Sez. V Sent., 20-11-2009, n. 24509).

8 In tema di accertamento delle Imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile; in tali casi è pertanto consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti -, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente. Nel caso di specie, la CTR ha fatto corretta applicazione di siffatto principio, in quanto ha dapprima escluso (sulla base delle incongruenze accertate) l’attendibilità delle registrazioni contabili, ed ha poi desunto, sulla base di prova presuntiva (grave, precisa e concordante) fornita dall’Ufficio, i maggiori costi come sopra precisati; contrariamente a quanto sostenuto dalla società, non può dubitarsi che la prova presuntiva abbia, nell’ipotesi in questione, i detti caratteri (gravita, precisione e concordanza), atteso che da un fatto noto e pacifico (il numero dei “tape”) la CTR è giunta al fatto da provare (il numero dei pannolini prodotti ed il conseguente ricavo dalla vendita degli stessi) attraverso un ragionamento strettamente logico (e cioè che per ogni pannolino è necessario un “tape”), tale da far ritenere il fatto da provare quello più attendibile e probabile. In tema di accertamento delle Imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile; in tali casi è pertanto consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti), maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente. Nel caso di specie, la CTR ha fatto corretta applicazione di siffatto principio, in quanto ha dapprima escluso (sulla base delle incongruenze accertate) l’attendibilità delle registrazioni contabili, ed ha poi desunto, sulla base di prova presuntiva (grave, precisa e concordante) fornita dall’Ufficio, i maggiori costi come sopra precisati; contrariamente a quanto sostenuto dalla società, non può dubitarsi che la prova presuntiva abbia, nell’ipotesi in questione, i detti caratteri (gravita, precisione e concordanza), atteso che da un fatto noto e pacifico (il numero dei “tape”) la CTR è giunta al fatto da provare (il numero dei pannolini prodotti ed il conseguente ricavo dalla vendita degli stessi) attraverso un ragionamento strettamente logico (e cioè che per ogni pannolino è necessario un “tape”), tale da far ritenere il fatto da provare quello più attendibile e probabile (Cass. 03-07-2013 n.16687 sez. T).