L’abuso del diritto: nozione, prassi, giurisprudenza

Un approfondimento sull’abuso del diritto: dalla prassi dell’Agenzia Entrate, alla giurisprudenza di merito, a quella Cassazione, alle indicazioni della Corte di Giustizia Europea. Con allegata la sentenza di Cassazione, sezione v, n. 22994 del 12 novembre 2010.

Abuso del diritto – Nozione

abuso del dirittoNell’ordinamento tributario italiano, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione .

Ad escludere l’abuso non bastano “ragioni economiche meramente marginali e teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale.

Incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico ».

Questa tipologia costituisce un terzo genere , accanto agli atti fisiologici (tutti i leciti), ed agli atti patologici (i simulati o fraudolenti)”.

Cercare un modo per pagare il minimo possibile d’imposta è sì lecito, ma soltanto quando l’operazione posta in essere sia dettata da valide ragioni economiche, suscettibile cioè di apportare al contribuente un valore economico diverso e autonomo rispetto al mero risparmio fiscale.

Fondamento

Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati(es. imposte dirette), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione; esso non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

I principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione costituiscono infatti il fondamento sia delle norme impositive, in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme finalizzate alla piena attuazione di quei principi.

Deve quindi ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili (diverse dalla mera aspettativa del risparmio fiscale), non può ottenere indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici.

Natura fittizia o fraudolenta di un’operazione

La nozione di abuso del diritto prescinde,da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di un’operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione; né comporta l’accertamento della simulazione degli atti posti in essere in violazione del divieto di abuso.

L’accertamento del meccanismo dell’abuso “prescinde,quindi, dall’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione”.

Per affermare che un’operazione è elusiva non è necessario rilevare la fraudolenza della stessa, essendo sufficiente un uso improprio o ingiustificato (non sorretto da valide ragioni economiche) di uno strumento giuridico legittimo, che consenta però di eludere l’applicazione del regime fiscale proprio dell’operazione.

L’elemento della fraudolenza, infatti, non figura nella descrizione della figura dell’elusione fiscale ex art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973: per aggirare un obbligo o un divieto è sufficiente l’uso improprio delle norme; basta anche la realizzazione di un singolo atto inteso soltanto ad ottenere un risparmio fiscale perché operi la disposizione antielusiva.

Simulazione di un contratto

I giudici di legittimità hanno del resto chiaramente affermato (sentenza 12353/2005; sentenze della Cassazione 6445/1985, 6232/1991, 6037/1993 e 13261/1999) che

“l’ufficio finanziario ha il potere di accertare la sussistenza dell’eventuale simulazione di un contratto in grado di pregiudicare il diritto dell’Amministrazione alla percezione del giusto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare incidenter tantum, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato, l’esattezza di tale accertamento, al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria”.

Il giudice tributario può dunque verificare l’esattezza di tale accertamento anche attraverso l’interpretazione del negozio simulato (cfr anche Cassazione 4097/1984, 11676/2002, 18048/2002 e 11424/1998).

L’’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria di operazioni negoziali simulate discende dai principi generali dell’ordinamento, essendo il riflesso della più generale inefficacia del contratto simulato di cui agli articoli 1414 e 1415 del codice civile.

L’Amministrazione finanziaria, facendosi rigorosamente carico del correlativo onere probatorio, ha il potere di riqualificare (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) i contratti sottoscritti dal contribuente, ovvero di farne rilevare la simulazione o altri profili di invalidità, quale la nullità per mancanza di causa, e applicare un trattamento fiscale meno favorevole di quello conseguente agli effetti ricollegabili allo schema negoziale impiegato (Sentenza n. 12249 del 19 maggio 2010 Corte di cassazione, sezione tributaria).

Vantaggio fiscale

“Perché possa parlarsi di comportamento abusivo le operazioni controverse devono procurare un vantaggio fiscale.

Il divieto di comportamenti abusivi non vale ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali”.

Effetti

“Ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato“.

Il divieto dell’abuso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione abusiva (Cassazione Sent. n. 4737 del26 febbraio 2010 ;Cassazione , SS.UU. civ., Sent. n. 15029 del 26 giugno 2009).

Contratti tipici

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 12249 depositata il 19 maggio 2010 ha sancito che l’esistenza di un contratto tipico tra due parti non esclude l’abuso di diritto qualora si possa presumere che l’operazione sia finalizzata esclusivamente ad ottenere risparmi d’imposta. Il principio dell’abuso del diritto, principio immanente del nostro ordinamento giuridico, si applica anche ai contratti tipici.

E’ possibile dunque configurare fattispecie in sé del tutto lecite, che, però, se utilizzate per un fine diverso da quello per il quale sono state previste, contengono una valenza abusiva , dando così luogo ad abuso del diritto, principio che, data la sua immanenza nell’ordinamento costituzionale, è applicabile in via immediata e diretta, anche d’ufficio e anche a prescindere da specifiche previsioni normative.

La Corte di cassazione sull’argomento con la sentenza n. 12249/2010, ha, quindi, stabilito che:

  • la presenza di un contratto tipico tra le parti, che nasconde la natura di un’operazione finalizzata a ottenere risparmi di imposta ,può costituire ‘abuso del diritto:

  • anche i contratti tipici ritenuti simulati possono essere disconosciuti; l’Amministrazione finanziaria ha comunque il potere di riqualificare i contratti sottoscritti dal contribuente, ovvero di farne rilevare la simulazione o altri profili di invalidità, applicando quindi il trattamento fiscale meno favorevole rispetto a quello conseguente agli effetti ricollegabili allo schema negoziale artatamente impiegato.

  • l’onere probatorio contrario incombe in questi casi sul contribuente, il quale deve fornire la prova delle “rigorose” ragioni economiche sottostanti il contratto

La noma antielusiva di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e l’abuso del diritto

L’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, rappresenta “un mero sintomo dell’esistenza di una preesistente regola generale”.dell’abuso del diritto (Corte suprema, con la sentenza 12042 del 25 maggio 2009).

La noma antielusiva di cui all’art. 37-bisdel D.P.R. n. 600/1973 non è in contrasto con il principio della libertà di iniziativa economica sancito nell’art. 41, c. 1, della Costituzione in quanto non ostacola la realizzazione di qualsiasi valida iniziativa economica, attua solo il limite, previsto dal comma 2 del medesimo art. 41 secondo cui l’iniziativa stessa non può porsi in contrasto con l’utilità sociale.

La norma antielusiva di cui all’art. 37-bisdel D.P.R. n. 600/1973, non richiede che il comportamento attraverso il quale si ottiene un risparmio di imposta abbia il carattere della fraudolenza (elemento tipico della frode fiscale).

Un’operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale (a prescindere da connotazioni di fraudolenza) è un’operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale. È sufficiente un uso improprio o ingiustificato (non sorretto da idonee ovvero apprezzabili valutazioni di carattere economico) di uno strumento giuridico legittimo, utilizzato alla luce del sole, che consenta però di eludere l’applicazione di un regime fiscale proprio dell’operazione presupposto di imposta.

La norma di contrasto all’elusione non ha come finalità quella di penalizzare il contribuente (che non ha commesso nessuna violazione) bensì quella di garantire l’uguaglianza del trattamento fiscale. La norma mira soltanto a riportare sotto il regime della disciplina fiscale comune un’ operazione che a tale regime è stata sottratta senza ragione.

E’ recessiva la tesi secondo cui il solo modo per contestare le operazioni “sospette” consiste nel dimostrare che le stesse rientrano tra i casi di elusione tassativamente indicati dall’articolo 37-bis del Dpr 600/1973.L’abuso del diritto risulta applicabile anche al di fuori delle specifiche fattispecie previste dall’articolo 37 bis del D.p.r. n. 600/73

Il principio del divieto dell’abuso di diritto, in virtù del suo fondamento costituzionale, diventa, conseguentemente, il riferimento normativo da rispettare, scalzando l’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, che da norma antielusiva generale diviene solo una norma figlia di tale principio, con l’ulteriore conseguenza che non è possibile sostenere che una determinata operazione non presenti caratteristiche di elusività perché non rientrante nell’alveo della portata precettiva dell’articolo 37 bis.

Tale principio è sempre esistito e non contrasta con esso la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi “mero sintomo dell’esistenza di una regola generale” (Cassazione, sentenza 8772/2008). La giurisprudenza sull’abuso del diritto legittima gli uffici ad applicare il relativo potere accertativo senza corredarlo delle garanzie procedimentali contenute nell’art. 37-bis (iscrizione a ruolo dopo il primo grado, richiesta di chiarimenti a pena di nullità, motivazione “rafforzata”, etc.).

All’eccezione di violazione della garanzie procedimentali, gli uffici possono opporre appunto di non essere tenuti a rispettarle, avendo applicato non già l’art. 37-bis, ma il principio del divieto di abuso del diritto.

Imposta di registro

L’articolo 20 del Dpr 131/1986 (Testo unico dell’imposto di registro) costituisce una norma di natura anti-elusiva in quanto finalizzata, laddove dispone che il tributo sia applicato secondo “l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti”, al disconoscimento dei vantaggi tributari conseguiti dalle parti per mezzo dell’abuso di diritto (Ctp di Milano sentenza n. 26/7/10, depositata il 10 febbraio 2010).

La funzione antielusiva dell’articolo 20 si rafforza alla luce del principio generale di abuso del diritto di matrice comunitaria.

Con le sentenze 8772 e 25374 del 2008, la Cassazione, traendo spunto dai concetti forniti dai giudici comunitari, ha definitivamente sostenuto la vigenza, anche nell’ordinamento tributario italiano, di una clausola generale antiabuso che trascende, non solo l’area dei cosiddetti tributi armonizzati, ma addirittura l’intera materia tributaria.

Il rango comunitario della regola comporta l’obbligo della sua applicazione d’ufficio. Tale immanente principio, pertanto, costituisce la chiave di lettura dell’articolo 20 del Dpr 131/1986 e ne rafforza la sua portata antielusiva.

Riparto onere probatorio

La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale spessore (apprezzabili) che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. (Cassazione , Sez. trib., Sent. n. 20030 del 22 settembre 2010).

L’amministrazione finanziaria non può contestare alle aziende un abuso di diritto se, pur avendo provato la deviazione “dagli schemi contrattuali tradizionali”, non abbia però “documentato” il vantaggio fiscale (Cassazione sentenza n. 20030 del 22 settembre 2010).

L’onere della prova della pratica abusiva grava sull’Amministrazione finanziaria la quale, nell’assolvere all’obbligo di motivazione degli atti di rettifica e accertamento, non può limitarsi alla formulazione di generici rilievi, dovendo bensì indicare gli elementi specifici a sostegno dell’assunto circa lo scopo elusivo e la carenza di effettività economica dell’operazione contestata (sentenza 25374/2008).

La contestazione dell’abuso si può “operativamente” suddividere in tre fasi:

  1. individuazione dell’operazione fisiologica aggirata

  2. riqualificazione dell’operazione abusiva

  3. accertamento dei conseguenti effetti fiscali (disconoscimento dei vantaggi fiscali illeciti).

Onere dell’Amministrazione finanziaria è individuare la corretta operazione fisiologica che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere e gli effetti fiscali (di vantaggio) che il contribuente ha illegittimamente ottenuto grazie alla predisposizione di un’operazione non fisiologica, non sorretta da valide ragioni economiche.

L’ufficio deve infatti indicare, quale sarebbe stato il corretto carico fiscale (il “comportamento fisiologico aggirato”) laddove il contribuente non avesse posto in essere l’operazione abusiva e, nel farlo, deve guardare la pianificazione nel suo complesso e le relative conseguenze, anche negli anni successivi.

Una volta individuata l’operazione fisiologica aggirata, l’ufficio dovrà allora riqualificare l’operazione contestata in quanto abusiva, accertando le maggiori imposte che da tale riqualificazione derivano.

Rilevabilità di tale figura nell’ambito del giudizio

Giova ricordare che, per costante giurisprudenza , sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio dell’Amministrazione in una materia, come è quella tributaria, da essa non disponibile (Cassazione SS.UU. civ., Sent. n. 30055 del il 23 dicembre 2008).

L’inopponibilità al Fisco delle operazioni abusive in materia di Iva e di tributi cosiddetti armonizzati è una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria, avente rango di diritto comunitario primario, operante anche in difetto di una specifica disciplina nazionale.

Da tale natura deriva l’obbligo di applicazione d’ufficio e la disapplicazione di norme nazionali, ivi comprese quelle di natura procedimentale o processuale anche in processi “chiusi” come quello di cassazione, a prescindere da specifiche deduzioni di parte (Cassazione sentenza n. 12249 del 19 maggio 2010). In tema processuale, nessun dubbio può sussistere riguardo alla concreta rilevabilità d’ufficio, anche per la prima volta in Cassazione, della inopponibilità del negozio abusivo all’erario, con effetti retroattivi.

Novella normativa

La decisione del giudice può essere basata sulla questiona rilevata d’ufficio dell’abuso del diritto. La legge n. 69 del 18 giugno 2009, ha introdotto, a tal riguardo, all’art. 101 c.p.c. la previsione secondo cui il giudice, non può effettuare decisioni a sorpresa. Tale modifica trova applicazione anche nel processo tributario in virtù del principio di integrazione di cui al D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992.

Quindi il novellato art. 101 c.p.c. trova applicazione quando la Commissione tributaria intende porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio come, ad esempio l’abuso del diritto. La disposizione è applicabile al processo tributario, posto che anche tale modello rituale è ispirato al principio del contraddittorio, principio, che, fra l’altro, ha rango costituzionale.

La modifica è applicabile anche al processo tributario per i processi instaurati dopo il 4 luglio 2009.

L’innovazione comporta che il giudice non potrà decidere la controversia sulla base di questioni rilevate d’ufficio se non ha preventivamente attivato il contraddittorio tra le parti sul tema pena la nullità della sentenza; infatti, ove lo stesso giudice decida in base a questione rilevata d’ufficio e non segnalata alle parti, si avrebbe violazione del diritto di difesa per mancato esercizio del contraddittorio, con conseguente nullità della emessa pronuncia.

Tale nullità della sentenza deve essere fatta tuttavia valere secondo le regole e i termini dei mezzi di impugnazione in osservanza del principio di conversione dei vizi della sentenza in motivi di impugnazione. In caso di mancato impugnazione la sentenza sarà sanata dal passaggio in giudicato, che è la causa di sanatoria più penetrante esistente.

Abuso del diritto e sanzioni tributarie

La violazione di un principio di ordine generale, qual è il divieto dell’abuso del diritto, rende inapplicabili le sanzioni trovando applicazione l’esimente di cui all’art. 8 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in presenza di obbiettive condizioni di incertezza sull’ambito e la portata della disposizione violata (Cass. civ. Sez. V Sent., 25-05-2009, n. 12042). Secondo la sentenza n. 12042 del 25 maggio 2009 (ud. dell’1 aprile 2009) della Corte Cass., sez. tributaria deve trovare accoglimento ladomanda del contribuente circa la disapplicazione delle sanzioni indipendenza della violazione di un principio generale quale l’abuso del diritto.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 6105 del 13 marzo 2009 ha statuito che l’obiettiva incertezza è un evidente presupposto per fare ricorso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e che proprio la necessità di richiedere una interpretazione della Corte di Giustizia dimostra l’esistenza di una obiettiva incertezza.

La CTR di Firenze, con sentenza n. 26/2009 ha deciso che, al contribuente che pone in essere una serie di negozi giuridici al fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale, l’Amministrazione Finanziaria potrà recuperare esclusivamente le imposte non versate, ma non le sanzioni.

Questo a condizione che, a seguito di interpretazioni anche giurisprudenziali divergenti, esistono o esistevano all’epoca dei fatti obiettive condizioni di incertezza sulla qualificazione degli atti che hanno comportato l’abuso di diritto tali da indurre in errore il contribuente.

Abuso del diritto e giudicato

La Corte di Giustizia europea, con la sentenza 3/9/2009, C-2/08, ha stabilito che articolo 2909 del codice civile che impedisce di accertare due volte gli stessi elementi in caso di pronunce successive tra le medesime parti e sugli stessi fatti(cd. giudicato ultrattivo) può essere disapplicato se impedisce l’attuazione del diritto comunitario e quindi del principio del divieto dell’abuso del diritto.

L‘intervento della Corte di Giustizia ha riguardato il cosiddetto “giudicato esterno”, cioè l’estensione della cosa giudicata, formatasi in una controversia, ad altri procedimenti relativi al medesimo soggetto e al medesimo oggetto, non ancora decisi in via definitiva.

L’esistenza delprincipio della cosa giudicata è uno strumento idoneo a garantire la certezza del diritto, ma, non può impedire la piena applicazionedel diritto comunitario in materie di particolare rilevanza per l’ordinamento comunitario, quali il divieto di abuso del diritto.

Qualunque questione concernente la validità e/o l’efficacia di un contratto, può essere autonomamente risolta per i diversi anni d’imposta, nonostante la sussistenza di diverse sentenze definitive, con le quali è stata dichiarata, per anni d’imposta diversi da quello in contestazione, la natura non fraudolenta né elusiva dell’operazione.

Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con l’ordinanza n. 18055 del 4 agosto 2010, ha chiesto alla Corte di Giustizia UE di pronunciarsi sulla compatibilità, con le disposizioni comunitarie, della misura di definizione agevolata per le controversie fiscali contenute nel decreto incentivi n. 40/2010 grazie alla quale le liti pendenti in Cassazione, per le quali l’amministrazione finanziaria sia risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio, possono essere definite mediante il pagamento del 5% del valore della controversia da parte del contribuente.

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 18055 del 4 agosto 2010 ha ritenuto di sottoporre alla Corte di Giustizia in tema di elusione tributaria e di abuso di diritto le seguenti questioni:

  1. se il principio del contrasto all’abuso del diritto in materia fiscale costituisca un principio fondamentale del diritto comunitario soltanto in materia di imposte armonizzate , ovvero si estenda, quale ipotesi di abuso di libertà fondamentali, alle materie di imposte non armonizzate, quali le imposte dirette, quando l’imposizione ha per oggetto fatti economici transnazionali, quale l’acquisto di diritti di godimento da parte di una società su azioni di altra società avente sede in altro Stato membro o in uno Stato terzo;

  2. se il principio di non discriminazione e la disciplina in materia di aiuti di Stato ostino al regime di definizione delle controversie fiscali.

Consulenza tecnica

La richiesta al giudice tributario di disporre consulenza tecnica d’ufficio è uno strumento di garanzia per il contribuente nelle controversie in materia di operazioni elusive e abuso del diritto. Il contribuente, in sede di prima udienza, può segnalare al Collegio giudicante la “necessità di acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità”, invitando la Commissione tributaria provinciale a disporre consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) ex art. 7, c. 2 del decreto legislativo 546/92 ed a formulare tre quesiti:

  1. «individuare gli atti, fatti e negozi giuridici oggetto del contendere;

  2. accertare l’eventuale risparmio fiscale ottenuto dalla ricorrente e, in caso affermativo, indicarne l’entita;

  3. individuare le ragioni economiche sottese a tali operazioni» (vd. CTP di Bergamo – Sezione X, sentenza n. 28 del 26 gennaio 2009)

Fattispecie concrete di abuso del diritto

E’ utile rammentare alcune fattispecie concrete di abuso del diritto esaminate dal giudice di legittimità.

  • La “simulazione” di un vincolo di pertinenza ai fini Ici, ai sensi dell’art. 817 del codice civile, va inquadrato nella più ampia categoria dell’abuso di diritto (Cassazione sentenza n. 25127 del 30 settembre 2009, dep. il 30 novembre 2009), se la scelta pertinenziale non è giustificata da reali esigenze (economiche ,estetiche, o di altro tipo), ma ha l’unica funzione di attenuare il prelievo fiscale, eludendo il precetto che impone la tassazione in ragione della reale natura del cespite.

  • In tema imposta di registro, l’iscrizione in contabilità delle passività trasferite in occasione della cessione d’azienda che, soltanto od essenzialmente, hanno lo scopo di abbassare finanziariamente il valore dell’imponibile (Cassazione Sent. n. 12042 dep. il 25 maggio 2009).

  • L’acquisizione a valore di mercato di titoli azionari di una società controllata e la cessione, dopo breve periodo, degli stessi titoli a valore nominale alla società controllante, (Cassazione Ord. n. 11659 del 6 aprile 2009, dep. il 20 maggio 2009).

  • Il contratto di leasing di beni ammortizzabili stipulati tra due società del medesimo gruppo (Cassazione Sent. n. 8481 del 22 gennaio 2009, dep. 8 aprile 2009).

  • Le operazioni di acquisto e cessione di merce tra società del gruppo possono configurare un’ipotesi di abuso del diritto: infatti, lo scambio di fatture tra società appartenenti alla stessa famiglia, a fronte della ripetuta vendita di beni a prezzi fuori dal mercato, può apparire ingiustificato, salvo prova contraria, e può nascondere un disegno elusivo volto ad ottenere un indebito risparmio d’IVA, nonostante siano utilizzati strumenti giuridici non vietati dalla legge (Cassazione sentenza n. 9476 del 21 aprile 2010).

  • Il negozio con il quale viene costituito, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, un diritto di usufrutto sulle azioni o sulle quote di una società italiana, possedute da un soggetto non residente (Cassazione , SS.UU. civSent. n. 30057 del 23 dicembre 2008; contra Cassazione Ord. n. 10239 del 28 aprile 2010). Con riferimento alla disciplina vigente in epoca anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14, c. 6 bis, Tuir, è possibile dichiarare inopponibili all’Amministrazione finanziaria i benefici fiscali derivanti dalle cosiddette operazioni di dividend washing e di dividend stripping, qualora risultino poste in essere al solo scopo di eludere la disciplina fiscale dei redditi di partecipazione, non apparendo giustificate da ragioni economicamente apprezzabili. Le operazioni di dividend washing consistono nell’acquisto di azioni da un fondo comune d’investimento o da una Sicav e successiva rivendita delle medesime azioni alla stessa società cedente, dopo la percezione dei dividendi, ad un prezzo inferiore a quello di acquisto. Si utilizza l’espressione dividend stripping con riferimento alla costituzione, in favore di una società residente nel territorio dello Stato, di un diritto di usufrutto su azioni o quote di una società italiana possedute da un soggetto non residente.

  • In tema di imposte sui redditi, l’acquisto di numerose società non operative, al solo scopo di fruire di considerevoli crediti d’imposta da parte dell’acquirente (per mezzo di operazioni di ricapitalizzazione delle società, poste in essere con lo scopo di riportarle in perdita subito dopo l’attribuzione dei dividendi) sono qualificabili come operazioni fittizie, in quanto elusive perché attuate per un fine distorto, nel senso che, mentre incidono, diminuendolo, sul gettito fiscale, contrastano con l’utilità sociale, che costituisce limite alla realizzazione di qualsiasi valida iniziativa economica (Cassazione, Sent. n. 22994 del 12 novembre 2010)

  • La cessione da una società sportiva italiana ad una società estera dei diritti di sfruttamento dell’immagine di un atleta, quando manca una valida ragione economica(Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 26 febbraio 2010, n. 4737).

  • In caso di più fatture relative a beni deperibili, emesse, nell’arco di un breve tempo ed a prezzi notevolmente diversi, tra società facenti capo alla medesima famiglia (Cass. civ. Sez. V, 21-04-2010, n. 9476).

  • Le compravendite di titoli azionari fatte “con la sola finalità di risparmio di imposta”. Compie un abuso di diritto la società che svende le azioni all’interno del gruppo societario, pagate al valore di mercato e rivendute a quello nominale (Corte di cassazione sentenza n. 11659 del 20 maggio 2009).

  • La corresponsione di “rilevanti” somme in favore dell’amministratore di una società, per fini pubblicitari e promozionali, “in mancanza di alcuna prova documentale circa la loro spendita”, deve ritenersi posta in essere al solo fine di fare ottenere un risparmio d’imposta. In tal caso l’importo percepito dal ricorrente è “compenso aggiuntivo” a titolo di fringe benefit (Corte di cassazione sentenza n. 27646 del 21 novembre 2008).

  • Operazione di locazione finanziaria, coniugata con operazioni di finanziamento, posta in essere fra soggetti appartenenti a un medesimo gruppo societario laddove sia rilevata un manifesta carenza di redditività della stessa e un valore aggiunto ai fini dell’Iva irrisorio, alla luce della complessiva unitarietà dei negozi giuridici considerati (Cassazione sentenza n. 25374 del 21 maggio 2008 depositata il 17 ottobre 2008).

  • E’ elusiva dell’applicazione dell’imposta di registro, per abuso di diritto, l’operazione di conferimento in società di un immobile, unitamente all’accollo di un debito ipotecario da parte della conferitaria, con successiva cessione delle quote di quest’ultima ad opera del conferente (CTP di Reggio Emilia sentenza n. 190 del 9 ottobre 2009).

  • Può essere considerata operazione elusiva anche il leasing fatto per la vendita di una cosa futura, ad esempio un immobile in ristrutturazione. Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava una società che aveva venduto a una società di leasing un immobile in ristrutturazione, percependo l’80% del valore di questo e accendendo il contratto di leasing prima dell’ultimazione dei lavori (Corte di Cassazione sentenza n. 10388 del 6 maggio 2010).

  • Il giudice tributario, prima di accertare l’effettiva sussistenza delle operazioni fatturate, deve preliminarmente valutare se siano riscontrabili ipotesi di abuso del diritto, in presenza di ripetute, e spesso ingiustificate, vendite e acquisti posti in essere fra le imprese del gruppo (sentenza n. 9476 del 21 aprile 2010, Corte di cassazione).

  • Il sale and lease back infragruppo non costituisce automaticamente un abuso di diritto. L’appartenenza delle società allo stesso gruppo imprenditoriale è una circostanza non determinante ai fini dell’elusione fiscale che va esclusa nel caso in cui la cessione del bene e la fatturazione risultano vere (Cassazione sentenza 12044/09). Con il sale and lease back una parte cede un immobile in proprietà a una società finanziaria, dalla quale ottiene il bene in leasing: a una certa data bisognerà scegliere fra proprietà piena o godimento a titolo di locazione. L’operazione, insomma, non è sempre e comunque elusiva: affinché scatti l’abuso di diritto bisogna dimostrare che i contratti conclusi fra le società appartenenti alla stessa holding sono stati stipulati con il solo obiettivo del risparmio d’imposta (Cassazione 6663/97). Di fronte a un contratto come il sale and lease back – è irrilevante ai fini della liceità delle transazioni che l’impresa venditrice appartenga alla stesso gruppo di quella che utilizza il bene: il patto commissorio, che è vietato dalla legge, si può configurare soltanto nel caso di interposizione fittizia dell’utilizzatrice, mentre nel caso di specie il trasferimento dell’immobile risulta effettivo. L’utilizzatrice, dunque, poteva legittimamente affidare la garanzia del proprio debito a quello schema contrattuale, che ha autonomia strutturale e funzionale (Cassazione 4612/98; 10805/95).

  • L’addebito di abuso di diritto non trova il necessario riscontro nella condotta della società contribuente, quando questa non risulta aver: reimportato le stesse merci che esportava (le operazioni di esportazione non coincidono con quelle di acquisto effettuate nei confronti delle società intermediarie); effettuato gli acquisti a prezzi inferiori a quelli di mercato, in ragione dell’evasione IVA. Mentre le operazioni di esportazione hanno una loro autonomia e una conseguente giustificazione economica, l’acquisto di merci analoghe reimportate, con regolare corresponsione, da parte della contribuente, dell’IVA esposta nelle fatture non comporta una necessaria e consapevole partecipazione, da parte dell’acquirente, all’evasione IVA posta in essere dalla venditrice (Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 13/03/2009, n. 6124).

Abuso del diritto alla luce della prassi

L’Agenzia delle Entrate, con risoluzione n. 234/E del 24 agosto 2010, ha precisato che, in tema di imposta di successione, se il coerede muore prima della presentazione della dichiarazione di successione e senza avere rinunciato all’eredità, il coerede superstite, che gli succede, non può presentarsi al fisco quale unico erede della prima successione; dovrà invece presentare distinte dichiarazioni per i due passaggi e pagare le relative imposte successorie. Inoltre, al fine di evitare il doppio passaggio, non si ritiene valido l’eventuale atto di rinuncia all’eredità in nome e per conto del coerede defunto: sebbene legittimo sul piano civilistico, tale atto non è opponibile all’Amministrazione Finanziaria in quanto concretizza un abuso di diritto.

La rinuncia all’eredità finalizzata al solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale concretizza, pertanto, in base ai principi enunciati dalla Corte di Cassazione, un abuso di diritto. Non può essere opposta all’Amministrazione finanziaria la rinuncia all’eredità effettuata da uno dei soggetti chiamati in nome e per conto dell’altro erede (deceduto prima di aver compiuto alcun atto di accettazione), al fine di conseguire un vantaggio fiscale.

4 dicembre 2010

Angelo Buscema

Cassazione, sezione v, sentenza n. 22994 del 12 novembre 2010

Svolgimento del processo – La società Alfa S.r.l. in liquidazione ha impugnato l’avviso emesso il 28 maggio 2002 dall’Agenzia delle Entrate di Como – notificato alla Società Alfa, al liquidatore Z e agli amministratori X e Y – con cui è stata accertata per l’anno 1997 (semestre gennaio/giugno) una maggiore Irpeg di euro 4.703.131,00= con relative sanzioni derivante dal mancato riconoscimento di crediti di imposta su dividendi e di ritenute alla fonte a titolo di acconto sugli stessi dividendi, portati in detrazione nella dichiarazione dei redditi. La ripresa derivava da acquisti da parte dell’amministratore Y sul mercato nazionale ed estero di società non operative, che venivano temporaneamente riattivate con compensazione di posizioni creditorie e debitorie sia sui conti bancari che attraverso accreditamenti o addebitamenti intersocietari, con creazione di dividendi fittizi erogati dalle società partecipate, in parte distribuiti ai soci sotto forma di utili, e dei quali le società, gestite da parenti o collaboratori di Y, chiedevano il rimborso per poi tornare immediatamente inattive, avendo dato vita ad una ipotesi di dividend washing finalizzata ad ottenere un credito d’imposta sui dividendi. La Commissione tributaria provinciale ha respinto il ricorso della società e quello del liquidatore Z.

Su appello della Società Alfa, che ribadiva l’insufficiente motivazione dell’avviso e l’inammissibilità, per tardività, della costituzione dell’ufficio, la Commissione tributaria regionale della Lombardia con sentenza 27 gennaio 2005, dato atto della rinuncia alla pretesa delle sanzioni nei confronti del liquidatore Z e della cessata materia del contendere nei suoi confronti, ha ritenuto, adeguatamente motivato l’accertamento (in gran parte trascritto nella parte espositiva della sentenza) in quanto riproducente il contenuto del verbale della Polizia Tributaria di riferimento; non inficiata di nullità la costituzione tardiva dell’ufficio, prevedendo l’art. 22 del D.P.R. n. 546/1992, un termine in tal senso ordinatorio; la fittizietà, in conformità della valutazione operata della Banca d’Italia quale organo di vigilanza, delle operazioni finanziarie e societarie poste in essere, tutte riconducibili a Z, titolare all’Anagrafe tributaria di 59 società, oltre ad altre 140 riconducibili a suoi familiari e collaboratori, che nei vari anni avevano accumulato perdite per circa 4 miliardi di lire, senza che le operazioni poste in essere fossero supportate da riscontri documentali attestanti l’effettiva presenza di soggetti contraenti e le motivazioni della compravendita, con contemporaneità della data di valuta delle operazioni contestate, rappresentate da due negoziazioni di segno opposto, inconfutabile indice di fittizietà.

X chiede la cassazione di tale sentenza sulla base di quattro motivi.

L’Agenzia delle Entrate non si è costituita.

Motivi della decisione – Col primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. per non avere la sentenza impugnata pronunciato in ordine all’insussistenza della responsabilità solidale del liquidatore circa il pagamento dell’imposta nell’ipotesi di infrazioni addebitabili esclusivamente alla società. I giudici d’appello si sono infatti limitati a dichiarare cessata la materia del contendere in relazione alle pene pecuniarie, ma hanno omesso ogni pronuncia relativa alla responsabilità del ricorrente, chiamato in causa anche in proprio in ordine al pagamento del tributo.

Col secondo motivo si denuncia illegittimità della sentenza impugnata per insufficienza e illogicità della motivazione, per difetto di motivazione dell’atto impositivo nonché per violazione degli artt. 42 del D.P.R. n. 600/1973 e 112 c.p.c., per avere ritenuto motivato un avviso cui non era allegato l&