Uno stop al sale & lease-back

Analisi dei profili di incompatibilità fra la legge italiana ed il contratto di “sale & lease-back”: il possibile abuso del diritto con particolare riguardo a i contratti infragruppo.

Con sentenza n. 5583 del 9 marzo 2011 (ud. del 26 novembre 2010) la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di Sale and leaseback.

 

La decisione sul punto

Sul punto specifico la Corte di Cassazione sottolinea che ormai da tempo ha affermato che

“nel contratto di sale and lease back con il quale una impresa commerciale o industriale vende un bene immobile di sua proprietà ad un imprenditore finanziario che ne paga il corrispettivo, diventandone proprietario, e contestualmente lo cede in locazione finanziaria (leasing) alla stessa venditrice, che versa periodicamente dei canoni di leasing per una certa durata, con facoltà di riacquistare la proprietà del bene venduto, corrispondendo al termine di durata del contratto il prezzo stabilito per il riscatto, la vendita ha scopo di leasing, e non di garanzia, perchè nella configurazione socialmente tipica del rapporto costituisce solo il presupposto necessario della locazione finanziaria, inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all’imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l’alienazione di un suo bene strumentale, conservandone a questo l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto.

Tale vendita, ed il complesso rapporto atipico nel quale si inserisce, non è allora di per sè in frode al divieto del patto commissorio (in ordine al quale v. da ultimo Cass., 5/3/2010, n. 5426; Cass., 12/1/2009, n. 437).

Divieto che, essendo diretto ad impedire al creditore l’esercizio di una coazione morale sul debitore spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione nel caso di patto commissorio ab intervallo) da ristrettezze finanziarie, e a precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità di fare proprio il bene attraverso un meccanismo che lo sottrarrebbe alla regola della par condicio creditorum, deve ritenersi tuttavia violato ogniqualvolta lo scopo di garanzia costituisca non già mero motivo del contratto ma assurga a causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., 27/7/2006, n. 17145; Cass., 8/5/2006, n. 10490; Cass., 14/11/2005, n. 22932; Cass., 26/10/2005, n. 20816; Cass., 21/10/2005, n. 20398), a meno che non risulti, in base a dati sintomatici ed obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitori a preesistente o contestuale alla vendita o la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato e, in altri termini, delle reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto (costituenti invero oggetto di accertamento di fatto: v. Cass., 16/10/1995, n. 10805; Cass., 19/7/1997, n. 6663; Cass., 26/6/2001, n. 8742; Cass., 22/3/2007, n. 6969), che la predetta vendita, nel quadro del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all’impresa alienante, è stata invero piegata al rafforzamento della posizione del creditore-finanziatore, il quale in tal modo tenta di acquisire l’eccedenza del valore, abusando della debolezza del debitore (v. Cass., 16/10/1995, n. 10805; Cass., 7/5/1998, n. 4612; Cass., 29/3/2006, n. 7296)”.

Prosegue la sentenza rilevando che così come il c.d. leasing finanziario (v, Cass., 27/7/2006, n. 17145), anche il contratto di sale&lease back si configura

“secondo uno schema negoziale socialmente tipico (in quanto frequentemente applicato, sia in Italia che all’estero, nella pratica degli affari), come caratterizzato da una specificità sia di struttura che di funzione (e, quindi, da originalità e autonomia rispetto ai tipi negoziali codificati), e concretamente attuato attraverso il collegamento tra un contratto di vendita di un proprio bene di natura strumentale da parte di un’impresa (o di un lavoratore autonomo) ad una società di finanziamento che, a sua volta, lo concede contestualmente in leasing all’alienante il quale corrisponde, dal suo canto, un canone di utilizzazione con facoltà, alla scadenza del contratto, di riacquistarne la proprietà esercitando un diritto di opzione per un predeterminato prezzo.

Manca pertanto nel sale&lease back la trilateralità propria del leasing, potendo essere due (e soltanto due) i soggetti dell’operazione finanziaria (e, conseguentemente, le parti del contratto), l’imprenditore assumendo la duplice veste del fornitore-venditore e dell’utilizzatore, secondo un procedimento non diverso da quello dell’antico costituto possessorio.

Ne consegue che il negozio di sale&lease back viola la ratio del divieto del patto commissorio, al pari di qualunque altra fattispecie di collegamento negoziale, sol che (e tutte le volte che) il debitore, allo scopo di garantire al creditore l’adempimento dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del creditore stesso un proprio bene riservandosi la possibilità di riacquistarne il diritto dominicale all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza peraltro prevedere alcuna facoltà, in caso di inadempimento, di recuperare l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare del credito, con un adattamento funzionale dello scopo di garanzia del tutto incompatibile con la struttura e la ratio del contratto di compravendita (v. Cass., 21/1/2005, n. 1273)”.

 

Per i giudici di Cassazione, l’operazione contrattuale può dunque definirsi

“fraudolenta nel caso in cui si accerti, con una indagine che è tipicamente di fatto, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della correttezza della motivazione, la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente (v. Cass., 14/3/2006, n. 5438). L’esistenza invece di una concreta causa negoziale di scambio (che può riguardare, o meno, tanto il sale&lease back quanto lo stesso leasing finanziario) esclude in radice la configurabilità del patto vietato (v. Cass., 21/1/2005, n. 1273)”.

Entrando in campo tributario, la Corte sottolinea (richiamando precedenti pronunce) che, “una volta contestata dall’erario l’antieconomicità delle singole operazioni poste in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, è onere di quest’ultimo dimostrare la liceità fiscale dell’operazione negoziale unitariamente considerata nel suo complesso, e il giudice tributario non può al riguardo limitarsi a constatare la mera regolarità formale della documentazione cartacea (v., con riferimento ad ipotesi di canoni di leasing, Cass., 25/5/2009, n. 12044. V. altresì Cass., 18/5/2007, n. 11599, e, da ultimo, cfr. Cass., 12/1/2011, n. 616). Orbene, a fronte delle contestazioni nel caso mosse dall’A.F., gli odierni ricorrenti non hanno invero offerto e dato prova alcuna della liceità dell’operazione negoziale in argomento, limitandosi ad apoditticamente, nella rilevata violazione del principio di autosufficienza, escludere la relativa finalità elusiva”.

L’esame delle operazioni poste in essere dall’imprenditore, ai fini del riconoscimento del diritto a deduzioni o a benefici fiscali, deve essere compiuto anche alla stregua del principio, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (in materia fiscale v. in particolare Corte Giust., 21/2/2006, C-255/02), secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute e quand’anche immuni da invalidità, risultino, alla stregua di un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale (v. Cass., 29/9/2006, n. 21221).

Trattasi di un principio generale antielusivo desumibile dall’art. 53 Cost., non essendo pertanto al riguardo necessario farsi necessariamente luogo all’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione, trattandosi di valutare quest’ultima nella sua essenza, non potendo a riguardo influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale, e tali quindi da potersi considerare manifestamente inattendibili od assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità (v. Cass., Sez. Un., 23/12/2008, n. 30055; Cass., 21/4/2008, n. 10257; Cass., 29/9/2006, n. 21221).

 

Brevi considerazioni

In materia di comportamenti elusivi, in particolare in ordine al cd. Leaseback, la Corte di Cassazione, in questi anni, si è attestata sulle posizioni del Fisco.

In tal senso va annotata la sentenza n. 10802 del 23.4.2002, depositata il 24.7.2002, per un’operazione di sale and leaseback. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte viene in rilievo la deduzione dei costi per il noleggio di natanti ed autoveicoli che la società controllante

“ha acquistato dalle proprie controllate, per poi noleggiarle ad esse, e tra quest’ultime appunto all’attuale resistente società”.

La tesi del Fisco è che gli importi corrisposti a titolo di noleggio

“sarebbero del tutto ingiustificati, al di fuori di ogni logica di carattere economico, e che possono spiegarsi solo con un intento di elusione fiscale, in quanto in questo modo verrebbe ridotto l’imponibile della controllata, soggetta a normale tassazione, ed aumentato quella della controllante, che però può usufruire di una tassazione ridotta godendo dei benefici della legge 29 gennaio 1986 n.26 (la cosiddetta legge per Trieste)”.

La Corte, dalla lettura del combinato disposto degli artt. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, e 9 del T.U. n. 917/1986, ne ricava il principio generale che consente all’Amministrazione finanziaria di “valutare … le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato”.

Ciò fa sì che non possano essere dedotte – o più esattamente, che possano non avere efficacia ai fini fiscali – costi non giustificati economicamente, “al di sopra, in maniera rilevante … rispetto ai prezzi praticati comunemente”.

La libertà delle scelte imprenditoriali da più parti invocata non fa altro – secondo la Suprema Corte – che porre malamente il problema, in quanto “l’imprenditore, proprio perché tale, non può che agire secondo criteri di logica economica intesi ad ottenere il profitto più elevato ed a ridurre al minimo i costi, ma proprio per contenere i costi si procurerà i vari fattori che gli sono necessari … al prezzo meno elevato disponibile sul mercato per prestazioni dello stresso tipo”.

Né gli errori di valutazione o di strategia, possono essere di giustificazione, se non supportati adeguatamente: “occorre, cioè, che le varie operazioni, coordinate le une alle altre, abbiano un fine logico, rispondano almeno nelle intenzioni di chi le pone in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio, e questa logica, a sua volta, deve essere funzionale ai meccanismi del mercato e di un regime di libera concorrenza…, e non di elementi distorsivi del mercato e della concorrenza” (è possibile, cioè, compiere un’operazione antieconomica “in vista e in funzioni di benefici economici su altri fronti”).

Ancora la Corte di Cassazione – sentenza n. 8481 dell’8 aprile 2009 (ud. Del 22 gennaio 2009) – si è domandata se siano tributariamente leciti i contratti di leasing di beni ammortizzabili stipulati tra due società del medesimo gruppo.

Per la Cassazione

“più specificatamente, poi, l’elusione tributaria e il connesso abuso di diritto si realizzano, nella fattispecie in esame, in quanto si riconosca rilevanza tributaria, come ha esattamente fatto il giudice d’appello, all’unità sostanziale, del gruppo di società.

Si torna a sottolineare che questo profilo, centrale nella prospettiva assunta dalla Commissione tributaria di secondo grado, non è stato censurato dalla Società ricorrente, che, oltre alla tesi dell’appiattimento del diritto tributario sul diritto civile in tema di autonomia privata, sostiene quella della prevalenza generale ed assoluta della singolarità e dell’autonomia delle società di gruppo rispetto al gruppo di società. Ma questa prospettiva, imperniata sullo schermo della personalità giuridica delle singole società di gruppo, non può essere condivisa, perché essa non è più accolta già da molto tempo né dalla dottrina commercialistica né dalla giurisprudenza di legittimità”.

 

È sufficiente ricordare, osserva la Corte,

“che in dottrina è da tempo affermata la concezione oggettiva del sistema del diritto commerciale, secondo la quale assume in esso una posizione centrale l’impresa, che è eretta a punto di riferimento sostanziale della normazione, a prescindere dalla persona del suo titolare.

Ne deriva una rilevanza giuridica dell’impresa tale che essa emerge anche a livello giuridico formale attraverso il conferimento di una connessa rilevanza giuridica unitaria anche al gruppo di società che sia gestore dell’impresa, superando il limite che potrebbe derivare dallo schermo delle personalità giuridiche delle singole società del gruppo”.

Il suddetto orientamento dottrinale “trae spunto, trovandovi conferma, nella legislazione anteriore al tempo dei fatti qui in controversia (1993) in tema di bilancio consolidato (D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127, artt. 25-42), in tema di tutela della concorrenza e del mercato (L. 10 ottobre 1990, n. 287, artt. 2, 5 e 7), in tema di marchi d’impresa (D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 22), e in tema di amministrazione controllata (L. Fall., art. 187, nel testo modificato dalla L. 24 luglio 1978, n. 391, art. 1), che, con riguardo ai gruppi di società, fanno tutte riferimento all’impresa piuttosto che all’imprenditore”.

 

I presupposti su cui si è basato il giudice d’appello conferiscono al gruppo di società una rilevanza unitaria, per dedurne che il lease back su beni ammortizzabili di una di essa tra società di uno stesso gruppo realizza un comportamento abusivo del diritto.

“L’abuso del diritto, poi, è oggetto di un divieto che supera le limitazioni temporali che la ricorrente vorrebbe far valere, perché esso ha fondamento in un principio costituzionale non scritto di divieto di utilizzazione di norme fiscali di favore per fini diversi da quelli per cui esse sono state create (Corte di cassazione, SU, 23 dicembre 2008, n. 30055).

Nel caso specifico il giudice d’appello ha sottolineato che l’abuso di diritto realizzato attraverso l’operazione infrasocietaria di lease back si è manifestato sia nella detrazione dei canoni di locazione finanziaria da parte della società di gruppo locataria sia nel rinnovato,e perciò, duplice, ammortamento, da parte della società di gruppo locatrice, dei beni oggetto di leasing, senza che, data l’appartenenza di entrambe le società al medesimo gruppo, si sia realizzato – con riguardo, non alle singole società e, in particolare, alla società locataria, ma con riguardo al gruppo di società – quell’effetto economico che è proprio e caratterizzante della locazione finanziaria e che è costituito da una maggiore disponibilità di danaro”.

 

28 marzo 2011

Francesco Buetto