L’autotutela dell’Amministrazione Finanziaria

Il potere di autotutela consiste, in estrema sintesi, nella facoltà – esercitabile dalle Amministrazioni Pubbliche – di «fare giustizia da sé» relativamente a propri atti o provvedimenti, senza che a tal fine occorra l’intervento di un giudice.

autotutela agenzia delle entrateIl potere di autotutela consiste, in estrema sintesi, nella facoltà – esercitabile dalle Amministrazioni pubbliche – di «fare giustizia da sé» relativamente a propri atti o provvedimenti, senza che a tal fine occorra l’intervento di un giudice.

Tale facoltà comprende la possibilità di revocare, annullare, riformare degli atti secondo una valutazione discrezionale dell’Amministrazione stessa, e rappresenta in primo luogo una garanzia per quest’ultima (di fronte alla possibilità che la sua attività venga inficiata da vizi e sia oggetto di contestazioni in sede giudiziale), oltre che per l’ordinamento giuridico (di fronte alla possibilità che vengano emanati degli atti viziati, i quali comunque acquisterebbero vigore in caso di mancata impugnazione).

In particolare in ambito tributario, l’autotutela può rappresentare altresì un mezzo a disposizione dei cittadini (contribuenti), per ottenere la rimozione dell’atto alla sua origine, ovvero – nella prospettiva della successiva difesa in sede amministrativa e giudiziale – come «precostituzione» di argomenti difensivi.

Autotutela: aspetti generali e normativi

Il potere di autotutela – del quale sono espressione i poteri di annullamento d’ufficio, rimozione e convalida degli atti amministrativi invalidi, oltre che di revoca e di sospensione degli effetti degli atti medesimi – risponde in primissimo luogo all’interesse dell’ordinamento (sotto il profilo del buon andamento dell’attività amministrativa), e può essere attivato dai cittadini per ottenere «soddisfazione», senza adire le vie giurisdizionali.

Nel particolare ambito tributario, l’autotutela riguarda solitamente l’annullamento di un atto impositivo o l’archiviazione di un processo verbale di constatazione, e comporta l’arresto di tutte le attività conseguenti.

Detto potere, secondo le Corti, può essere esercitato anche in presenza di un processo tributario in corso, causando la cessazione della materia del contendere: tale è il principio esplicitato dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione trib. 15.2.2010, n. 3519.

Sotto il profilo normativo, guardando in particolare all’Amministrazione finanziaria, l’autotutela è stata espressamente disciplinata dall’art. 68, primo comma, del D.P.R. 27.3.1992, n. 287, e quindi dall’art. 2-quater del D.L. 30.9.1994, n. 564, convertito dalla L. 30.11.1994, n. 656.

In attuazione di tale ultimo atto normativo, è stato emanato il D.M. 11.11.1997, n. 37.

L’art. 27 della L. 18.2.1999, n. 28 ha infine aggiunto al predetto art. 2-quater tre ulteriori commi, prevedendo in particolare – al comma 1-bis – il potere di sospendere gli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato.

L’autotutela tributaria

L’autotutela dell’Amministrazione si connota per la sua discrezionalità, nell’ambito della quale l’ufficio competente deve constatare l’esistenza del vizio che inficia l’atto – condizione necessaria ma non sufficiente per procedere all’annullamento – e valutare se esiste o meno un interesse pubblico e attuale all’annullamento dell’atto medesimo(1).

L’istituto si pone, dunque, come una forma di salvaguardia rispetto agli esiti indesiderabili dell’atto viziato, il cui mantenimento esporrebbe a disfunzioni dei successivi procedimenti, oltre che al rischio del contenzioso.

In tale contesto, l’Amministrazione può annullare d’ufficio un atto nel caso in cui si ravvisino dello stesso profili di illegittimità (ossia vizi procedimentali/formali) o di infondatezza (ossia vizi di merito: ad esempio, nel caso degli atti a contenuto impositivo, i presupposti dell’imposizione).

Tra le possibili situazioni legittimanti l’esercizio del potere di annullamento rientrano, alla luce del decreto ministeriale del 1997, le ipotesi di seguito indicate nel seguente elenco:

  • errore di persona
  • evidente errore logico o di calcolo;
  • errore sul presupposto dell’imposta, la doppia imposizione;
  • mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti;
  • mancanza di documentazione successivamente sanata entro i termini di decadenza
  • sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, le detrazioni;
  • regimi agevolativi precedentemente negati;
  • errore del contribuente facilmente riconoscibile dall’Amministrazione.

Si consideri a tale proposito la rilevanza dell’errore dell’agente (contribuente) nei diversi ambiti giuridici: errore sul fatto ed errore di diritto, il primo ritenuto rilevante in campo penale, ex art. 47, c.p., il secondo accolto quale esimente dall’applicazione delle sanzioni tributarie amministrative, ma anche (in quanto situazione deficitaria del requisito psicologico imposta dalle norme) delle sanzioni penali di cui al D.Lgs. n. 74/2000 (si veda sul punto la C.M. 10.7.1998, n. 180/E).

L’esercizio del potere di autotutela è limitato dall’esistenza di un giudicato(2), il quale però, per poter risultare «preclusivo», deve essere sostanziale, cioè riguardare il merito della controversia(3).

L’autotutela può o meno scaturire da un’istanza del contribuente, ovvero prevedere, ai sensi della L. 27.7.2000, n. 212 («Statuto del contribuente»), l’attività di impulso del Garante del contribuente; a seguito dell’annullamento dell’atto viziato, decadono automaticamente tutti atti ad esso consequenziali (ad esempio, per l’accertamento, gli atti della riscossione), con il connesso obbligo di restituzione delle somme indebitamente riscosse.

Secondo l’interpretazione dell’Amministrazione, formulata in epoca anteriore allo Statuto e contenuta nella circolare n. 198/E del 5.8.1998, l’esigenza di salvaguardia dell’ordinamento giuridico, in un ambito strettamente normato e soggetto al principio di legalità qual è quello amministrativo-tributario, può convergere con la salvaguardia degli interessi (in senso atecnico) del singolo.

Secondo la pronuncia di prassi, infatti, ancorché l’ufficio non abbia un «dovere giuridico» di ritirare l’atto viziato, il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di un atto «patentemente illegittimo» (che potrebbe condurre anche all’accertamento di un danno erariale a carico dell’Amministrazione) viene considerato «… come una componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e, quindi, come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale».

Quale tutela giurisdizionale?

In quanto atto che fa seguito a una specifica istanza, l’autotutela – o, meglio, il suo diniego – ha dato luogo a problematiche relativamente alla possibilità di attivare per essa una forma di tutela giurisdizionale.

Per quanto attiene alla possibilità di impugnare atti non espressamente indicati nell’elenco dell’art. 19, D.Lgs. 31.12.1992, n. 546, e all’estensione della giurisdizione delle commissioni tributarie, le SS.UU. della Cassazione Civile hanno precisato – nella sentenza n. 16776 del 10.8.2005 – che

«(…) sussiste nella materia in esame la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione a procedere ad autotutela; così come ripetutamente riconosciuto dalla giustizia amministrativa».

Per quanto attiene alla posizione espressa in ambito giurisdizionale amministrativo, è opportuno rammentare l’orientamento del Consiglio di Stato espresso nella sentenza n. 6269 della sezione IV del 9.11.2005.

In tale sede, era ritenuta rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo il ricorso proposto dal contribuente avverso il provvedimento con il quale la direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate aveva respinto l’istanza di sospensione della riscossione delle somme iscritte a ruolo con la cartella esattoriale.

Il potere di sospensione era infatti ritenuto espressione non del potere cautelare in senso stretto, associato alla giurisdizione tributaria, bensì – quale atto proveniente dalla stessa Amministrazione finanziaria – del potere di autotutela, di fronte al quale la posizione del contribuente veniva a configurarsi quale interesse legittimo, con la conseguente giurisdizione del G.A.(4).

Gli indirizzi della Cassazione

La sentenza delle Sezioni Unite civili della S.C. n. 7388 del 27.3.2007 ha recato importanti precisazioni in materia, riaffermando che, successivamente alla devoluzione alle Commissioni di tutte le questioni «tributarie», anche le controversie in materia di diniego di autotutela spettano al giudice tributario.

La vertenza era sorta, nel caso di specie, dall’istanza presentata dal contribuente, e vedeva contrapposto quest’ultimo all’Amministrazione in un giudizio per conflitto di giurisdizione, mentre il merito della controversia riguardava l’esistenza dei presupposti per beneficiare del regime agevolativo (collegato allo status di coltivatore diretto).

Sono stati affermati dalla Corte i seguenti principi:

  • l’invasione, da parte del giudice, della sfera discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela comporterebbe un superamento dei limiti esterni della giurisdizione attribuita alle commissioni tributarie;
  • sulla base della normativa in materia di autotutela e del relativo decreto ministeriale attuativo, i poteri di annullamento d’ufficio e di revoca dell’Amministrazione finanziaria possono essere esercitati soltanto nel perseguimento di interessi pubblici;
  • in particolare, ai sensi dell’art. 3 del regolamento, nell’esercizio di tali poteri va data priorità «alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso»;
  • l’esercizio del potere, che non richiede istanza di parte, non costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali;
  • nel giudizio contro il mero ed esplicito diniego dell’autotutela può esercitarsi un sindacato solamente sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria;
  • il carattere discrezionale dell’autotutela comporta l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, non esistendo alcuna specifica previsione normativa in materia.

La successiva sentenza n. 9669 del 23.4.2009, emanata dalle Sezioni Unite civili:

  • ha riaffermato (contro l’avversa opinione del giudice di merito) la giurisdizione delle Commissioni tributarie sull’impugnativa del rifiuto di autotutela;
  • ha dichiarato l’improponibilità della domanda, che sostanzialmente era volta a promuovere una pronuncia sul merito della controversia, laddove invece avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnati (entro il termine normativamente stabilito di 60 giorni) gli atti impositivi emessi dagli uffici.

Per quanto si è visto, secondo la condivisibile impostazione interpretativa della Cassazione, l’esercizio del potere di autotutela non rappresenta uno strumento di garanzia per il contribuente (lo è, a parere di chi scrive, ma in termini assai indiretti, come mezzo per il ripristino della correttezza degli atti sotto il profilo giuridico, a tutela prima di tutto della stessa P.A.).

Per tale ragione, l’impugnazione del diniego non può sostituire l’impugnazione del merito della controversia mediante il ricorso avverso l’atto impositivo.

La sostituzione del giudizio di merito con un giudizio sul diniego dell’annullamento dell’atto in autotutela risulta infatti preclusa perché difetta in capo al contribuente una posizione giuridica soggettiva in sé tutelata dall’ordinamento.

SI consideri inoltre che la possibilità di richiedere l’annullamento dell’atto impositivo in autotutela rappresenta solamente uno «step» lungo un percorso che presenta, per il contribuente, diversi passaggi successivi (in sede di verifica, le osservazioni in contraddittorio, la richiesta di archiviazione e la definizione agevolata del pvc; successivamente l’attivazione del contraddittorio con l’ufficio in sede di accertamento con adesione, ovvero la definizione agevolata dell’invito al contraddittorio, e quindi, in caso di vertenza già pendente avanti la CTP, la conciliazione giudiziale), prima dell’attivazione del contenzioso vero e proprio.

Gli effetti del silenzio dell’Amministrazione

Qualche problema sorge, alla luce della normativa vigente, in relazione alla possibile applicabilità dell’istituto del silenzio-rifiuto, che dovrebbe intendersi precluso a causa del carattere discrezionale dell’autotutela.

Si rammenta a tale riguardo che il comportamento inerte dell’amministrazione, in ordine all’emanazione di un atto, è definito silenzio, e in sé non è espressivo di alcuna volontà: non è insomma un atto, ma un semplice fatto, al quale l’ordinamento può ricondurre determinate conseguenze, che possono consistere anche nella produzione degli effetti tipici dell’atto non emanato.

Il silenzio della P.A. può consistere nella mancata emanazione sia di un provvedimento amministrativo, sia di un atto strumentale del procedimento:

  • nel primo caso, esso determina l’inadempimento, da parte dell’Amministrazione, dell’obbligo di provvedere (solamente, però, se tale obbligo sussiste);
  • nel secondo caso, si ha pure la violazione di un obbligo, quando le norme pongono un termine per l’emanazione dell’atto strumentale.

Se l’atto non emanato è, comunque, un presupposto necessario del provvedimento stesso, il silenzio determina la mancata emanazione del provvedimento, e quindi ancora la violazione dell’obbligo di provvedere.

L’obbligo di provvedere, in generale, risponde sia ad esigenze di efficienza dell’Amministrazione, sia a una funzione di garanzia dei privati, e riguarda tutti i procedimenti amministrativi che devono essere iniziati, a iniziativa di parte o d’ufficio. Relativamente ai primi, esso risponde all’interesse del privato a ottenere dall’Amministrazione una misura favorevole o il riesame di un atto già emanato; con riferimento ai secondi, invece, l’interesse del privato è a rimuovere lo stato di incertezza in ordine all’eventuale adozione di una misura sfavorevole.

Il problema del silenzio, dunque, si pone come un problema di tutela del soggetto che aspiri all’emanazione di un provvedimento amministrativo.

In relazione a tale comportamento della P.A., consistente nel non manifestare in maniera espressa la propria volontà, l’ordinamento ha approntato dei «rimedi», alcuni dei quali consistono nell’equiparare il silenzio a una dichiarazione di volontà.

La distinzione corrente è quella tra silenzio significativo e non significativo:

  • il primo comprende le ipotesi in cui il silenzio è fatto equivalere all’emanazione di un provvedimento positivo (silenzio-assenso o silenzio-accoglimento) o negativo (silenzio-rifiuto o silenzio-diniego);
  • il secondo comprende tutti gli altri casi, nei quali il silenzio non riceve una qualificazione normativa e costituisce un mero inadempimento (silenzio-inadempimento).

In particolare, il silenzio-assenso è utilizzato non solo con riferimento ad atti consistenti in dichiarazioni di scienza o di giudizio, ma anche con riferimento a dichiarazioni di volontà.

Con esso, inoltre, l’ordinamento non rinuncia allo svolgimento delle relative funzioni, ma assume che esse siano state svolte in senso positivo, e i corrispondenti effetti giuridici si producono necessariamente, e non facoltativamente. Tale qualificazione del silenzio «significativo» è utilizzabile solamente per i provvedimenti il cui contenuto sia facilmente determinabile anche in assenza di una pronuncia dell’autorità competente alla sua adozione.

Nella sostanza, si tratta di procedimenti a iniziativa di parte, nei quali la discrezionalità dell’Amministrazione è assente o molto limitata e il provvedimento amministrativo ha soprattutto una funzione di controllo relativamente alla sussistenza dei presupposti richiesti dalle norme per la produzione di un certo effetto giuridico.

La giurisprudenza si è sempre orientata nel senso dell’attribuzione al silenzio del significato di un rifiuto, funzionale all’impugnazione del rifiuto stesso di fronte al giudice amministrativo. Esistono, altresì, ipotesi di silenzio-diniego, nelle quali sono le norme a risolvere il problema del momento in cui il silenzio riceve una qualificazione giuridica e quello della possibilità di rivolgersi al giudice, stabilendo che, a seguito del decorso di un certo termine, l’istanza del privato si intende respinta (e, pertanto, è possibile il ricorso avverso il silenzio)(5).

Occorre considerare che secondo l’esplicita formulazione dell’art. 20 della L. 7.8.1990, n. 241, nel testo modificato dal D.L. n. 35 del 14.3.2005 e vigente dal 15.5.2005,

« … nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’articolo 2, commi 2 o 3 [novanta giorni, salvo che detto termine non sia stabilito con uno specifico regolamento, N.d.A.], il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2 [mediante conferenza di servizi, N.d.A.]».

Per far scaturire il silenzio-assenso, quindi, il procedimento dovrebbe essere a istanza di parte, ciò che non ricorre nel caso dell’autotutela.

L’autotutela su istanza del Garante del contribuente

Il «potere di attivazione» in capo al Garante del contribuente (art. 13, sesto comma, dello Statuto) può avvenire autonomamente, senza necessità di alcun input da parte dei contribuenti.

Secondo le disposizioni normative di riferimento, infatti,

«il Garante del contribuente, anche sulla base di segnalazioni inoltrate per iscritto dal contribuente o da qualsiasi altro soggetto interessato che lamenti disfunzioni, irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria, rivolge richieste di documenti o chiarimenti agli uffici competenti, i quali rispondono entro trenta giorni, e attiva le procedure di autotutela nei confronti di atti amministrativi di accertamento o di riscossione notificati al contribuente.

Il Garante del contribuente comunica l’esito dell’attività svolta alla direzione regionale o compartimentale o al comando di zona della Guardia di finanza competente nonché agli organi di controllo, informandone l’autore della segnalazione».

Si evidenzia che il ruolo del Garante sembra posto a presidio più di un interesse generale dell’ordinamento (riguardante il rapporto tra le due parti), che della salvaguardia di diritti dei singoli: tale funzione gli consente di contrastare, ad esempio, le «prassi anomale o irragionevoli», ripristinando un quadro di correttezza normativa e costituzionale.

Ancorché la formulazione esplicita della norma faccia riferimento ai soli atti di accertamento o di riscossione notificati al contribuente, il Garante – (che, come sopra evidenziato, si attiva contro le disfunzioni, irregolarità., etc. etc.) – dovrebbe poter chiedere chiarimenti, anche ai fini dell’eventuale azione disciplinare (art. 13, undicesimo comma, L. n. 212/2000), anche relativamente agli atti «prodromici» di natura istruttoria (comprendenti le operazioni svolte nel corso di accessi, ispezioni e verifiche, certificate o meno nei verbali).

Ulteriori approfondimenti:

Autotutela sospensiva, sostitutiva e integrativa

L’autotutela tributaria: approfondimento

L’autotutela tributaria: cos’è e come funziona

Note

1) Cfr. P. Borrelli – S. Capolupo – F. Carrirolo – G. Tucci, «Contribuenti e Fisco: un percorso di collaborazione», Il Sole 24 Ore, 2007 – S. Capolupo, cap. 7, «L’autotutela», pp. 541 e ss..

2) La nozione di «giudicato» o «cosa giudicata» fa riferimento alla decisione contenuta in una sentenza quando essa è divenuta immodificabile, in quanto si sono esauriti tutti i mezzi ordinari di impugnazione, ovvero quando le impugnazioni non sono più praticabili per decorso del termine predeterminato dalla legge. Quando la sentenza «passa in giudicato», a norma dell’art. 2909 del codice civile, l’accertamento ivi contenuto fa stato a ogni effetto tra le parti e i loro eredi o aventi causa.

3) Il concetto di giudicato formale è di natura processualistica (art. 324 del codice procedura civile), e si riferisce alla sentenza non più impugnabile attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione perché già proposti o perché sono decorsi i termini di proponibilità, ovvero per acquiescenza espressa (rinuncia all’impugnazione) o tacita (atti incompatibili con la volontà di impugnare la sentenza. Il giudicato sostanziale è invece riferito alla decisione vincolante, contenuta nella sentenza passata in giudicato. Quindi, la prima nozione (giudicato formale) qualifica l’atto giurisdizionale conclusivo del procedimento giudiziale; la seconda (giudicato sostanziale), il contenuto e l’efficacia dell’atto stesso.

4) Cfr. M. Villani, «Problematiche sull’autotutela», Il Commercialista Telematico (www.https://www.commercialistatelematico.com).

5) Cfr. S. Cassese, a cura di, «Trattato di diritto amministrativo», II Ed., Giuffrè, Milano, 2003 (parte generale).

3 novembre 2010

Fabio Carrirolo