Un approfondito esame della giurisprudenza di Cassazione in materia di autotutela: l’autotutela in Commissione tributaria; autotutela sospensiva, sostitutiva ed integrativa; diniego di autotutela e responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria. A cura di Antonio Terlizzi.
L’autotutela tributaria – Premessa
L’istituto dell’autotutela tributaria tende a garantire oltre ai principi dell’articolo 97 anche i principi di cui all’articolo 53 della Costituzione e quindi della capacità contributiva, perché appare evidente che una eventuale duplicazione della imposizione, ovvero l’imposizione in carenza dei presupposti soggettivo ed oggettivo incidono e ledono il diritto del cittadino a contribuire alla spesa pubblica in misura non eccedente la propria capacità contributiva.
Lo scopo da perseguire è quello di evitare il vulnus
“alla corretta applicazione della legge d’imposta, quale norma di giusto riparto, e, quindi, quale strumento diretto di attuazione dei principi costituzionali”, come disegnati dagli artt. 3, 53 e 97 della Carta fondamentale.
Al contribuente non va richiesto di corrispondere al Fisco più di quanto effettivamente dovuto in base alle norme in vigore; cosa che, altrimenti, urterebbe contro i principi di trasparenza e di giustizia sociale ormai riconosciuti come immanenti a qualunque attività della Pubblica amministrazione.
Il contribuente non può essere chiamato al pagamento di tributi che non siano strettamente previsti dalla legge. L’autotutela mira alla corretta determinazione dell’imposta, in applicazione dei principi che regolano l’attività impositiva;il fine dell’autotutela è che il contribuente abbia diritto ad una tassazione equa ed informata al principio di capacità contributiva sancito dalla Costituzione.
L’istituto dell’autotutela tributaria si armonizza con il precetto, di cui all’art. 53 della Costituzione, secondo il quale i contribuenti hanno il dovere di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Autotutela e tutela del contribuente innanzi alle Commissioni tributarie
Le sezioni unite della corte hanno stabilito la competenza dei giudici tributari in materia di mancato esercizio dell’autotutela (sentenza 7388/2007).
L’attribuzione al giudice tributario, da parte dell’art. 12, secondo comma, della legge n. 448 del 2001, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie comporta che anche quelle relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, in quanto comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario, devono ritenersi devoluti al giudice la cui giurisdizione è radicata in base alla materia ( in precedenza su alcuni tributi, attualmente su qualunque tributo), indipendentemente dalla specie di atto impugnato.
Pertanto, la natura discrezionale dell’esercizio dell’autotutela tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, la cui giurisdizione é ora definita mediante una clausola generale, per il solo fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati.
L’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi non incontra un limite nell’art. 103 Cost.: infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici (da ultime, ordinanze n. 165 e 414 del 2001 e sentenza n. 240 del 2006).
Secondo un orientamento rigido del giudice di legittimità l’atto col quale l’Amministrazione manifesti il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo, non rientra nella previsione di cui all’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in quanto, altrimenti, si darebbe ingresso ad un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (Cassazione del 20-08-2010 sentenza n.18807).
Avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile una autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria, in questo caso, dell’attività di autotutela, sia perchè, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (Cassazione 12-05-2010 n.11457).
Occorre escludere qualsiasi forma di tutela giudiziale a fronte di pretese tributarie non più impugnabili. Già con la pronuncia 2870/2009, infatti , le Sezioni unite hanno affermato che:
a) contro il rifiuto del Fisco non è mai esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità (propria dell’attività di autotutela), sia perché, altrimenti, si darebbe “inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo”;
b) l’amministrazione finanziaria non è tenuta ad adottare il provvedimento e il contribuente non può pretendere il suo riesame nel caso in cui la pretesa tributaria sia divenuta definitiva.( Cassazione sentenza n 2870/2009).
Impugnando il mancato esercizio dell’autotutela tributaria da parte dell’amministrazione finanziaria non si può, secondo diverso orientamento del giudice di legittimità, in ogni caso arrivare a rimettere in discussione i contenuti dell’accertamento del fisco.
L’esercizio dell’autotutela tributaria per il contribuente rappresenta un interesse legittimo e non un diritto soggettivo.
La conseguenza è che il rifiuto di esercitarlo da parte dell’amministrazione può essere impugnato davanti al giudice tributario nel limite in cui lo sono gli atti amministrativi discrezionali e quindi relativamente alla legittimità della condotta omissiva, ma non può estendersi al merito della pretesa tributaria. Contestare l’omessa autotutela perciò non apre il giudizio sul merito dell’atto relativamente al quale non sono stati esperiti i necessari rimedi giurisdizionali (Cassazione del 29-12-2010 sentenza n.26313).
La posizione del contribuente in ordine ad un atto di autotutela non costituisce diritto soggettivo perfetto ma interesse legittimo, che potrà trovare tutela nell’ambito della giurisdizione tributaria, e non amministrativa, rimanendo tuttavia sottoposta ai limiti di sindacabilità degli atti discrezionali, ovvero nell’ambito della legittimità dell’operato della Amministrazione (anche in caso di inerzia) e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del Giudice tributario alla Amministrazione nella adozione di un atto di autotutela.
Ne consegue che il sindacato del mero rifiuto dell’esercizio di autotutela deve limitarsi all’esame della legittimità della condotta omissiva, e non può estendersi al merito, ovvero a valutare la fondatezza della pretesa tributaria del contribuente (Cass. civ. Sez. V, 29-12-2010, n. 26313).
Il diniego di autotutela del Fisco è impugnabile innanzi alle C.T. solo se il contribuente si limita a contestare la legittimità del rifiuto (es. difetto di motivazione, omessa sottoscrizione, vizi della notifica o comunicazione del rifiuto) e non la fondatezza della pretesa tributaria (errore che cade sulla quantificazione dell’imponibile accertato). Ciò per impedire un’indebita sostituzione e un’ingerenza del giudice tributario nell’attività amministrativa.
Tale assunto è stato statuito dalle Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 9669 del 23 aprile 2009. La sentenza 9669 sottolinea che:
a) l’esercizio del potere di autotutela “non costituisce un mezzo di tutela del contribuente”;
b) nel giudizio instaurato contro il diniego può esercitarsi un sindacato, nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, “soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza della pretesa tributaria” ovvero sul merito dell’avviso di accertamento divenuto ormai definitivo;
c) il giudice tributario ha il compito di valutare solamente la legittimità dell’uso del potere discrezionale del fisco.
Giova ricordare che le Sezioni unite, nella motivazione della sentenza n. 7388/2007, richiamando il proprio precedente (sentenza n. 16778/2005) hanno messo in evidenza che
“la natura discrezionale dell’autotutela tributaria non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, la cui giurisdizione è ora definita mediante la clausola generale, per il solo fatto che gli atti di cui tale giudice si occupa sono vincolati”.
Secondo la Corte, il sindacato del giudice dovrà riguardare l’esistenza dell’obbligazione tributaria solo qualora l’atto di autotutela contenga tale verifica, mentre, in caso di giudizio instaurato contro il mero ed esplicito rifiuto di esercizio dell’autotutela, il giudice tributario non potrà entrare nel merito della questione, visto che il provvedimento di autotutela è pur sempre discrezionale per i limiti posti dall’articolo 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E; in quest’ultima ipotesi, il giudice potrà esercitare soltanto un sindacato sulla legittimità del rifiuto per la sua rispondenza o meno all’interesse pubblico.
In caso contrario, ci sarebbe una indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa e un superamento dei limiti esterni della giurisdizione attribuita alle Commissioni tributarie.
Sulla base dei principi sopra enunciati, la Corte ha concluso affermando che, nel caso cui l’atto di rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria, il giudice potrà escluderla. Mentre all’Amministrazione finanziaria non resterà che adeguarsi alla pronuncia della Commissione tributaria. In difetto, potrà essere utilizzato il rimedio del ricorso in ottemperanza, di cui all’articolo 70 del D.lgs. 546/1992.
Nell’ipotesi d’impugnativa del provvedimento di diniego d’autotutela l’oggetto del giudizio è costituito (ove l’atto di esercizio del potere di autotutela contenga una tale verifica) dall’accertamento del rapporto tributario e non solo dal controllo del corretto uso della discrezionalità amministrativa ; trattasi ove possibile di un giudizio non funzionalmente differente rispetto a quello dell’atto impositivo presupposto, essendo diretto alla verifica della concreta attuazione di uno specifico rapporto tributario.
Il giudice tributario non può, quindi, sostituirsi all’organo amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza nella ricostruzione della fattispecie tributaria o del regime giuridico (es: spetta al fisco a seguito dell’annullamento del diniego di autotutela da parte del giudice tributario la cosiddetta autotutela sostitutiva, ovvero il ritiro di un atto impositivo ed emanazione di un nuovo atto di identico contenuto ma emendato dai vizi formali come la motivazione ; spetta al fisco a seguito dell’annullamento del diniego di autotutela da parte del giudice tributario l’autotutela non sostitutiva in cui si ha l’annullamento definitivo per la riscontrata illegittimità o l’infondatezza dell’atto).
Il sindacato del giudice non può mai comportare la sostituzione del giudice all’amministrazione in valutazioni discrezionali, né — per i limiti posti dall’art, 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E — l’adozione dell’atto di autotutela da parte del giudice tributario. Tra i compiti del giudice tributario non vi è l’attività di tipo sostitutivo nemmeno in sede di giudizio di ottemperanza ; il giudice tributario sia nel processo di cognizione che nel processo di ottemperanza non può emettere atti di autotutela in sostituzione degli uffici .
I poteri assegnati al giudice tributario si fermano all’individuazione dei criteri che l’autorità avrebbe dovuto tenere in considerazione in sede di autotutela; la C.T. non può de iure condito sostituire l’ufficio legittimato all’autotutela.
Sotto il profilo processuale, l’atto di rifiuto, che confermi un precedente avviso di accertamento definitivo, non può essere impugnato per vizi che attengono all’atto confermato.
Non può dunque essere ipotizzata una sentenza che, accogliendo l’impugnazione del rifiuto di autotutela, si pronunci sui vizi dell’atto impositivo definitivo (che è atto diverso da quello impugnato). Oggetto di impugnazione non è l’atto originario, ma il nuovo atto, frutto di un nuovo procedimento; e il giudice può annullare l’atto impugnato, non l’atto originario.
Di fronte al diniego espresso di autotutela, il giudice tributario può annullare il diniego, non può annullare l’atto impositivo originario. Può annullare il diniego, come afferma la sentenza delle sezioni unite 27 marzo 2007, n. 7738, esercitando un sindacato – nelle forme ammesse sugli atti discrezionali – soltanto sulla legittimità del rifiuto; non può certo annullare l’atto originario. Può far rinascere il dovere di riesame e di pronuncia.
In conclusione, la tutela non è mai pienamente satisfattiva, perché il contribuente è titolare di una situazione soggettiva di tipo solo procedimentale. Annullare o sostituire l’atto originario resta una prerogativa riservata alla discrezionalità dell’amministrazione. Il giudice tributario, cui sia rivolto un ricorso contro la mancata autotutela, può annullare il diniego di autotutela, ma non può annullare l’atto originario, perché non può emettere, sostituendosi all’amministrazione, il provvedimento di autotutela.
Tra i compiti del giudice tributario in tema di autotutela non vi è l’attività di tipo sostitutivo nemmeno in sede di giudizio di ottemperanza; il giudice tributario sia nel processo di cognizione che nel processo di ottemperanza non può emettere atti di autotutela in sostituzione degli uffici. Il diniego espresso di annullamento è riconducibile all’elenco dell’art. 19 nei casi in cui è classificabile come “rinnovazione” dell’atto di cui è stata negata la rimozione.
Il diniego di annullamento equivale, in linea di massima, alla conferma del precedente provvedimento.
E, per regola generale, gli atti di conferma non sono impugnabili (rectius: non sono impugnabili per motivi che attengono all’atto confermato).
L’impugnazione dell’atto confermativo è ammissibile se l’atto impugnato non è una mera conferma, ma una “rinnovazione” dell’atto precedente, conseguente ad una nuova istruttoria, e se l’impugnazione è sorretta da motivi diversi da quelli che erano proponibili contro l’atto confermato.
Occorre riconoscere l’impugnabilità di un diniego di autotutela, opposto ad una domanda fondata su norme, o fatti, successivi al provvedimento di cui si chiede la rimozione.
Deve trattarsi insomma di un caso in cui con il ricorso si alleghino vizi “propri” del diniego, impugnando non l’atto originario, ma il nuovo atto, frutto di un nuovo procedimento.
Il rigetto manifestato dall’Amministrazione finanziaria in ordine all’istanza di autotutela formulata dal contribuente costituisce atto impugnabile la cui controversia è devoluta alla cognizione del giudice tributario. Qualora siano dedotti fatti e circostanze nuovi e sopravvenuti (es. condono, modifica del sistema sanzionatorio, assoluzione penale) essi devono essere valutati al fine di accertare se siano idonei a costituire vizi propri del provvedimento di rigetto.
In carenza deve disconoscersi natura di atto impugnabile al menzionato provvedimento (sent. n. 146 del 16 settembre 2008 dep. il 17 settembre 2008 della C.T.P. di Reggio nell’Emilia, Sez. I).
Un’affermazione di particolare rilievo è quella contenuta nella sentenza della Sezione tributaria n. 3608 del 20 febbraio 2006, emessa sulla base del rinvio ad essa operata dalle Sezioni Unite con la citata sent. n. 14332/2005.
Con tale sentenza, la Sezione tributaria ha affermato la doverosità dell’esercizio del predetto potere e, quindi, l’ammissibilità del ricorso contro il mancato esame della domanda volta ad ottenere l’annullamento dell’atto impositivo, soltanto laddove la domanda stessa sia giustificata da eventi sopravvenuti.
Il nodo relativo alla impugnabilità del diniego di autotutela, per vizi originari dell’atto impositivo o per eventi sopravvenuti, è stato, ancora una volta, sciolto con la sentenza della Sez. civ. n. 3608 del 20 febbraio 2006, che, con motivazione, in vero, estremamente sintetica, ha ribadito la rilevanza, ai fini dell’adozione del provvedimento di autotutela, soltanto di eventi sopravvenuti. Giova ricordare che secondo l’orientamento prevalente (sent. n. 7388 del 6 febbraio 2007 dep. il 27 marzo 2007 della Corte Cass., SS.UU. civ) il silenzio-rifiuto in tema di autotutela non è impugnabile nell’ambito delle categorie individuate dall’art. 19 del D.lgs. n. 546 del 1992. In relazione al rifiuto tacito dell’autotutela si sostiene che la mancata risposta non determina un’ipotesi di silenzio rifiuto impugnabile di fronte alla C.T.: nell’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19, D.lgs. n. 546/92, non compare il silenzio dell’ufficio per il procedimento di riesame.
Differentemente dall’istanza di rimborso dei tributi, sull’istanza di autotutela – promossa dal contribuente al fine di ottenere l’annullamento di atti impositivi al medesimo notificati – non può formarsi provvedimento di silenzio-rifiuto laddove l’Amministrazione finanziaria sia rimasta inerte. Conseguentemente, il contribuente non è ammesso a dedurre tale fatto giuridico davanti al giudice tributario (sent. n. 40 del 18 marzo 2008 della C.T.P. di Brindisi, sez. I).
Autotutela sospensiva, sostitutiva ed integrativa
L’atto di autotutela assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che è illegittimo, e al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto e può condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico, del precedente o alla sua eliminazione e alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato.
Occorre differenziare i casi concreti di autotutela sostitutiva dalle diverse ipotesi di “integrazione o modificazione” dell’atto di accertamento (cfr. Cass., 22.2.2002 n. 2531; 28.3.2002 n. 4534) sia dalle diverse ipotesi in cui l’ufficio riscontrata l’illegittimità o l’infondatezza dell’atto lo annulla definitivamente (cd. autotutela non sostitutiva).
Occorre distinguere tra autotutela sostitutiva e non sostitutiva. Il rapporto fra l’atto originario e quello successivamente emesso, va effettuato sulla base della loro effettiva connotazione, vale a dire prescindendo dal nomen iuris utilizzato dalla parte, in quanto anche gli atti amministrativi, cui vanno generalmente condotti quelli impositivi, vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo all’effettiva volontà dell’amministrazione ed al potere concretamente esercitato (Cons. St., 15 ottobre 2003, n. 6316).
Nella prima, l’Amministrazione – previo ritiro dell’atto precedente – provvede all’emanazione di un nuovo provvedimento. Nel caso in cui l’ufficio si accorga di avere notificato un atto viziato, può validamente annullarlo in via di autotutela, chiedendone la cessata materia del contendere in giudizio, ed emetterne uno nuovo.
L’amministrazione può, quindi, sostituire un avviso di accertamento, sprovvisto delle aliquote Irpef e già impugnato, con un atto successivo (Cass. civ. Sez. V, Sent., 23-02-2011, n. 4372).
L’annullamento dell’atto sbagliato mediante autotutela e l’emissione di un altro corretto (proprio sulla base delle doglianze del contribuente) è legittimo.
L’Ufficio ha il potere di rinnovare un atto impositivo affetto da nullità esercitando la facoltà di autotutela nell’annullare l’atto invalido e nell’emettere un nuovo atto contenente i requisiti previsti per la sua validità. Ne consegue che l’amministrazione, se nei termini, può continuare a emettere innumerevoli accertamenti corretti, che ogni volta tengono conto dei motivi di ricorso del contribuente.
L’ipotesi di autotutela non sostitutiva riguarda invece le fattispecie in cui il mero ritiro dell’atto viziato non è seguito dall’adozione di un nuovo provvedimento; il potere discrezionale del soggetto pubblico si esaurisce quindi nella semplice rimozione dell’atto considerato non più idoneo a soddisfare l’interesse collettivo. La Suprema corte si è, pertanto, costantemente espressa nel senso di riconoscere la legittimità dell’autotutela sostitutiva, preoccupandosi di distinguere esattamente tra le ipotesi di autotutela sostitutiva e quelle di autotutela integrativa dell’atto di accertamento.
I presupposti d’ammissibilità della cd . autotutela sostitutiva (ritiro di un atto impositivo ed emanazione di un nuovo atto d’identico contenuto ma emendato dai vizi formali), vanno rintracciati nel “principio di perennità della potestà amministrativa” e nei principi espressi dagli articoli 53 e 97 della Costituzione.
Il giudice di legittimità (Cass. Sez. V – Sentenza n. 2531 del 22/02/2002) riconosce al fisco la legittimazione a rinnovare ex nunc un avviso di accertamento invalido (es. per omessa indicazione dell’aliquota applicata), allorché la pretesa erariale non manifesti l’integrazione o la modificazione in aumento del precedente accertamento.
A seguito dell’impugnazione dell’atto impositivo per mancata indicazione delle aliquote applicate al maggior reddito, l’Amministrazione finanziaria può emanare un nuovo avviso di accertamento contenete l’indicazione originariamente omessa, con conseguente caducazione del primo atto (Corte di Cassazione sentenza n. 2424/2010). Il nuovo avviso di accertamento contenente l’indicazione originariamente omessa non può avere efficacia meramente integrativa e comporta, quindi, la caducazione del primo atto, con conseguente cessazione di qualsiasi interesse a una pronuncia ad esso inerente.
I giudici di legittimità (vedi Cassazione, sentenza n. 2531 del 22 febbraio 2002) hanno riconosciuto la legittimazione a rinnovare ex nunc un avviso di accertamento invalido (come, i.e., nel caso in esame di omessa allegazione del pvc richiamato), allorché la rinnovazione non comporti una maggiore pretesa erariale rispetto al precedente accertamento.
La rinnovazione ex nunc dell’atto viziato è, quindi, stata riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza di Cassazione (su tutte, vedi la sentenza 16 luglio 2003, n. 11114), che ha ritenuto legittimo l’esercizio del potere di autotutela sostitutiva, a condizione che l’atto impositivo sia inficiato esclusivamente da nullità derivante da vizi di natura formale tali da non incidere sull’esistenza o l’ammontare del credito tributario. Anche tale possibilità, del resto, non è sempre applicabile dato che, in ogni caso, sussistono i seguenti limiti:
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la rinnovazione non può avvenire se è già decorso il termine di decadenza dell’azione accertatrice
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la rinnovazione è altresì preclusa qualora sia intervenuto giudicato di merito.
Il corretto esercizio del potere di autotutela, presuppone la mancata formazione del giudicato e la mancata scadenza del termine decadenziale fissato per l’accertamento (Cass., 26 marzo 2010, n. 7335; Cass., 22 febbraio 2002, n. 2531).
L atto di accertamento nullo non è di ostacolo alla rinnovazione ex nunc dell’atto stesso in base al potere sostanziale dell’Amministrazione di correggere gli errori dei propri provvedimenti nei termini di legge, salvo il limite che l’atto rinnovato non costituisce elusione o violazione dell’eventuale giudicato formatosi nel precedente atto nullo.
Solo nell’ipotesi di integrazione o modificazione si esercita, quindi, un ulteriore potere accertativo, il quale, in quanto tale, richiede necessariamente la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Sussiste il principio secondo cui non è consentito all’ufficio differire a un momento successivo rispetto all’emanazione dell’atto impositivo l’esplicitazione delle ragioni della pretesa impositiva (art. 42, D.P.R. n. 600/1973 e art. 7, legge n. 212/2000).
La rinnovazione per autotutela sostitutiva presuppone, invece, l’esercizio dell’identico potere già esercitato con il primo atto.
Per la Suprema corte il presupposto della “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”, per l’esercizio del potere di integrare o di modificare in aumento l’avviso di accertamento già notificato, non è richiesto per l’auto-annullamento di precedente avviso di rettifica e la sostituzione dello stesso con uno nuovo, contenente lo stesso dispositivo ma una diversa motivazione, atteso che, in tal caso, non ricorre esercizio del predetto potere integrativo o modificativo, ma sostituzione di un precedente provvedimento illegittimo con un nuovo provvedimento conforme a diritto, nell’ambito del generale potere di autotutela della Pubblica amministrazione (sentenza n. 4534 del 28 marzo 2002).
In conclusione, mentre non è consentito annullare un avviso di accertamento già notificato al contribuente e sostituirlo con uno nuovo, contenente una maggior pretesa impositiva, come derivante da un più attento giudizio degli elementi già disponibili al momento dell’emanazione dello stesso accertamento, nessun ostacolo impedisce all’Amministrazione di riesaminare il proprio operato (entro i relativi termini decadenziali) ed annullare i propri atti, eventualmente illegittimi, sostituendoli con altri legittimi, purché, l’ammontare dei tributi contestati sia di ammontare uguale (o, addirittura, come possibile, inferiore) rispetto a quello precedente.
Integrazione o modificazione
La reiterazione della potestà di accertamento non va, dunque, confusa con l’autotutela sostitutiva.
Tra i due istituti sussiste una notevole differenza di scopo: il potere di reiterazione della potestà di accertamento rappresenta lo strumento concesso all’Amministrazione finanziaria per accertare la pretesa tributaria sulla base della (necessaria) acquisizione di nuovi elementi conoscitivi. L’autotutela sostitutiva persegue, invece, lo scopo di eliminare dal mondo giuridico atti caratterizzati da vizi di legittimità, perseguendo così l’interesse pubblico, nel caso di specie di contrasto all’evasione.
Il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l’avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento, il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto e il contenuto del primitivo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dell’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche in tema di impugnazione (Cass. civ. Sez. V, Sent., 23-02-2011, n. 4372).
Può essere utile precisare che si suole parlare di “atto integrativo” nel caso in cui l’integrazione si riferisca a categorie di reddito non considerate nel precedente avviso e di “atto modificativo” qualora il nuovo atto incida sui profili quantitativi di categorie reddituali che abbiano già formato oggetto di accertamento.
Nell’ipotesi di integrazione o modificazione si esercita un ulteriore potere di rettifica della dichiarazione, alla base del quale si richiede la necessaria sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, mentre la rinnovazione per autotutela sostitutiva presuppone l’esercizio dell’identico potere esercitato con il primo atto;l’autotutela a contenuto positivo, con carattere rinnovatorio ex nunc, elimina e sostituisce il precedente atto affetto da nullità.
Il discrimine tra le due ipotesi è dato dal contenuto degli atti, che nel primo caso si modifica, conducendo ad un aumento dell’imposizione, mentre nella rinnovazione per autotutela sostitutiva resta immutato dal primo al secondo atto; infatti, per la Corte Suprema di Cassazione (sezione V Civile Tributaria – sentenza n. 4534 del 28 marzo 2002) in tema di accertamento ai fini dell’IVA, il presupposto della “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”, previsto dall’art. 57, c. 3, D.P.R. 22 ottobre 1972, n. 633 per l’esercizio del potere di integrare o di modificare in aumento l’avviso di accertamento già notificato, non è richiesto per l’auto-annullamento di precedente avviso di rettifica e la sostituzione dello stesso con uno nuovo, contenente lo stesso dispositivo ma una diversa motivazione, atteso che in tal caso non ricorre esercizio del predetto potere integrativo o modificativo (caratterizzato dall’aggiungersi, al precedente provvedimento legittimo, di un ulteriore provvedimento che ne amplia il contenuto), ma sostituzione di un precedente provvedimento illegittimo con un nuovo provvedimento conforme a diritto, nell’ambito del generale potere di autotutela della pubblica amministrazione.
La reiterazione della potestà di accertamento si giustifica in base al “principio della tendenziale globalità dell’avviso di accertamento” che riconosce all’Amministrazione il potere di integrare o modificare in aumento gli accertamenti già notificati ai contribuenti mediante l’emanazione di nuovi avvisi; tale facoltà, tuttavia, può essere esercitata solamente in seguito alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi e comunque non oltre la scadenza del termine di decadenza previsto dalla legge per l’esercizio del potere di rettifica.
A salvaguardia dei valori giuridici costituiti dal principio di legalità, di corretta amministrazione, di imparzialità, di trasparenza, di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento del contribuente l’ente impositore nell’emanare un avviso di accertamento deve utilizzare tutti i dati in suo possesso, essendogli, pertanto ,inibita la riattivazione della potestà impositiva sulla base della revisione o rivisitazione di una valutazione precedentemente compiuta ed avente per oggetto lo stesso materiale probatorio.
La necessaria sussistenza dei “requisiti di novità e sopravvenuta conoscenza” degli elementi da porre a fondamento dell’atto integrativo o modificativo, ha la finalità di indurre gli Uffici ad utilizzare o “spendere” subito tutti i dati in loro possesso e ciò sia per motivi di economia procedimentale che per esigenze di tutela del contribuente.
L’atto integrativo o modificativo, perché possa essere considerato legittimo, si deve fondare su prove ed elementi che al momento dell’emanazione del precedente avviso non erano stati rilevati e non rientravano nella sfera di percezione dell’Amministrazione Finanziaria; è precluso all’Ufficio un eventuale e diverso apprezzamento del materiale probatorio già disponibile qualora in seguito ad un diverso e più approfondito esame dovessero mettersi in luce elementi precedentemente trascurati.
Ne consegue non solo che gli accertamenti integrativi non possono essere fondati sugli stessi elementi di fatto del precedente accertamento ma altresì che la conoscenza dei nuovi elementi deve essere avvenuta in epoca successiva a quella in cui l’accertamento originario è stato notificato (Cass. Sent. n. 451 del 17/01/2002).
Peraltro, mentre l’integrazione o la modificazione in aumento dell’accertamento originario deve necessariamente formalizzarsi nell’adozione di un nuovo avviso di accertamento –specificatamente motivato a garanzia del contribuente l’integrazione o la modificazione in diminuzione non manifestando una nuova pretesa tributaria ma soltanto una pretesa minore non, necessita di una forma o di una motivazione particolare (Cass. Sent. n. 12814 del 27/09/2000). In merito ai rapporti che intercorrono tra i due atti di accertamento – originario e integrativo/modificativo, sussistono orientamenti contrapposti.
Secondo un primo orientamento (Cass. Sent. n. 16792 del 27/11/2002) tra i due atti sussisterebbe un rapporto di sostituzione ed eliminazione del precedente a causa del successivo, e ciò perché la nuova determinazione sottintenderebbe l’illegittimità della prima. Viceversa, altro orientamento ritiene che i vari atti conservino la propria autonomia perché produttivi di distinte obbligazioni tributarie, al fine della progressiva adeguazione della fattispecie accertata a quella reale:gli effetti del primo atto non vengono, dunque, assorbiti ed elisi dall’emanazione dell’atto successivo.
L’avviso di accertamento modificativo o integrativo interviene sul contenuto sostanziale del precedente atto e contribuisce alla determinazione integrale e progressiva dell’imposta, lasciando comunque in vita l’atto modificato il quale conserva una propria autonomia ed efficacia. Il potere di accertamento integrativo ha per presupposto l’avviso di accertamento originariamente adottato che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto ed il contenuto del primo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dell’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia.
In particolare, tra l’istituto della reiterazione della potestà di accertamento e quello dell’autotutela sussiste una differenza di scopo; il potere di reiterazione della potestà di accertamento rappresenta lo strumento concesso all’A.F. per accertare gradatamente e attraverso l’acquisizione di nuovi elementi conoscitivi la pretesa tributaria che appare come il prodotto di un procedimento complesso nel quale le singole manifestazioni parziali della dichiarazione di accertamento, e cioè i singoli avvisi di accertamento, in nome della loro autonomia, sono egualmente validi ed efficaci nonostante i successivi atti in reiterazione ne ricomprendano tutti i profili essenziali.
atti di manifestazione di autotutela sostitutiva perseguono il duplice scopo costituito dalla necessità di eliminare dal mondo giuridico gli atti affetti da vizi di legittimità e dalla contemporanea necessità di perseguire l’interesse pubblico. L’emissione del nuovo atto impositivo deve essere preceduta dall’annullamento del precedente atto impositivo, ai fini della tutela delle ragioni di difesa del contribuente e del divieto della plurima imposizione in dipendenza dello stesso presupposto.
Le manifestazioni di autotutela sostitutiva a contenuto positivo, e cioè il ritiro e l’emissione di nuovi avvisi, sono assimilabili ad atti a contenuto rinnovatorio con efficacia ex nunc di precedenti provvedimenti invalidi .
L’intervento di autotutela sostitutiva deve tener conto della sentenza eventualmente pronunciata sul primo atto, ed, in particolare ,del giudicato formatosi su di essa;sussiste il divieto di ripetere nel secondo atto le illegittimità rilevate dalla sentenza; se un atto è dichiarato illegittimo per un vizio formale, l’ufficio nel riemetterlo deve evidentemente eliminare il vizio, rispettando il principio desumibile dalla sentenza passata in giudicato.
Il fatto che il giudizio sul primo atto sia ancora pendente non è preclusivo dell’intervento sostitutivo;nel momento in cui si esercita l’intervento sostitutivo, il giudizio pendente deve, peraltro, perdere il proprio oggetto, in quanto l’atto impugnato deve essere rimosso per l’emanazione del secondo atto; l’effettuata rinnovazione dell’atto impugnato in pendenza del processo determina la cessazione della materia del contendere. Sussiste la possibilità di rinnovare l’atto impugnato quando il vizio consista nel difetto di motivazione (Cass. Sent. n. 7964 del 23/07/99); in tale ipotesi il fisco nell’esercizio del proprio potere di autotutela,procede d’ufficio all’annullamento dell’atto che difetta di motivazione e, prima che siano scaduti i termini per l’accertamento, provvede ad emettere un avviso sostitutivo del precedente; deve essere rispettato il termine di decadenza eventualmente previsto per l’emanazione dell’atto impositivo, in quanto le precedenti vicende, relative all’atto riconosciuto invalido, non pongono la rinnovazione al di fuori delle ordinarie regole previste per l’esercizio del potere e in particolare non possono avere un effetto sospensivo della decorrenza del termine.
Nell’ipotesi di annullamento di ufficio dell’atto impugnato e di sostituzione di questo con altro atto il fisco riproduce quello stesso sottoposto ad impugnazione, emendato, però, dal vizio formale sanabile, denunciato dal contribuente; si ha l’eliminazione dell’atto oggetto del giudizio, con conseguente cessazione della materia del contendere, ed emanazione di un nuovo atto, che, al fine di evitarne la definitività, richiede di essere a sua volta impugnato, dando così vita ad un nuovo giudizio.
L’annullamento dell’atto invalido deve precedere, sotto il profilo ontologico, la rinnovazione; esso deve essere espressamente stabilito e comunicato al contribuente, in modo che resti efficace una sola pretesa da parte dell’amministrazione finanziaria; ciò comporta, che il giudizio eventualmente pendente sul primo atto viene ad estinguersi per cessazione della materia del contendere o quanto meno per sopravvenuto difetto di interesse alla decisione.
L’annullamento in via di autotutela di un atto, da parte dell’amministrazione finanziaria, successivamente alla sua impugnazione, determini la sopravvenienza di carenza di interesse, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass., 2 luglio 2008, n. 18054; Cass., 13 gennaio 2006, n. 634; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2305).
Secondo un preciso orientamento sussiste l’assoluta inidoneità della sentenza di cessazione della materia del contendere ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi tale efficacia di giudicato al solo aspetto del venire meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio (Cass., 25 maggio 2007, n. 12310; Cass., 3 marzo 2006, n. 4714).
Diniego di autotutela e responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria
Il mancato intervento in autotutela da parte degli uffici finanziari, che costringe il contribuente ad affrontare spese legali e di altro genere per proporre ricorso ed ottenere per altra via l’annullamento dell’atto, ingenera di per sé la responsabilità extracontrattuale dell’A.F., ricorrendo entrambi gli elementi costitutivi (fatto illecito e danno ingiusto) dell’illecito civile, in presenza dei quali sorge a carico di qualsiasi soggetto e/o amministrazione l’obbligo del risarcimento del danno derivante dalla violazione della norma del neminem laedere.
Va configurata la risarcibilità del danno arrecato al contribuente costretto a ricorrere avverso un atto illegittimo e, con essa, una nuova opportunità di difesa in tutti i casi in cui, nonostante l’evidenza dell’errore commesso, il contribuente è costretto a subire le spese di un giudizio per vedere riconosciuta l’illegittimità di un provvedimento che ben potrebbe essere annullato in autotutela.
Il fisco può essere ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 2043 c.c. per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell’esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al contribuente.
Tale assunto è stato precisato dalla recente circolare . n. 20/IR del 22 luglio 2010 dell’IRDCEC. In particolare, la predetta circolare ha ribadito i seguenti capisaldi alla luce delle posizioni della dottrina e della più recente giurisprudenza di legittimità.
a) L’impostazione prevalente riconosce al contribuente una posizione soggettiva indirettamente tutelata (interesse legittimo) a che l’esercizio del potere di annullamento abbia luogo in modo ragionevole e non arbitrario, pena il ricorso al giudice amministrativo per far valere il suo mancato o cattivo esercizio che si risolve nelle figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Viceversa, le SS.UU. della Cassazione si sono ripetutamente espresse a favore della giurisdizione tributaria, competente a conoscere delle controversie sorte in materia di autotutela.
b) Secondo la sentenza n. 698/2010 della Terza sezione civile della Corte di Cassazione ,riguardo all’ingiustizia del danno sopportato per ottenere l’annullamento in via di autotutela (e consistente nelle spese legali sostenute), va ribadito che la stessa non è affatto esclusa dalla circostanza che le spese si riferiscono “ad un procedimento amministrativo” e non ad uno contenzioso (e, dunque, non si riferisca a vere e proprie spese processuali); se l’amministrazione non interviene in modo tempestivo ad annullare un atto illegittimo mediante lo strumento dell’autotutela, deve risarcire il contribuente costretto a sostenere spese legali e d’altro genere per proporre ricorso per l’annullamento dell’atto. Difatti, “ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d’altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l’annullamento dell’atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile”.
c) Secondo la sentenza n. 698/2010 della Terza sezione civile della Corte di Cassazione il giudice ordinario ha il potere di valutare tempi e modi di esercizio del potere amministrativo di autotutela.
d) Il mancato o ritardato annullamento assurge ad elemento costitutivo della responsabilità aquiliana.
L’intervento in autotutela è l’unico mezzo che la legge attribuisce agli uffici per evitare il danno ingiusto recato al contribuente raggiunto da un provvedimento impositivo illegittimo; gli stessi uffici ogni qualvolta siano destinatari di un’istanza di riesame non saranno facoltizzati, ma saranno invece tenuti ad attivarsi per rivalutare il proprio operato riesaminando elementi in fatto e/o in diritto erroneamente considerati o prendendone in considerazione altri sopravvenuti che è onere del contribuente istante allegare e dell’amministrazione agente imparzialmente valutare.
Il dovere di agire in autotutela, quindi, sorge in conseguenza della sola emanazione di un atto impositivo illegittimo che – ponendo il contribuente in una situazione di precarietà e di rischio economico – impone all’Amministrazione di attivarsi e di intervenire sulla causa del pericolo per evitare la violazione della regola del neminem laedere.
e) Il dovere di agire in autotutela (cioè, dovere dell’Ufficio di riesaminare il proprio operato e comunicarne l’esito al contribuente istante) consegue all’emanazione di un qualsiasi atto di imposizione che, una volta denunziato dal contribuente-destinatario come illegittimo, trasforma il pericolo di subire un danno patrimoniale ingiusto (e di doverlo poi risarcire) da potenziale in attuale, imponendo così all’A.F. di intervenire per verificare il provvedimento denunziato ed evitare così di infrangere la regola del neminem laedere. Va riconosciuta al contribuente la risarcibilità del silenzio immotivato dell’amministrazione a fronte di un’istanza di autotutela e, con essa, una nuova opportunità di difesa in tutti i casi in cui, nonostante l’evidenza dell’errore commesso, il contribuente, sempre più spesso, è costretto a subire le spese di un giudizio per vedere riconosciuta l’illegittimità di un provvedimento che ben potrebbe essere annullato in autotutela.
16 aprile 2011
Antonio Terlizzi