L'antieconomicità vale anche per i professionisti: il caso del canone di locazione troppo elevato

L’antieconomicità si applica anche ai professionisti: di fronte a importanti allegazioni del Fisco e, quindi, ad argomentate e puntuali contestazioni, il contribuente sottoposto a controllo, per il principio di “vicinanza alla prova”, deve dimostrare l’inerenza dei costi, in particolare quando essi appaiono sproporzionati, ad esempio il caso di un canone di locazione particolarmente elevato.

Canone di locazione elevato, scatta l’accertamento: il fatto

contestazione di antieconomicità dal fiscoLa Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto da un avvocato, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento ai fini Irap, Irpef ed Iva, emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle Entrate per l’anno 2005.

In particolare, dalla documentazione emergeva che le prestazioni dell’Avvocato risultavano fatturate per Euro 320.000,00 ad uno studio legale associato e per Euro 5.942,02 a terzi.

Inoltre, i costi per l’utilizzo dello studio associato ammontavano ad Euro 243.000, oltre Iva, e per ulteriori Euro 50.000 posto auto oltre spese condominiali per Euro 2.765,51 ed Iva, relativi al periodo dal 10 novembre 2005 al 31 dicembre 2005, da una srl locatrice.

Pertanto, secondo il giudice di appello l’attività professionale del contribuente era svolta quasi esclusivamente nell’ambito dello studio legale associato mentre le spese oggetto di contestazione non erano inerenti ed erano elevate, sì da non costituire il minimo necessario per l’esercizio dell’attività.

Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione il contribuente, deducendo, per quel che ci interessa in questa sede, la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, nonchè dell’art. 2697 c.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, in quanto con il ricorso introduttivo si era dimostrato che le spese sostenute dal contribuente erano riferibili, in parte all’acquisto di mobili per l’ufficio avvenuto nell’anno 2004, ed a tale anno assoggettate alla procedura di ammortamento, in parte al canone di locazione di un posto auto e delle relative spese condominiali, in parte ancora all’immobile condotto in locazione “adibito a studio”.

Secondo il giudice d’appello tutte le spese sopra indicate non sono deducibili in quanto l’attività professionale è stata svolta quasi esclusivamente nell’ambito dello studio legale associato e non nell’altro immobile di cui era locatario.

 

Deducibilità del costo e principio di inerenza

Tale conclusione – secondo il ricorrente – violerebbe il disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, in quanto il criterio dell’inerenza comporta che un costo è deducibile ove esso sia ontologicamente riferito l’attività di esercitata.

I costi, dunque, sarebbero deducibili trattandosi di spese sostenute per l’immobile adibito ad uso professionale e, quindi, oggettivamente connessi all’attività esercitata, indipendentemente dal fatto che:

“il ricorrente ritraesse la maggior parte dei suoi compensi dell’attività prestata per un altro studio professionale”.

Ben poteva, dunque, il contribuente svolgere la propria attività a favore della struttura professionale utilizzando un proprio immobile che conduceva in locazione che era, appunto, adibito a studio professionale.

Inoltre, il giudice di appello avrebbe violato il disposto dell’art. 2697 c.c., perchè l’Ufficio si sarebbe limitato a mere asserzioni basate sui dati numerici esposti nella dichiarazione, non essendo state fornite le prove per le quali le quote di ammortamento di beni strumentali o i canoni di locazione di immobili ad uso ufficio non sarebbero deducibili dal reddito di un professionista che ha destinato tali beni alla propria attività.

 

Canone di locazione elevato: il pensiero della Cassazione

Per la Cassazione tale motivo è infondato.

antieconomicità canone di ufficio troppo elevatoNella specie, l’Agenzia delle Entrate ha contestato l’antieconomicità e la non congruità del costo, in quanto il canone mensile del contratto di locazione era stato stipulato per la somma esorbitante di Euro 50.000,00, per un limitato periodo, con un contratto peraltro con decorrenza anteriore rispetto alla conclusione.

Inoltre, il giudice di appello ha chiarito che il contribuente esercitava l’attività di avvocato quasi esclusivamente per conto dello studio professionale associato, con prestazioni da lui fatturate nei confronti di tale studio per Euro 320.000,00 mentre le prestazioni residue ammontavano ad appena Euro 5.942,02.

Per tale ragione i costi per l’utilizzo dell’altro studio, ammontanti a quasi Euro 300.000,00 non erano inerenti all’attività professionale, “proprio per gli importi esorbitanti rispetto alle minime prestazioni rese in favore dei terzi”.

“Di fronte a tali importanti allegazioni dell’Amministrazione e, quindi, ad argomentate e puntuali contestazioni, il contribuente, cui incombeva l’onere della prova della inerenza dei costi per smentire le contestazioni dell’Ufficio (Cass., 16 novembre 2011, n. 24065; Cass., 9 agosto 2006, n. 18000; Cass., 25 febbraio 2010, n. 4554; Cass., 26 aprile 2017, n. 10269; Cass., 5 maggio 2011, n. 9892; Cass., 16 maggio 2007, n. 11205; Cass., 30 maggio 2018, n. 13588, che valorizza il principio di “vicinanza alla prova”), non ha dimostrato in alcun modo l’inerenza di tali costi, ma si è limitato a riferire, come riportato nella motivazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che avendo egli clientela di notevole importanza, era indispensabile accoglierla in uno studio di un certo prestigio, sicchè l’economicità dell’operazione doveva “parametrarsi” anche in termini di immagine”.

Inoltre, i massimi giudici, ritengono che l’avvocato sia soggetto Irap, essendo pacifico, in atti, che il contribuente abbia utilizzato per la sua attività professionale due studi, dando così dimostrazione della sussistenza dell’autonoma organizzazione.

Infatti, l’utilizzo di due studi, ed in particolare di uno studio con costi di locazione per la somma di circa Euro 300.000 l’anno, non può essere ritenuto, come affermato dal giudice del merito, una spesa rientrante nel “minimo indispensabile” per l’esercizio dell’attività di avvocato.

 

I precedenti in tema di antieconomicità e accertamento 

E’ ormai pacifico che l’antieconomicità investa pure i professionisti.

Ricordiamo che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22579 dell’11 dicembre 2012, aveva riconosciuto come antieconomico il comportamento del professionista/avvocato che aveva dedotto costi di locazione in anticipo rispetto alle ordinarie scadenze e comunque sproporzionati.

Nello specifico, l’ufficio aveva recuperato a tassazione la spesa sostenuta dal contribuente per pagare anticipatamente nell’anno 2001 il canone di locazione dello studio per il periodo di cinque anni, dall’1.9.2002 al 31.8.2007 – per un importo di euro 150.000,00 -, prima ancora della scadenza del contratto di locazione che prevedeva, invece, un pagamento di canone trimestrale.

Tale costo viene ritenuto non inerente e non congruo, con riguardo all’attinenza della spesa all’esercizio della professione, in quanto non sussiste una connessione funzionale fra i costi e la produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo.

L’ufficio, inoltre, ha rilevato la sproporzione del costo rispetto al presumibile andamento futuro dell’attività del professionista, in considerazione del fatto che lo stesso è in pensione fin dall’anno 1993; nonché evidenzia che nell’anno 2001 il contribuente aveva conseguito compensi elevati, notevolmente ridimensionati, ai fini fiscali, dai costi anticipati dei canoni di locazione.

Inoltre, l’immobile condotto in locazione era di proprietà della società (X) s.r.l., della quale l’avvocato era socio per metà con la moglie, e pertanto non era nemmeno ipotizzabile, a giustificazione del contegno del contribuente, il timore di perdere la disponibilità dell’immobile.

In definitiva, l’operazione posta in essere dal contribuente aveva connotati di evidente antieconomicità, risultando priva di valida ragione logica ed anzi funzionale, stante la mancanza di contrapposizione di interessi economici tra locatore e conduttore – come pure emergeva dalla mancata modifica del canone per un periodo di 15 anni – ad ottenere un vantaggio per il professionista che aveva potuto ridurre il carico fiscale.

Peraltro, la società locatrice doveva ritenersi costituita allo specifico scopo di consentire al professionista la deduzione indebita dei canoni di locazione contestati, proprio per la riferibilità del sodalizio allo stesso professionista ed al coniuge, stante l’assenza di ulteriori attività rispetto alla locazione di due immobili da parte della stessa società.

 

La Corte prende le mosse dal dettato normativo di riferimento, allora vigente, – comma 1 dell’art. 50 del T.U.I.R. -, secondo cui:

“il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenuto nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione, salvo quanto stabilito nei successivi commi”.

 

Tale norma non impedisce all’ufficio accertatore di compiere una verifica incidente “sull’inerenza dei costi all’attività svolta e, addirittura, sulla congruità dei costi medesimi. Tanto sembra derivare, per un verso, dalla rilevanza, anche in parte qua e malgrado l’assenza di un’espressa previsione di un principio analogo a quello – di portata generale – sancito dal comma 5 dell’art. 75 del T.U.I.R. a proposito del reddito d’impresa – secondo cui le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito……” e, per altro verso, la Suprema Corte non ha mancato più volte di sottolineare che “… rientra nella competenza degli Uffici accertare in concreto la sussistenza e la congruità dei costi dedotti, sulla base della documentazione fornita e di qualsiasi altro dato rilevante a tali fini”, ritenendo “…insito nei poteri di accertamento dell’A.F. negare la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di la del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa” (cfr. Cass. Sez. trib., 1° agosto 2000, n. 10062).

La stessa Corte rileva che, poiché…

“l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anziché ad un altro ben può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi – deve ritenersi rigorosamente preclusa in tema di reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza, giacché il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività (v. Cass. 3809/07, 16198/01, 7912/00)”– cfr. , da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 3418 del 12/02/2010 e – Cass. n. 6331 del 2008.

Per la Corte si tratta di…

“un indirizzo espressivo di principi di carattere generale concernenti la determinazione dei redditi di qualsiasi contribuente esercente attività economica professionale, anche se non esercente attività commerciale, dovendosi all’uopo considerare che secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’ambito del diritto della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico della detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (cfr., ad es., Corte Giust. 23 aprile 1991, causa C-41/90, Hafner e Elser; Corte Giust. 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre), e costituisce un’attività economica qualsiasi attività consistente nell’offrire beni o servizi su un mercato determinato, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento” (Corte Giust. 16 giugno 1987, causa 118/85, Commissione/Italia; 18 giugno 1998, causa C.35/95, Commissione/Italia, in tema di spedizionieri doganali).

Facendo applicazione dei superiori principi:

“gli avvocati offrono, dietro corrispettivo, servizi di assistenza legale consistenti nella predisposizione di pareri, di contratti o di altri atti, nonché nella rappresentanza e nella difesa in giudizio. Inoltre, essi assumono i rischi finanziari relativi all’esercizio di tali attività poiché, in caso di squilibrio tra le spese e le entrate, l’avvocato deve sopportare direttamente l’onere dei disavanzi.”

E si è concluso che gli avvocati:

“svolgono un’attività economica e, pertanto, costituiscono imprese ai sensi degli artt. 85, 86 e 90 del Trattato, senza che la natura complessa e tecnica dei servizi da loro forniti e la circostanza che l’esercizio della loro professione è regolamentato siano tali da modificare questa conclusione” (sentenza 19 febbraio 2002, causa C-309/99, Wouters; cfr. anche, a proposito della inclusione della categoria degli avvocati nelle nozioni di impresa, Corte giust.19 febbraio 2002, n.C-35/99, Corte giust.19 febbraio 2002 n.C-309/99, p.34, a proposito delle tariffe che fissavano i minimi ed i massimi degli onorari approvate dal provvedimento ministeriale).

Non è qui in discussione il principio di cassa ma la ratio decidendi della decisione impugnata si colloca sul fatto che:

“il professionista non può, a suo piacimento, imputare a titolo di costi dell’attività professionale oneri che appaiono incoerenti rispetto allo strumento negoziale utilizzato per avere a disposizione un bene strumentale all’esercizio professionale ed ipotetici rispetto all’esercizio dell’attività che andrà a svolgersi, in futuro.

Ammettendo il contrario si finirebbe col legittimare il professionista a condizionare a suo piacimento i risultati delle dichiarazioni dei redditi in relazione a scelte individuali che, pur in astratto ammissibili, devono comunque sottostare alle regole di inerenza anche temporale che l’Ufficio ha il compito di verificare”.

 

Fonte: Sentenza Cassazione n. 11086 del 27 aprile 2021

 

A cura di Roberta De Marchi

Venerdì 11 giugno 2021