La responsabilità del professionista nello svolgimento degli incarichi professionali

Puntiamo il mouse sulla giurisprudenza relativa alla responsabilità del commercialista, nell’ambito dello svolgimento degli incarichi professionali.

responsabilità del professionista nello svolgimento della sua attivitàUna rassegna di giurisprudenza relativa alla “responsabilità del commercialista”, nell’ambito particolare derivante dallo svolgimento degli incarichi professionali.

L’ultimo periodo, d’altronde, è stato caratterizzato da una notevole produzione giurisprudenziale, ciò che non ha fatto altro che aumentare l’attenzione dei professionisti.

Proprio per tale motivo la nostra illustrazione parte proprio dalle sentenze più recenti.

 

Colpevole il professionista denunciato per omesso pagamento dei tributi

L’art.6.3. del D.Lgs. n. 472 del 1997 stabilisce che

“Il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi”.

 

Ora, nel caso dedotto in giudizio i Contribuenti hanno dimostrato, con sufficiente grado di attendibilità:

  • di aver incaricato un professionista di fiducia (che per anni aveva collaborato con loro e con il loro padre) di curare, per proprio conto, gli adempimenti fiscali (effettuando anche le operazioni di pagamento delle varie imposte) relativi all’attività d’impresa della Farmacia della quale sono titolari in parti eguali;
  • che tale professionista, pur avendo incassato i compensi relativi all’incarico conferitogli, ha omesso – per sua negligenza e senza giustificato motivo (e comunque senza il loro assenso e in violazione degli obblighi derivanti dall’accettazione del mandato conferitogli) – di effettuare le dichiarazioni ed i pagamenti concernenti i tributi dovuti;
  • e che allorquando sono venuti a conoscenza della condotta (negligente o infedele) del professionista e degli effetti pregiudizievoli che ne erano derivati a loro carico, hanno sporto nei suoi confronti una denuncia-querela.

Dagli atti di causa è emerso, inoltre – come ammesso dalla stessa Amministrazione (che ne dà atto alla pag.6 della sua memoria difensiva) – che dall’estratto conto risultavano gli addebiti con la descrizione riferita alla delega a mezzo F24.

Sembra, pertanto, che i presupposti ai quali la norma in esame connette l’esimente prevista – consistente nella “non punibilità” – si siano realizzati entrambi.

Non appare revocabile in dubbio, infatti:

  •  per un verso, che il mancato pagamento non è dipeso da un fatto direttamente imputabile a loro, ma dalla condotta negligente (se non anche artificiosa) del professionista incaricato di curare gli adempimenti fiscali;
  • e, per altro verso, che – in aderenza a quanto previsto dalla norma – il “fatto del terzo” che ha determinato il mancato pagamento, è stato regolarmente denunciato all’Autorità giudiziaria.

(Commissione Tributaria Regionale Lazio, sezione XXI, sentenza n. 1829/2016)

 

Fatture troppo generiche determinano costi indeducibili

In tema di distribuzione dell’onere della prova, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti la deducibilità di costi indicati, sotto i profili della loro certezza e della loro inerenza, la fattura – di regola, salva l’ipotesi di contabilità inattendibile – è documento idoneo a rappresentare i costi dell’impresa, come emerge dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21. Occorre, però, che essa sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto ivi prescritti (tra le altre, Cass. 28 ottobre 2015, n. 21980 e 20 ottobre 2014, n. 21446).

Ne deriva che l’irregolarità della fattura, nel senso anzidetto, fa venir meno la presunzione della verità di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo relativo.

Ben può, in definitiva, l’Amministrazione limitarsi a contestare l’effettività di operazioni indicate in fatture irregolari e ritenere, pertanto, indeducibili i costi nelle stesse indicati.

In questo contesto, il giudice d’appello, che si è conformato al principio di diritto suindicato, ha esaminato la documentazione invocata dalla società a sostegno della certezza e dell’inerenza dei costi dei quali la società invoca la deduzione, che ha ritenuto insufficiente allo scopo.

 

In particolare, ha fatto leva sulla circostanza che i contratti esibiti nulla specificano in ordine alle provvigioni pattuite ed alle percentuali riconosciute, che uno di essi manca della sottoscrizione di uno degli agenti e che l’omessa specificazione della misura delle provvigioni e delle relative percentuali non è surrogata dagli estratti conto previsti dall’art. 1749 c.c..

(Cassazione, sezione V, sentenza n. 9846/2016)

 

 

Culpa in vigilando per omessa presentazione di dichiarazione Iva

Secondo la ricorrente la Corte distrettuale avrebbe errato:

  1. a) nel non aver ritenuto responsabile il professionista sul rilievo che il cliente non avesse indicato quale comportamento avrebbe dovuto tenere il professionista nel caso di specie. Epperò, oltre al compito fondamentale della rappresentazione della contabilità aziendale, pur in assenza di contratto, per amplissima giurisprudenza vi sono i c.d. oneri accessori di carattere preventivo e propositivo la cui omissione nel caso in concreto avrebbe comportato il rilievo ispettivo che ha concorso a formare la convinzione di una contabilità inaffidabile.
  2. b) nel non aver tenuto conto che ai sensi dell’art. 1218 c.c. avendo il cliente provato l’inadempienza, il professionista avrebbe dovuto dimostrare che la prestazione omessa era impossibile. L’appellante aveva dedotto che era sovvertimento del dettato di cui all’art. 1218 c.c., sostenere che il cliente avrebbe dovuto provare di aver fornito dati diversi ed esatti, da quelli iscritti dal professionista.
  3. c) La sentenza impugnata, a sua volta, sarebbe erronea laddove ha escluso il nesso di causalità tra l’ipotetica condotta viziata del professionista (alterazione dell’inventario, deduzioni di spese non inerenti l’impresa, mancato controllo della cassa divenuta negativa) e il danno.
    Piuttosto, le condotte di natura omissiva e commissiva del professionista avrebbero determinato in modo diretto e immediato e perciò in nesso causale l’evento dannoso ingiusto patrimoniale, certo e risarcibile, del conseguente esborso verso il fisco che il cliente è stato costretto a subire. Il nesso causale sarebbe, dunque, diretto e l’accertamento tributario non sarebbe stato possibile senza le condotte viziate del professionista.
    D’altra parte, il criterio più accettato per dimostrare il nesso di causalità fra il comportamento di un soggetto responsabile e la produzione del danno è quello della causalità adeguata. E’ ovvio che un comportamento negligente e giuridicamente scorretto, tanto da essere sanzionato, non può essere che una causa sicuramente adeguata alla produzione del danno posto in base alla domanda risarcitoria.

 

Il motivo è infondato non solo perchè, nella sua interezza, si risolve richiesta di una nuova e diversa valutazione dei dati processuali non proponibile nel giudizio di cassazione se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dalla Corte distrettuale non presenta nè vizi logici nè vizi giuridici, ma anche perchè la decisione di escludere una responsabilità del professionista è la conclusione di una ricostruzione attenta della situazione di fatto (ricostruzione degli obblighi del professionista, onere della prova, esistenza del nesso di causalità tra comportamento del professionista e preteso danno) e dell’individuazione delle norme da applicare.

Come ha avuto modo di chiarire la sentenza impugnata, posto che la cliente non ha indicato quale comportamento avrebbe dovuto tenere il professionista, in mancanza di contratto scritto, il contenuto del rapporto inter partes poteva essere desunto dalla incontestate affermazioni della cliente che in sede di citazione per danni ebbe a premettere che era compito del professionista la rappresentazione contabile dell’attività dell’azienda che si era svolta e poteva svolgersi sulla base dei dati forniti dalla cliente

Pertanto, posto che il professionista non aveva il compito di sovraintendere all’amministrazione della ditta e alla fase commerciale il preteso errore relativo al “saldo negativo”, e, anche, all’alterazione dei dati dell’inventario, non potevano essere materialmente e direttamente imputati allo stesso.

Ad un tempo, la Corte ha escluso che con riferimento al saldo negativo di cassa, gravasse sul professionista un qualche obbligo di informativa perchè (….) l’irrisoria entità dell’importo e la circostanza che il saldo negativo sia esistito solo per un giorno non comportava l’irregolare tenuta della contabilità.

E’ di tutta evidenza, perciò, che la Corte distrettuale non ha tralasciato di identificare gli obblighi gravanti sul professionista e di accertare se il professionista fosse inadempiente o fosse stato negligente o imperito.

Piuttosto, a fronte delle vantazioni della Corte distrettuale la ricorrente contrappone le proprie ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, nè può la ricorrente pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto, come operata dal giudice di secondo grado, non collima con le sue aspettative e confutazioni.

Correttamente e in sintonia con i principi espressi da questa Corte è l’affermazione della Corte distrettuale secondo cui incombeva sulla S. provare la difettosa od inadeguata prestazione professionale del professionista.

Come è stato detto da questa Corte in altra occasione: nella responsabilità contrattuale, non diversamente dalla responsabilità aquiliana, spetta al danneggiato fornire la prova sia dell’esistenza del danno lamentato, sia della sua riconducibilità al fatto (e quindi all’inadempimento) del debitore.

Il presunto danneggiato, insomma ha l’onere di provare sia l’inadeguata prestazione professionale, sia l’esistenza del danno, sia il nesso di causalità tra la prestazione professionale inadeguata ed il danno.

L’art. 1218 c.c., se pone una presunzione di colpevolezza dell’inadempimento, non agevola la posizione “del danneggiato, per quanto attiene all’onere di provare l’effettiva esistenza del danno derivante dall’inadempimento, onere che non è diverso da quello incombente su colui che faccia valere una responsabilità extracontrattuale.

Pertanto, correttamente, nel caso in esame, la Corte di Ancona ha affermato che pur volendo, in via di mera ipotesi, ritenere dimostrata la colpa professionale dell’appellato che, per le ragioni sin qui esposte, deve essere esclusa, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitorie l’appellante avrebbe dovuto provare il nesso causale tra la condotta del professionista ed il danno lamentato, una prova, che secondo una valutazione dei fatti, non sarebbe stata raggiunta.

L’accertamento poi del mancato nesso causale tra il comportamento del professionista e il preteso danno subito dalla cliente, trattandosi di un accertamento di fatto e/o di merito, non è soggetto al sindacato di legittimità, soprattutto perchè è privo di vizi logici e giuridici.

La Corte distrettuale, ha avuto modo di precisare che non era stata data la prova della sussistenza del nesso causale tra il comportamento del professionista ed il preteso danno per due essenziali ragioni: a) posto che non sono danni che derivano dall’inadempimento del professionista (e più in generale dell’obbligato) quelli che il suo adempimento non avrebbe potuto evitare, nel caso in esame, era necessario la prova che se il professionista avesse tenuto la condotta dovuta il danno sarebbe stato evitato.

Nel caso concreto, poi, posto che il preteso danno di cui si dice derivava da un accertamento tributario di evasione di imposte che la cliente non ha potuto o saputo evitare, era necessario verificare se il danno fosse conseguenza diretta ed immediata della mera asserita inadempienza del professionista o invece di una massiva condotta di evasione da parte della cliente.

E, in buona sostanza, come specifica la corte, concretamente per identificare una responsabilità del professionista era necessario che la cliente dimostrasse che l’accertamento tributario ordinario avrebbe dato esito diverso e/o, comunque, dimostrasse che se il professionista avesse mantenuto le condotte asseritamente dovute sarebbe stato evitato con certezza o ragionevole grado di probabilità l’accertamento induttivo ed il conseguente recupero di imposte sanzioni ed interessi. E, tale prova, non era stata fornita.

Dalla documentazione agli atti, al contrario, sarebbe emerso, invece, l’esatto contrario, dato che dal processo di constatazione risultavano evidenziate circostanze estranee all’attività del professionista integranti di per se i presupposti dell’accertamento induttivo.

Ora, a fronte di questa ampia approfondita motivazione, coerente con i principi affermati da questa stessa Corte in altre occasioni, e, comunque, coerente con la normativa sulla responsabilità ivi compresa la norma di cui all’art. 1223 c.c., la ricorrente contrappone delle valutazioni, insufficienti e in parte improprie (l’affermazione della Corte distrettuale secondo la quale, la prova che se il professionista avesse tenuto le condotte dovute sarebbe stato evitato con certezza o ragionevole probabilità il conseguente recupero di imposte sanzioni ed interessi, sarebbe una richiesta giuridicamente improponibile (…) addirittura diabolica, perchè trattasi di una valutazione discrezionale dei verbalizzanti (…) Muovendoci sul piano concreto dei fatti dei quali il diritto deve occuparsi sappiamo che si tratta di condotte (quelle del professionista) che sono il paradigma della sciatteria contabile (…).

(Cassazione, sezione II, sentenza n. 12463/2016)

 

 

Cause di non irrogabilità delle sanzioni al cliente

La C.T.R. ha fatto applicazione di un consolidato principio affamato ripetutamente da questa Corte secondo il quale la cartella di pagamento, relativa ad avvisi di accertamento divenuti definitivi per la mancata impugnazione in sede giurisdizionale, si esaurisce in un’intimazione di pagamento della somma dovuta dal contribuente in base all’atto presupposto ed è sindacabile ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, solo per vizi propri, non anche per questioni attinenti agli atti di accertamento dai quali è sorto il debito, che restano precluse dalla definitività dei medesimi (cfr. Cass. 3274/2012).

Peraltro, nella specie, il contribuente non contesta che la notifica della cartella esattoriale non sia stata preceduta dalla regolare notifica dell’atto di imposizione, ma deduce che l’avviso di accertamento sia divenuto definitivo per tardiva presentazione (da parte dello stesso Consulente) dell’istanza di accertamento con adesione, dal medesimo sottoscritta.

Ora, la asserita ricorrenza dei presupposti per la non punibilità del comportamento della contribuente alla stregua del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3 – a cui tenore il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi – non concerne il diverso disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, che limita espressamente l’autonoma impugnabilità degli atti ivi individuati, quali la cartella di pagamento, solo per vizi propri.

Peraltro questa Corte ha affermato (Cass. 8630/2012) che persino “l’infedeltà dell’intermediario che, incaricato del pagamento dell’imposta e della trasmissione della dichiarazione dei redditi, ometta di provvedervi, quand’anche accertata in sede penale, non esonera il contribuente dal pagamento dell’imposta stessa, rimanendo non dovuti soltanto gli interessi e le sanzioni, in base al principio di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3”.

(Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 12620/2016)

 

Il commercialista che non suggerisce l’impugnazione è responsabile civilmente, per violazione del principio di diligenza

Il ricorrente assume che l’incarico conferito al professionista sarebbe consistito “in una consulenza tecnico-giuridica volta innanzitutto a conoscere tempestivamente rimedi, termini e modalità previsti dall’ordinamento giuridico per la tutela avverso una sfavorevole sentenza della Commissione Tributaria Regionale, ed inoltre ad analizzare sul piano tecnico la motivazione del provvedimento e le ragioni del rigetto dell’appello”.

Da questo presupposto in fatto, il ricorrente fa discendere in diritto l’obbligo del commercialista di informare il cliente dell’esistenza del rimedio del ricorso per cassazione, nonchè dei termini e delle modalità per la sua proposizione, inclusa l’informazione della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato a difendere dinanzi alle giurisdizioni superiori trattandosi di circostanze nè di pubblico dominio nè nella conoscenza del cliente medesimo, considerato che svolgeva l’attività lavorativa di orologiaio.

Invece, essendo il dottore commercialista un professionista cui l’ordinamento attribuisce specifica competenza in materia tributaria, oltre che il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni tributarie di merito (come da norme richiamate in rubrica), egli ha anche specifica conoscenza sia del rito tributario che del sistema dei gravami esperibili.

Quindi, il dott. D. C., al quale il ricorrente sarebbe stato legato da pluriennale rapporto professionale in corso (perchè redigeva la contabilità della ditta individuale dello S. e ne era consulente), avrebbe dovuto fornire,con tempestività, le dette informazioni, in ossequio ai doveri di diligenza professionale derivanti dall’incarico conferito ai sensi dell’art. 2230 e seg. e dalla clausola generale dell’art. 1176 cod. civ. Con conseguente suo obbligo a risarcire i danni derivati al cliente dall’inadempimento del fondamentale obbligo di informazione; danni sui quali si dilunga, poi, il motivo in esame.

La Corte di appello non ha svolto alcuna apposita disamina in punto di fatto, avendo ritenuto che già le deduzioni della parte attrice fossero idonee ad escludere qualsivoglia responsabilità del convenuto. In particolare, ha reputato che, anche a voler ammettere che – come sostenuto dall’attore, poi appellante – l’incarico professionale fosse stato conferito e fosse consistito nella richiesta di una “consulenza di carattere tecnico”, ovvero di un parere “in prospettiva di un eventuale ricorso per cassazione”, non sarebbe stata comunque configurabile una responsabilità del professionista cui imputare i danni per la perdita della possibilità di ricorrere per cassazione.

Questa conclusione, in punto di diritto, non è corretta.

La responsabilità del dottore commercialista presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., tenuto conto della natura e della portata dell’incarico conferito (cfr. Cass. n. 16023/02, anche per la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, eventualmente gravanti sul prestatore d’opera intellettuale).

Qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l’obbligo, non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell’ambito della competenza del professionista (cfr. Cass. n. 14597/04 e n. 24544/09, in riferimento ad analoghi obblighi informativi imposti all’avvocato, nonchè Cass. 14639/15, in riferimento agli obblighi informativi gravanti sul dottore commercialista), ma anche, tenuto conto della portata dell’incarico conferito, di individuare le questioni che esulino da detto ambito.

Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente.

La definizione dell’ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell’adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell’incarico conferito al dottore commercialista.

Nel momento in cui si ipotizzi – come ha fatto la Corte d’Appello – che lo stesso sia stato incaricato, se non della proposizione di un’impugnazione in cassazione, ma comunque di fornire una vera e propria consulenza, sia pure “di carattere tecnico” e “di prima informazione”, a seguito dell’esito infausto per il contribuente di un ricorso dinanzi alla commissione tributaria regionale, è obbligo di diligenza connesso all’incarico di consulenza così conferito quello di informare il cliente non solo delle giuridica o tecnico- contabile che stanno sentenza sfavorevole (indubbiamente competenza del dottore commercialista, in quanto soggetto abilitato al patrocinio dinanzi alle commissioni tributarie), ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista.

In diritto perciò la sola circostanza, valorizzata dal giudice di secondo grado, che il dottore commercialista non sia abilitato a promuovere ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso una sentenza della commissione tributaria regionale non vale ad escluderne la responsabilità, ove non gli si ascriva (soltanto) tale mancata impugnazione, bensì la mancata ottemperanza all’obbligo di informare il cliente della necessità di rivolgersi ad un avvocato abilitato, nei tempi previsti dall’ordinamento per impugnare la sentenza.

(Cassazione, sezione III, sentenza n. 13007/2016)

 

La rettifica dell’avviamento può seguire criteri diversi da quelli stabiliti normativamente

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, attesane la intrinseca connessione – e con i quali parte ricorrente lamenta la mancanza di prova in ordine alla realizzabilità di una ristrutturazione del gruppo societario senza oneri fiscali, onde la conseguente mancanza di prova del nesso causale tra l’inadempimento e il danno -, pur volendo prescindere dai non marginali profili di inammissibilità per novità della questione proposta dinanzi al questa Corte, non sono, comunque, fondati nel merito.

Essi si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto che il rapporto contrattuale fra committente e professionista venne regolato sulla base della precisa individuazione di alcuni obbiettivi da raggiungere (onde l’inconferenza dell’argomentazione secondo la quale l’incarico di ristrutturazione sarebbe stato conferito anche nel caso di irragiungibilità dell’obbiettivo della neutralità fiscale), e, in particolare, quello della sospensione d’imposta, assicurata (erroneamente) dal C.: ciò rendeva la sua obbligazione strumentale al conseguimento di quel preciso risultato, nella specie non raggiunto per causa imputabile al debitore, inadempiente in toto all’obbligo assunto ex contractu, i.e. la riorganizzazione del gruppo societario in esenzione d’imposta.

Non dunque, una riorganizzazione “qual che fosse” della struttura societaria, bensì una specifica riorganizzazione che consentisse al committente di andare esente da quella tassazione poi invece imposta alla società per fatto e colpa del debitore (onde l’assoluta inconferenza della considerazione secondo la quale l’attività del professionista, pur in assenza di alcuna imperizia od omissione, non avrebbe comunque consentito l’esito positivo sperato), volta che la causa concreta del contratto d’opera professionale era costituito dalla scopo di evitare la tassazione, l’oggetto essendone, a sua volta, la progettazione di una ristrutturazione societaria esente da imposta.

Le argomentazioni svolte, in proposito, dalla Corte di merito devono, pertanto, in questa sede essere confermate ed interamente condivise dal collegio.

(Cassazione, sezione III, sentenza n. 15107/2016)

 

Risponde il contribuente per il reato di omessa dichiarazione

Va ricordato che l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322).

Il fatto che il contribuente possa avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, commi 3 e 3 bis, cit.) non vale a trasferire su queste ultime l’obbligo dichiarativo che fa carico direttamente al contribuente il quale, in caso di trasmissione telematica della dichiarazione, è comunque obbligato alla conservazione della copia sottoscritta della dichiarazione (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 6).

L’adempimento formale, dunque, fa carico al contribuente il quale deve essere a conoscenza delle relative scadenze e può anche giovarsi, a fini penali, del termine di 90 giorni concesso dalla legge in caso di infruttuoso superamento del termine (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 7, e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, comma 2).

Ne consegue che il solo fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifichi di per sè la violazione dell’obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine.

Questa Corte di legittimità ha avuto modo di rilevare come solo la forza maggiore può giustificare tale omissione (sez. 3 n. 3928 del 25.2.1991, Pasquino, rv. 186784), ma nella valutazione della sua sussistenza non si può prescindere dal fatto che il contribuente ha, come detto, 90 giorni di tempo dalla scadenza del termine per adempiere all’obbligo.

(Cassazione, sezione IV penale, sentenza n. 18845/2016)

 

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15 settembre 2016

Danilo Sciuto