Accertamento IVA per contabilità esibita in ritardo

Il contribuente che non riesce ad esibire i registri IVA richiesti dal Fisco nei tempi previsti dalla legge, si espone a rischi di accertamento analitico-induttivo.

registri iva esibiti in ritardo e accertamento analitico induttivo

L’accertamento analitico induttivo ai fini IVA è legittimo, anche senza accesso nella sede dell’impresa, se le scritture contabili sono state esibite dalla società contribuente solamente alcuni mesi dopo la richiesta da parte degli organi di controllo.

È quanto emerge dalla sentenza 19871, depositata il 14 novembre 2012, con cui la Sezione Tributaria della Cassazione ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, accogliendo il ricorso del Fisco.

L’accesso del Fisco

Per quanto qui d’interesse, giova ricordare che l’accesso (autorizzato) di impiegati dell’Amministrazione Finanziaria nei locali destinati all’esercizio dell’impresa, per procedere a ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e a ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni, è disciplinato dall’articolo 52 del D.P.R. n. 633 del 1972.

Tale disposizione, tra l’altro, prevede:

→ che l’ispezione documentale si estende a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l’accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali;

→   che i libri, i registri, le scritture e i documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi all’ispezione;

→ che di ogni accesso deve essere redatto processo verbale, che deve essere sottoscritto dal contribuente o da chi lo rappresenta ovvero indicare il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto di averne copia.

A mente dell’art. 52 citato, inoltre, il contribuente che dichiari che le scritture contabili o alcune di esse si trovano presso altri soggetti:

→ è tenuto a esibire un’attestazione dei soggetti stessi recante la specificazione delle scritture in loro possesso. In mancanza dell’esibizione di tale attestazione e se il soggetto che l’ha rilasciata si oppone all’accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture, queste ultime non possono essere prese in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa.

Accertamento induttivo

Se il contribuente rifiuta di esibire o comunque sottrae all’ispezione i registri e le altre scritture contabili obbligatorie a norma del primo comma dell’art. 2214 C.c. e delle leggi in materia di imposte sui redditi, o anche soltanto alcuni di tali registri e scritture, l’Ufficio può procedere all’accertamento induttivo ai fini IVA, ai sensi dell’articolo 55, comma secondo, del D.P.R. 633 del 1972.

In presenza di un ritardo nell’esibizione della contabilità agli organi di controllo che ne abbiano fatto espressa richiesta e in mancanza dell’attestazione circa il deposito presso terzi della documentazione aziendale, la ricostruzione induttiva del volume d’affari da parte dell’Ufficio è possibile anche senza accesso presso la sede dell’impresa. Lo ha sostenuto la Sezione Tributaria della Cassazione, nella sentenza n. 19871 del 14 novembre 2012. Gli Ermellini hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, alla luce dei seguenti fatti causa.

Il caso

La controversia trae origine da un accertamento ai fini IVA per l’anno d’imposta 2001, scaturito da determinazione induttiva del reddito d’impresa effettuata a seguito dell’omessa esibizione della contabilità.

Le Fiamme Gialle iniziavano la verifica presso il consulente fiscale della società contribuente (un ragioniere), il quale dichiarava che le scritture contabili erano custodite nella sede dell’impresa.

A quel punto, i militari si rivolgevano all’amministratore dell’ente, che declinava ogni responsabilità, sostenendo che la contabilità si trovava presso il professionista. Infine, la detta documentazione veniva consegnata, ma solo dopo alcuni mesi e per di più in copia.

Dopo che i primi due gradi di giudizio si sono conclusi a favore della contribuente, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando l’erroneità della sentenza di secondo grado, laddove la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva sostenuto che la richiesta dei documenti senza un accesso presso la sede della contribuente non legittima l’accertamento induttivo IVA per rifiuto di esibizione della contabilità.

 

Nel caso di specie:

  • Dopo il rimpallo di responsabilità tra consulente fiscale e amministratore, le scritture contabili sono state esibite dal professionista, ma a distanza di quattro mesi dalla richiesta e in copia. Le modalità (copia) e la tempistica dell’esibizione sono apparse “sospette” e hanno determinato la determinazione induttiva del volume d’affare della società accertata.
  • Il contribuente ha impugnato l’avviso di accertamento, deducendo che le scritture contabili erano state comunque consegnata agli accertatori.
  • I giudici di merito hanno ritenuto l’opposizione del contribuente fondata. Il giudice d’appello, in particolare, ha negato la legittimità dell’accertamento induttivo per omessa esibizione della contabilità, in ragione “del mancato accesso della G.d.F. presso la sede legale della ditta contribuente”.

 

Le doglianze dell’Ufficio

Ebbene, il ricorso per cassazione dell’Amministrazione è stato accolto.

L’Ufficio, denunciando violazione dell’articolo 52, commi 5 e 10 del decreto IVA (DPR 633 del 1972) “e vizi motivazionali sui pacifici presupposti di fatto della vicenda”, ha dedotto che:

“la correlazione tra le contrastanti dichiarazioni del ragioniere e dell’amministratore, circa la collocazione della contabilità presso la sede sociale o presso il consulente aziendale, rendeva inutile ogni ulteriore accesso, atteso che nessuno dei due soggetti interpellati, il secondo avente ruolo apicale nella società contribuente, aveva neppure esibito l’attestazione prevista dal co. 10 dell’art. 52 circa il deposito della documentazione aziendale”;

“la dichiarazione di non possedere” s’intende quale “rifiuto di esibizione” (art. 52, comma 5).

 

La Corte

In ordine alle deduzioni dell’Ufficio, gli Ermellini hanno osservato:

→ che il divieto previsto dal comma 5, dell’art. 52 del D.P.R. 633 citato, di prendere in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, i libri, le scritture e i documenti di cui si è rifiutata l’esibizione, opera non solo nell’ipotesi di rifiuto “doloso” dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all’ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.), quindi per colpa (Cass. n. 7269/09).

Inoltre, l’art. 55 del D.P.R. 600 del 1973 (al pari dell’art. 39 D.P.R. 600/73):

→    “permette il ricorso al metodo induttivo allorché il contribuente non abbia consentito l’ispezione di una o più scritture contabili obbligatorie; mentre è irrilevante che l’indisponibilità possa [essere] incolpevole, poiché, comunque, la circostanza in sé integra il requisito normativo della incompletezza della contabilità, con conseguente inattendibilità delle sue risultanze” (Cass. n. 9201 del 2011).

 

Quindi, indipendentemente dall’accesso in sede, quel che conta è che vi sia stata una specifica richiesta degli agenti accertatori, non potendo costituire rifiuto la mancata esibizione di qualcosa che non si è domandato (Cass. n. 21768/09).

Nel caso esaminato, tale richiesta è stata ripetuta per ben due volte, prima, al professionista di fiducia della contribuente, poi, all’amministratore della società, con esiti negativi e contraddittori.

Di qui anche il vizio di motivazione della sentenza del giudice d’appello, il quale ha valorizzato “illogicamente” il solo dato non conferente del mancato accesso dei verificatori presso la sede aziendale, trascurando invece di valutare il dato “obiettivo” della palese discrasia tra la versione dell’amministratore, che ha negato la collocazione della contabilità in sede e affermato la sua reperibilità presso il consulente, e la versione di quest’ultimo professionista, che ha dichiarato l’esatto contrario. Peraltro, la documentazione richiesta è stata prodotta proprio dal consulente dopo molti mesi.

In conclusione, la sentenza d’appello è incorsa negli errori giuridici e logici denunciati dall’Amministrazione, con conseguente accoglimento del ricorso e rinvio della causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità alla CTR Lazio, in diversa composizione.

 

Osservazioni

L’orientamento rigoroso espresso nella sentenza in commento non è nuovo. Infatti già con sentenza n. 7161 del 1995, gli Ermellini avevano chiarito che il divieto sancito dall’articolo 52 del D.P.R. 633/1972:

“deve ritenersi operante non solo nell’ipotesi di rifiuto (per definizione ‘doloso’) dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all’ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non sensibile, di diritto (cfr. art. 39-bis del D.P.R. n. 636 del 1972) o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa […]”.

Conclusione questa “rafforzata dall’equiparazione normativa, ‘quoad effectum’, di codesti comportamenti al rifiuto di esibizione e dalla ragion d’essere di tale equiparazione, sicuramente individuabile nell’esigenza di contemperare il diritto di difesa del cittadino col principio di buona amministrazione, parimenti costituzionalizzato (art. 97 Cost.) e, quindi, non disinvoltamente sacrificabili in presenza di comportamenti che ne ostacolino ingiustificatamente la realizzazione”.

 

Peraltro, tale previsione:

“si applica, per dettato espresso, anche nell’ipotesi prevista dal successivo comma decimo (aggiunto dall’art. 33 del D.P.R. n. 600 del 1973) e, quindi, anche se l’ispezione dei documenti sia stata impedita non direttamente dal contribuente, ma dalla (diversa) persona che li detiene in un’ipotesi, cioè, nella quale il dolo del primo è difficile da configurare, sì che, nel caso, egli risponde (nel senso che subisce il divieto sotto esame) per semplice ‘culpa in eligendo’”.

Inoltre, con sentenza 1030 del 2002, la Cassazione aveva precisato che:

→ “Per superare la preclusione probatoria, il contribuente può anche addurre la non volontarietà della sottrazione originaria della documentazione poi tardivamente prodotta (v. Cass., S.U. 45/2000), ma deve provare il proprio assunto”.

 

30 maggio 2013

Antonio Gigliotti

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