Attività di mediatore immobiliare: rettifica basata sul percepimento della provvigione da entrambi i contraenti

Vediamo un particolare caso di contenzioso che può interessare i mediatori immobiliari a seguito della detraibilità concessa sulle spese di mediazione.

L’attività di mediazione immobiliare: aspetti generali

contenzioso fiscale agente immobiliareL’attività di mediazione immobiliare consente in via generale al mediatore di richiedere un compenso, a titolo di provvigione, da ambedue le parti contraenti (venditore e acquirente).

Ciò nonostante, tale attività può prevedere la corresponsione della provvigione da parte di una sola delle parti, e quindi non assume rilevanza ai fini dell’accertamento la presunzione in base alla quale il mediatore «dovrebbe» aver incassato la provvigione medesima sia dall’acquirente che dal venditore: questo il senso dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 10320 del 10.5.2011, di seguito presa in esame previa ricostruzione della problematica e della normativa di riferimento.

 

L’indicazione in atto delle spese di mediazione

L’opera del mediatore ha assunto una particolare rilevanze a seguito delle innovazioni normative apportate dal legislatore con il D.L. n. 223/2006 (convertito dalla L. n. 248/2006), il cui art. 35, comma 22, stabilisce quanto segue:

  • all’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti (e, quindi, sia il cedente che l’acquirente) devono rendere una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Inoltre, ciascuna delle parti deve dichiarare se si è avvalsa di un mediatore1 e, in caso affermativo, è tenuta a dichiarare l’ammontare della spesa sostenuta per la mediazione, oltre alle «analitiche modalità di pagamento della stessa», indicando il numero della partita IVA o del codice fiscale dell’agente immobiliare;

  • in caso di dichiarazione omessa, incompleta o mendace è applicabile la sanzione amministrativa da 500 a 10.000 euro e, ai fini dell’imposta di registro, i beni trasferiti sono assoggettati ad accertamento di valore a norma dell’art. 52, primo comma, del D.P.R. 26.4.1986, n. 131.

La maggior trasparenza, associata alla possibilità di determinare l’imposta di registro in base alla «valutazione automatica catastale», ha il senso di favorire l’emersione di base imponibile altrimenti occultata «riducendo» fittiziamente il corrispettivo.

 

 

Il diritto alla provvigione del mediatore immobiliare

Secondo l’art. 1755 del codice civile,

«il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.
La misura della provvigione e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, di tariffe professionali o di usi, sono determinate dal giudice secondo equità».

 

Il principio qui esaminato, che è oggetto anche della più recente pronuncia della S.C., può essere meglio compreso considerando quanto segue:

  1. «il requisito dell’imparzialità viene meno nel caso in cui il mediatore stipuli un patto sulla percentuale della provvigione con uno dei contraenti, sottacendolo all’altro, al quale il prezzo viene indicato conglobandovi la provvigione nella misura pattuita» (Cass. civ. Sez. III, 14.6.1988, n. 4032, con riferimento sul punto a Cass. n. 3293/1971);

  2. «la disposizione, di cui al primo comma dell’art. 1775 cod. civ., relativa alla ripartizione del carico della provvigione tra le parti che hanno concluso l’affare, ha carattere dispositivo (…) cosicché, quand’anche nella fattispecie il giudice avesse indagato ed accertato che il compenso per l’attività svolta dell’Emporio era rimasto totalmente a carico della società venditrice, non per questo sarebbe venuta meno la possibilità di affermare la sussistenza di un rapporto di mediazione» (Cass. civ. Sez. III, 21.9.1988, n. 5183, con riferimento a Cass. n. 5221/1980 e a Cass. n. 5982/1981);

  3. il mediatore, «interponendosi in maniera neutrale e imparziale tra due contraenti, ha soltanto l’onere di metterli in relazione, appianarne le divergenze e farli pervenire alla conclusione dell’affare, alla quale è subordinato il diritto al compenso, senza che l’indipendenza del mediatore possa venir meno per la unilateralità del conferimento dell’incarico, ovvero per il fatto che il compenso sia previsto a carico di una sola parte o in misura diseguale» (Cass. civ. Sez. II, 27.6.2002, n. 9380);

  4. l’indipendenza del mediatore non viene meno «per l’unilateralità del conferimento dell’incarico ovvero per il fatto che il mediatore si riprometta di conseguire da una sola parte, o in misura diseguale, il compenso per l’attività svolta», dato che il mediatore, interponendosi in maniera neutrale e imparziale tra le parti, ha soltanto l’onere di metterle in relazione, appianarne le divergenze e farle pervenire alla conclusione dell’affare. In tale prospettiva, l’indipendenza del mediatore deve essere intesa come assenza di qualsiasi vincolo o rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario (Cass. 8.6.1993, n. 6384; Cass. 21.9.1988, n. 5183; Cass. 14.6.1988, n. 4032).

 

 

Il caso esaminato dalla Corte

La questione di diritto sottoposta all’esame della Cassazione, che ha deciso con ordinanza n. 10320 del 10.5.2011, origina da un contenzioso di merito nell’ambito del quale la CTR, rigettando l’appello dell’amministrazione, motivava la sentenza sulla base delle seguenti affermazioni:

  1. nell’esercizio di attività di mediazione, la provvigione può essere posta a carico di una sola delle parti, «attesa la diffusa prassi in tal senso, convalidata anche da materiale pubblicitario della società che prevedeva la non applicazione della provvigione agli acquirenti»;

  2. il pagamento della provvigione da parte di un solo contraente «non era sufficiente a far presumere analoga provvigione sia stata versata dall’altro, in assenza di verifiche bancarie o di altri più specifici controlli».

Le argomentazioni utilizzate dalla Corte nel convalidare la decisione del giudice di appello valorizzano in sostanza la prassi in atto, che vede presente, accanto alla mediazione ordinaria (fondata sullo schema civilistico tipico sopra rammentato), «una diffusissima e legittima mediazione negoziale cosiddetta atipica, fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo a una soltanto delle parti interessate, la c.d. mediazione unilaterale».

«Tale ipotesi ricorre nel caso in cui una parte, volendo concludere un affare, incarichi altri di svolgere un’attività intesa alla ricerca di una persona interessata alla conclusione del medesimo affare a determinate, prestabilite condizioni».

«La mediazione, peraltro, non viene meno per l’unilateralità del conferimento dell’incarico e per il fatto che il mediatore si riprometta di conseguire da una sola delle parti il compenso per l’attività svolta».

La Cassazione ribadisce quindi che la regola civilistica – contenuta nel primo comma dell’art. 1755 del codice -, secondo cui il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti se l’affare è concluso per effetto del suo intervento, ha carattere dispositivo: anche se essa non è rispettata (e il compenso venga «caricato» solo su una delle due parti), quindi, il rapporto di mediazione viene a configurarsi.

 

 

Alcune considerazioni sulle presunzioni in sede di accertamento

È poi vero, secondo la Cassazione, che nell’accertamento gli uffici finanziari possono avvalersi della prova per presunzioni,

«ma essa presuppone la possibilità logica di ricavare in via rigorosamente inferenziale – e non in modo assiomatico o congetturale – da un fatto noto e non controverso, il fatto da accertare».

Per tale ragione, la Corte ha deciso respingendo il ricorso in camera di consiglio.

In materia di accertamento presuntivo, è tuttavia opportuno inquadrare meglio la problematica, perché – per quanto possibile – non residuino dubbi interpretativi.

Come è noto, nel contesto dell’accertamento analitico (art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. 600/1973), l’ufficio può, relativamente all’accertamento dell’esistenza di attività non dichiarate o dell’inesistenza di passività dichiarate, avvalersi di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

La rettifica su base presuntiva è pure possibile nell’ambito dei controlli sulle dichiarazioni IVA, a norma degli artt. 54 e 55 del D.P.R. n. 633/1972, in termini sostanzialmente analoghi a quanto è previsto per le imposte sui redditi.

La possibilità di procedere secondo tale modus operandi, che individua il campo del c.d. accertamento analitico-induttivo, può essere innescata dal riscontro di inesattezze contabili gravi (in verità abbastanza difficili nel contesto attuale, soprattutto per le imprese più strutturate), ovvero da altre verifiche o dal rilevamento di situazioni di «infedeltà» in fatture, atti, documenti, etc., nonché da dati e notizie raccolti dall’ufficio fiscale.

In generale, guardando anche allo «schema» dell’art. 38, relativo all’accertamento delle persone fisiche, emergono quali elementi rilevanti ai fini della rettifica le situazioni di:

  • incompletezza (chiaramente imputabile sia a comportamenti consapevoli e «premeditati», sia a semplici omissioni causate da dimenticanze, imperizia, etc.);

  • inesattezza (per la quale valgono le stesse considerazioni fatte sopra);

  • falsità (che presuppone l’intenzione del dichiarante di fornire una rappresentazione non vera della propria situazione reddituale, e che potrebbe anche – nel contesto dei reati tributari previsti dal D.Lgs. 10.3.2000, n. 74, al superamento delle prescritte soglie minime – comportare conseguenze penali sotto il profilo dell’«infedeltà» o della vera e propria frode).

Per quanto attiene alle presunzioni, che devono possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729, c.c., esse si qualificano come « … le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato» (art. 2727, c.c.).

I tre requisiti civilistici sono stati esplicati dalla giurisprudenza di legittimità; in particolare, può soccorrere ai fini della presente analisi la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 22.3.2001, n. 4168, nella quale è stato affermato che

«in tema di presunzioni, il requisito della gravità si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre e a tal fine è sufficiente che l’esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica; il requisito della precisione impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; con il requisito della concordanza si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto; la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito e sottratti al controllo di legittimità in presenza di adeguata motivazione; diversamente, l’esistenza della base della presunzione e dei fatti noti, facendo parte della struttura normativa della presunzione, è sindacabile in cassazione».

 

 

Considerazioni di sintesi

Sulla base di quanto sopra evidenziato, occorre affermare che l’accertamento «presuntivo» può avere quale proprio fondamento motivazionale un ragionamento inferenziale con caratteri di:

    • gravità (ovvero «ragionevole certezza, anche probabilistica»);

    • precisione (ovvero fondatezza e determinatezza dei fatti noti posti a base del ragionamento);

    • concordanza (ovvero «convergenza» di più fatti noti verso la dimostrazione del fatto ignoto).

Nel secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, in forza del quale l’ufficio può rettificare le dichiarazioni prescindendo in tutto o in parte dalle scritture contabili e dalle risultanze del bilancio e avvalendosi di notizie e dati comunque in suo possesso, è altresì previsto l’utilizzo di una tipologia di presunzioni che rappresenta un minus rispetto a quelle semplici del codice civile, potendo non essere né gravi, né precise, né concordanti (presunzioni c.d. semplicissime).

L’ampio ventaglio di facoltà «ricostruttive» a disposizione degli uffici fiscali consente di affermare che, allorquando non solamente il mediatore abbia prestato la propria opera finalizzata alla conclusione dell’affare, ma sussistano ulteriori riscontri in capo al mediatore stesso (ad esempio, matrici di assegni, scritture informali, risultanze di controlli bancari-finanziari, indicatori di spesa da accertamento sintetico, ex art. 38, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973), l’accertamento potrà essere validamente supportato, e in grado di resistere alla prova del contenzioso.

Minori problemi sembrano porsi, poi, nella cornice dell’art. 35, comma 22, del D.L. n. 223/2006, sopra richiamato, dato che, a partire dalla data di vigenza di tale normativa (4.7.2006), esiste un obbligo sanzionato di menzionare l’intervento del mediatore nell’atto di trasferimento, specificando le relative modalità di pagamento.

 

25 luglio 2011

Fabio Carrirolo

1 Secondo quanto evidenziato nelle schede di lettura predisposte dai servizi studi parlamentari (Schede di lettura n. 17 del Servizio Studi del Senato della Repubblica – luglio 2006), «è presumibile che si faccia riferimento al solo mediatore immobiliare e non anche al mediatore creditizio, che interviene nei rapporti tra mutuatario e banca».