Anche il Fisco deve "neminem laedere"

Tale espressione latina sintetizza il principio in base al quale tutti sono tenuti al dovere (generico) di non ledere l’altrui sfera giuridica; a tale principio soggiace anche la pubblica amministrazione.

“L’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e del principio primario del neminem laedere, codificato dall’art. 2043 c.c..”.

sentenza corte di cassazioneE’ questo l’importante principio (ri)affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 5120 del 3 marzo 2011, con la quale è stato riconosciuto il danno economico subito da un contribuente a seguito del comportamento tenuto dall’Agenzia delle Entrate che non ha (tempestivamente) provveduto all’annullamento degli atti impositivi errati, in precedenza emessi, così costringendo la parte a sostenere oneri economici per assistenza legale, trasferte e spese accessorie.

Ad identiche conclusioni era arrivata la sentenza n. 698/2010, commentata su queste stesse pagine(1), con la quale la Cassazione aveva ritenuto che, se l’amministrazione finanziaria non provvede al riesame di un atto illegittimo, il contribuente può chiedere (ed ottenere) dal giudice ordinario il risarcimento del danno, consistente nel rimborso delle spese legali che ha dovuto sostenere per ottenere dal giudice tributario l’annullamento dell’atto, inutilmente richiesto in via amministrativa.

 

Neminem laedere

L’espressione neminem laedere (non offendere nessuno) sintetizza il principio in base al quale tutti sono tenuti al dovere (generico) di non ledere l’altrui sfera giuridica.

Tale principio è posto a fondamento della responsabilità extracontrattuale per cui, chiunque ne viola il precetto, è obbligato al risarcimento del danno arrecato.

Esaminando in dettaglio l’art. 2043 del codice civile (“Qualunque fatto, doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), osserviamo innanzitutto che nella nozione di “fatto” deve ricomprendersi sia il comportamento (condotta) della persona che il danno cagionato, ma –soprattutto- nella nozione di “comportamento” deve farsi rientrare sia l’azione (che il soggetto avrebbe dovuto astenersi dal compiere), quanto un’omissione, sempre che l’autore avesse il dovere giuridico di agire e non l’ha fatto.

Il comportamento attivo o omissivo, inoltre, deve essere causa del danno ingiusto; in altri termini, il danno deve essere conseguenza immediata e diretta di tale comportamento. Occorre, quindi, in primo luogo accertare che esso non si sarebbe prodotto in assenza di quel comportamento, cioè che il secondo è condicio sine qua non del primo; occorre, poi, ulteriormente verificare che quel comportamento sia idoneo a produrre il danno secondo una valutazione in termini di modalità e adeguatezza e che il danno si configuri come conseguenza normale e naturale di quel comportamento.

Poste queste necessarie premesse, torniamo ai fatti di causa per valutare l’applicabilità o meno dell’art. 2043 c.c..

La vicenda processuale – peraltro del tutto simile alla precedente di cui alla sentenza 698/2010 – prende le mosse dalla notifica di quattro avvisi di accertamento, con richiesta di imposte, sanzioni ed interessi per un importo complessivo di € 5.971,50, successivamente iscritti a ruolo. Il contenzioso si instaura avverso la cartella esattoriale che lo stesso ufficio, in corso di causa tributaria, riconosce errata, provvedendo allo sgravio ed al rimborso di quanto erroneamente pagato.

Il contribuente, reputando di aver subito un ingiusto danno, si rivolge al Giudice di Pace il quale ravvisa nei fatti la violazione del principio del neminem laedere “risultando ovvio che, nel caso di specie, il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione, violando le più comuni regole di prudenza e di diligenza, ha causato un danno economico al G., che non può che essere risarcito”, condannando l’amministrazione al risarcimento del danno.

Ricorre per Cassazione l’Agenzia delle Entrate, sostenendo l’inapplicabilità del predetto principio alla P.A. e che, nella fattispecie,

“manca il carattere dell’ingiustizia del danno, in relazione al fatto che l’annullamento in autotutela non si configura quale obbligo bensì come mera facoltà dell’amministrazione, con le conseguenze che il privato non è titolare di alcuna posizione soggettiva in ordine al ritiro dell’atto in positivo”.

Respingendo l’interpretazione delle Entrate, la Corte sancisce – ancora una volta(2) – come l’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell’art. 2043 c.c.. Conseguentemente

 

“è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato da parte della stessa pubblica amministrazione un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e di tale principio”.

 

Il principio stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento è desumibile in via generale dai principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall’art. 97 Cost., peraltro richiamati dallo Statuto del contribuente ed ai quali anche il fisco non può sottrarsi.

Invece, torna di stretta attualità la problematica affrontata in occasione del commento alla sentenza n. 698/2010, concernente la conciliabilità del principio del neminem laedere in capo alla P.A. con la discrezionalità propria dell’istituto dell’autotutela, ormai pacificamente affermata anche dalla giurisprudenza di legittimità(3).

 
In altre parole: se la mancata autotutela configura danno risarcibile, il riesame amministrativo ha carattere obbligatorio?

 

Se la tesi della discrezionalità può sicuramente appellarsi al dato letterale della norma(4), è fuor di dubbio che tale discrezionalità deve pur sempre basarsi su argomentazioni squisitamente giuridiche e non certo riconducibili a valutazioni di comodo che lascerebbero prive di tutela giuridica le eventuali richieste del  cittadino. In tale ottica, la discrezionalità deve essere intesa come possibilità di scelta della soluzione più opportuna, previa attenta ponderazione degli interessi in gioco e, comunque, nel pieno rispetto dei diritti del contribuente, anche alla luce delle ulteriori tutele garantite dalla Legge n. 212/2000, che richiama l’attività dell’amministrazione finanziaria ai principi della buona fede e della collaborazione.

In ogni caso, la giurisprudenza di legittimità sembra ormai concorde nell’affermare che anche il principio del neminem laedere è applicabile “anche nel campo della pura discrezionalità” (Cass. n. 1191/2009, 7351/2003, 698/2010), così sgombrando il campo da inutili orpelli.

Pertanto, in base alla tutela generale in materia di risarcimento del danno e di illecito della Pubblica Amministrazione, le spese legali sostenute per ottenere giustizia “tributaria” possono ben costituire danno ingiusto risarcibile quando rappresentino una conseguenza del fatto illecito o colposo, secondo le comuni regole dell’accertamento del nesso causale (Cass. sent. n. 13801/2004).

In conclusione, per evitare di essere condannato al risarcimento del danno, occorrerà che il fisco tenga in debito conto i criteri di ragionevolezza, logicità e parità di trattamento fissati dal legislatore – costituzionale e non – per attuare comportamenti sempre irreprensibili, nell’assoluto rispetto delle norme di legge, ma anche con la sollecitudine indispensabile ad evitare ulteriori disagi ai cittadini.

 

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Note

1) FUSCONI, Risarcimento del danno da autotutela negata, in Commercialista telematico, marzo 2010.

2) Nello stesso senso, cfr. anche Cass. n. 1191/2003, n. 7531/2009 e S.U. n. 26108/2007. In particolare, nella sentenza n. 1191/2003, con la quale il fisco è stato condannato a risarcire i danni derivanti da un’iscrizione a ruolo illegittima, la Corte aveva già enunciato il medesimo concetto, ritenendo che, anche nel campo della pura discrezionalità, l’attività provvedimentale dovesse svolgersi svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma della norma primaria del neminem laedere, l’eventuale violazione può essere sindacata dal giudice onorario, chiamato ad accertare se vi sia stato, da parte della stessa amministrazione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo.

3) Cfr. sentenze Cass. n. 16776/2005 e n. 7388/2007 e commento di FUSCONI, Il contenzioso tributario chiude all’autotutela, in Boll. Trib. n. 5/2009, pagg. 421 e segg.. Il massimo organo di legittimità, nel confermare la competenza della giurisdizione tributaria in tema di rifiuto espresso o tacito di autotutela, ha qualificano come discrezionale il potere di riesame degli atti tributari, precisando che – in tali casi – il giudice deve limitarsi al solo controllo di legittimità del rifiuto, senza poter entrare nel merito della pretesa tributaria. Diversamente, “ci sarebbe una indebita sostituzione delle funzione giurisdizionale nell’attività amministrativa e un superamento dei limiti esterni della giurisdizione attribuita alle Commissioni Tributarie

4) L’art. 2, c. 1, del D.M. n. 37/1997 afferma testualmente che “L’Amministrazione Finanziaria può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione…”. La giurisprudenza di legittimità, pur qualificando come discrezionale il potere di riesame degli atti tributari, ha tuttavia introdotto un opportuno temperamento, precisando che, nell’eventuale contenzioso, il giudice deve limitarsi al solo controllo di legittimità del rifiuto, senza poter entrare nel merito della pretesa tributaria. I giudici di Piazza Cavour, infatti, con la con la sentenza n. 2870 del 6 febbraio 2009, hanno precisato che “avverso l’atto con il quale l’amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo… non è sicuramente esperibile una autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria, in questo caso, dell’attività di autotutela, sia perché, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo”. Di opposte vedute, invece, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti il quale, nella circ. n. 7/2008, ritiene che, trattandosi di attività vincolata, “in caso di diniego tanto espresso quanto tacito il giudice deve sostituirsi all’amministrazione e verificare la legittimità della pretesa tributaria alla luce degli elementi (in fatto e in diritto) fatti valere dal contribuente in sede di impugnativa del diniego. Diversamente, un controllo limitato alla sola legittimità del rifiuto di agire in autotutela, finirebbe per tradire la natura stessa del giudizio innanzi le Commissioni – le uniche in grado di accertare la non debenza del tributo – e, dunque, l’essenza stessa dell’istituto dell’autotutela”.

29 marzo 2011

Valeria Fusconi