L'azione di risarcimento del danno per comportamento illecito del Fisco

Ecco i presupposti perchè il contribuente possa avere diritto al risarcimento dei danni a seguito di un ingiusto contenzioso tributario.

Comportamento illecito del Fisco: la giurisdizione è del giudice ordinario

Contenzioso tributario e processo tributario, sentenze e ordinanzeNon è consentito al giudice tributario di accertare se vi sia stato da parte del concessionario o dell’ufficio un comportamento colposo tale che, in violazione della norma primaria del neminem laedere (art 2043 cc), abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo del contribuente.

La sola previsione degli altri accessori di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 546/1992 non è di per sé sufficiente a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice tributario anche alle controversie sul risarcimento del danno per comportamento illecito del Fisco o del concessionario; per accessori, infatti, si intendono gli aggi esattoriali, le spese di notifica, gli interessi moratori, e, al limite, il maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c. 2 c.c. (Cass. SS.UU., sentenza n. 14274 del 4 ottobre 2002).

La giurisdizione, in merito alla richiesta di risarcimento del danno (patrimoniale e non) appartiene al giudice ordinario.

Va ribadita la competenza del GO per l’azione di risarcimento danni, ex art. 2043 c.c. nei confronti del fisco, fermo restando che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice speciale, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cd. petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi ossia dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo alla sostanziale protezione accordata in astratto a quest’ultima dal diritto positivo.

La cognizione della domanda di risarcimento danni, per comportamenti illeciti dell’A.F. o di altri Enti impositori spetta all’autorità giudiziaria ordinaria non potendo tale controversia assumersi in una delle fattispecie tipizzate, di cui all’articolo 2 del D.lgs. n. 546/92, attributive della giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie (Cassazione Ss.Uu. sentenza n. 722/1999). Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 8958 del 2007, hanno statuito che la giurisdizione sulla proposta azione di risarcimento del danno per comportamento illecito dell’amministrazione finanziaria appartiene al giudice ordinario.

 

Presupposti

Ciò premesso, è evidente che l’Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, dal momento che è necessario che la stessa, nell’adottare l’atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione (Cass. Civ., Sez. I, Sent., 23-09-2011, n. 19458).

L’attività della fisco deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla nonna primaria del nemin laedere, per cui è consentito al giudice ordinario -al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato – accertare se vi sia stato da parte della stessa amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo.

I principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall’art. 97 Cost. impongono che il fisco è tenuto a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 cc. atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario (Cass. sez. un. sentenza n. 722/1999).

 

Esercizio vessatorio, pretestuoso e discriminatorio del potere pubblicistico

E’ necessaria la prova da parte dell’attore dell’elemento soggettivo ossia del dolo del funzionario o della colpa per violazione delle regole d’imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione; per giustificare il risarcimento è necessario un esercizio vessatorio, pretestuoso e discriminatorio del potere pubblicistico ovvero la mancanza di proporzionalità tra l’interesse perseguito e il sacrificio imposto ovvero l’intento elusivo di una norma o di una pronuncia giurisprudenziale.

Per qualificare l’illiceità della condotta e non la semplice illegittimità dell’atto occorre riscontrare sintomi di pretestuosità, vessatorietà, e discriminatorietà della condotta. La responsabilità risarcitoria del Fisco non deriva come mero automatismo dall’illegittimità dell’atto impositivo.

Spetta al giudice ordinario, pronunciarsi sulla domanda risarcitoria, a nulla rilevando il previo annullamento dell’atto impositivo illegittimo (cd. ripudio del rapporto di pregiudizialità tra annullamento dell’atto impositivo e risarcimento del danno); in particolare, è competente il giudice ordinario e non quello tributario a conoscere, ai sensi dell’articolo 2043 c.c., delle richieste di risarcimento dei danni patrimoniali ingiusti provocati al contribuente dal Fisco, a nulla rilevando che la condotta colposa si sia realizzata nell’ambito di vicende, legate da un rapporto tributario ormai esaurito.

L’azione di risarcimento del danno, ex articolo 2043 c.c. non è condizionata dalla necessaria preventiva risoluzione della controversia tributaria ma, piuttosto, è collegata alla condotta ed all’attività dolosa o colposa dei funzionari del Fisco.

Va riconosciuta piena autonomia all’azione di risarcimento del danno collegata alla condotta dolosa o colposa dei funzionari del fisco(1).

Il rapporto tributario ormai del tutto esaurito opera solo come sfondo e non assume alcuna connessione determinante rispetto alla richiesta di risarcimento dei danni.

Occorre accertare, sotto il profilo causale, tramite l’applicazione dei noti criteri (i.e. principio della causalità sufficiente o della causalità giuridica se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta omissiva o positiva – cd. nesso eziologico tra danno e comportamento illecito); il risarcimento non può essere accordato sulla base del mero riscontro della illegittimità dell’atto, poiché se non si prova l’illiceità la domanda di risarcimento non può essere accolta.

L’annullamento in autotutela dell’atto impositivo non esonera il Fisco dalla responsabilità aquiliana per i danni arrecati, comunque, in precedenza al contribuente.

La responsabilità aquiliana, ex articolo 2043 c.c., si distingue dalla responsabilità per lite temeraria ex articolo 96 c.p.c., giacché quest’ultima è speciale rispetto alla prima.

Il risarcimento del danno per fatto illecito è assoggettato alla prescrizione breve ex articolo 2947 c.c.

 

Indagini da svolgere in caso di ipotesi di danno da parte del Fisco

In definitiva, qualora sia stata dedotta davanti al giudice ordinario una domanda risarcitoria, ex articolo 2043 c.c., nei confronti del Fisco si deve procedere a svolgere le seguenti indagini:

1) occorre accertare la sussistenza di un evento dannoso;

2) occorre stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto per lesione del diritto soggettivo del contribuente;

3) occorre accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri (es. principio di causalità sufficiente o della causalità adeguata) se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta positiva od omissiva del Fisco (cd. nesso eziologico tra danno e comportamento illecito;

4) occorre stabilire se il detto evento sia imputabile a dolo o colpa del Fisco;

5) occorre appurare che è risarcibile il danno imprevedibile, qualora vi sia un comportamento doloso del funzionario del Fisco;

6) occorre appurare che le due componenti del danno siano, ai sensi dell’articolo 1225 c.c., la perdita subita e il mancato guadagno; è risarcibile anche il c.d. lucro cessante(mancato guadagno) ricorrendone i presupposti di legge;

7) al fine del riconoscimento del danno da lucro cessante occorre la dimostrazione del nesso di causalità; trattasi di un danno futuro e ,pertanto, l’accertamento va affidato a valutazioni presuntive (vd Cassazione sez. 2 sentenza n. 01443 del 30/01/2003), sulla base degli elementi offerti dall’interessato, avuto riguardo alla potenziale redditività di un’attività programmata con notevole impiego di capitali. La valutazione va compiuta, anche in via equitativa, avuto riguardo alla potenziale redditività di un’attività programmata;

8) occorre appurare che trovi applicazione l’articolo 1227 c.c., che sancisce la diminuzione del risarcimento in relazione all’eventuale concorso colposo del dannoso nel cagionare il danno, secondo la gravità della colpa e l’entità dei danni derivati, ed addirittura preclude il sorgere stesso del diritto al risarcimento, relativamente ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza;

9) occorre appurare che trovi applicazione il principio della compensatio lucri cum damno alla stregua del quale, nella determinazione del danno risarcibile, va tenuto conto degli effetti vantaggiosi direttamente derivanti dal medesimo fatto costitutivo del danno. Anche in materia tributaria risulta certamente applicabile il precetto contenuto nell’art. 28 della Costituzione, che sancisce la responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti. Vi è, quindi, una responsabilità degli agenti cui si accompagna quella solidale dell’Amministrazione di appartenenza.

 

 

Responsabilità solo per dolo o colpa grave

Le norme che hanno attuato la predetta disposizione hanno limitato la responsabilità degli impiegati ai casi di dolo o colpa grave, onde evitare una paralisi dell’azione amministrativa dovuta al timore dei dipendenti di incorrere in violazioni – seppur minime – dei diritti.

Tale limitazione opera anche in materia tributaria, dove potrebbero essere commessi errori (e, quindi, violazioni) in sede di accertamento e riscossione dei tributi, nonché in sede di autotutela. Il comportamento del funzionario potrà essere considerato ineccepibile laddove lo stesso provveda ad indicare, in sede di redazione del provvedimento, le ragioni di interesse pubblico che lo hanno indotto a porre in essere quel determinato comportamento.

Il contribuente che abbia subito un danno in conseguenza del comportamento del dipendente pubblico potrà esercitare la relativa azione risarcitoria nelle competenti sedi; in caso di condanna ed in presenza dei requisiti previsti dalla legge, l’Amministrazione finanziaria potrà chiedere al proprio impiegato la ripetizione delle somme corrisposte al cittadino. Gli articoli 28, 103 e 113 della Costituzione fissano il principio della responsabilità diretta della P.A. in virtù dell’immedesimazione organica del dipendente con la P.A… Trattasi di responsabilità solidale tra agente e p.a., tuttavia, del danno arrecato con colpa lieve risponde solo il Fisco.

La soccombenza nel giudizio di risarcimento(2), ex articolo 2043 c.c. può dare avvio alle procedure di responsabilità amministrativa dinanzi la Corte dei Conti per danno patrimoniale indiretto.

 

Danno non patrimoniale

Le SS.UU., con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11-11-2008), hanno proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell’art. 2059 c.c., ritenuto principio informatore del diritto, come tale vincolante anche nel giudizio di equità, da leggersi – non già come disciplina di un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c. – bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie), sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale è individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell’art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti reato od agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) o ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio consequenzialmente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e, cioè, superi la soglia minima di tollerabilità, imposto dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario).

 

NOTE

1) Secondo diverso orientamento (Tribunale ordinario di Roma sez. 2 civile, con sentenza n. 4635 del 2 luglio 2009), è necessario chiedere l’annullamento del provvedimento lesivo della sfera giuridica del contribuente prima di poter chiedere il risarcimento dei danni (i.e. per ingiusto ritardo nell’esecuzione di un rimborso; per chiusura del credito da parte delle banche; per spese di assistenza legale; per danno all’immagine ed alla reputazione professionale; per danno derivante dall’apertura di un procedimento penale ex D.lgs. n. 74/2000)

2) L’emissione di un avviso di accertamento illegittimo – successivamente rimosso per effetto dell’esercizio del potere di autotutela – comporta la responsabilità per l’Amministrazione finanziaria in relazione agli oneri sostenuti dal contribuente per la difesa tecnica. La sentenza della Cassazione – sezione prima (n. 21963 del 24 ottobre 2011) “addebita” i costi per la consulenza sostenuta dal contribuente, necessarie per ottenere l’annullamento dell’atto impositivo all’Agenzia delle entrate. Il caso: un contribuente, per ottenere l’annullamento di un atto ritenuto illegittimo in autotutela, sosteneva le spese di onorario per l’assistenza del suo commercialista.

In relazione a questa parcella, avendo anche avuto ragione sull’Agenzia, il contribuente si rivolgeva al giudice di pace per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali rappresentati proprio dal compenso pagato al commercialista. Vane sono state le eccezioni addotte dall’Agenzia in Cassazione; in merito all’autotutela sosteneva l’assenza di un obbligo per l’amministrazione di procedere in tale direzione, con la conseguente impossibilità di configurare una colpa dell’ufficio. La Corte ha respinto il ricorso dell’Agenzia evidenziando che non era in discussione il diritto del contribuente di ottenere l’autotutela, ma il danno patito dallo stesso per effetto dell’atto illegittimo; poiché per rimuovere tale provvedimento egli ha dovuto sostenere delle spese, chi ha cagionato tale danno (l’Agenzia) deve risarcirlo.

 

14 dicembre 2011

Antonio Terlizzi

 


Allegato

Cassazione Civile, sez. 1, Sent. n. 19458 del 23/09/2011

 

Svolgimento del processo

La s.p.a. L.V.T. conveniva il Ministero dell’economia e delle Finanze dinanzi al Tribunale di Firenze, esponendo che l’Ufficio delle Imposte Dirette di Piombino gli aveva notificato due avvisi di accertamento relativi agli esercizi sociali 1985 e 1986-1990, con i quali aveva rettificato il reddito dalla società dichiarato ai fini dell’imposta sui redditi delle persone giuridiche e dell’imposta locale sui redditi sul rilievo che il reddito relativo ad alcune villette di proprietà della esponente, ubicate all’interno di un villaggio turistico situato a (OMISSIS), dichiarato e tassato come reddito fondiario, dovesse essere qualificato e tassato come reddito di impresa; che detti accertamenti, con sentenza del 1 ottobre 1995, erano stati annullati dalla Commissione Tributaria di primo grado di Livorno, che aveva ritenuto che detti redditi fossero fondiari e non di impresa, che l’appello, proposto dall’Ufficio alla Commissione Tributaria Regionale di Firenze, era stato dichiarato inammissibile; che la decisione era passata in giudicato; che nelle more del giudizio l’Ufficio aveva provveduto ad iscrivere a ruolo un terzo dell’imponibile ed aveva notificato alla esponente due cartelle esattoriali del rispettivo importo di L. 279.572.534 e L. 478.508.826; che questa aveva provveduto a chiedere la sospensione della riscossione; che l’Ufficio aveva preteso, per addivenire alla sospensione della riscossione, la garanzia costituita da una iscrizione ipotecaria sui beni della società per un importo di L. 3.000.000.000, alla quale aveva provveduto sostenendo una spesa di L. 79.262.800.

Tanto premesso la società summenzionata chiedeva la condanna del Ministero convenuto al risarcimento dei danni nella misura di Euro 40.935,92 per le spese di iscrizione della ipoteca, oltre alle spese processuali sostenute in sede di giurisdizione tributaria.

Il Tribunale adito respingeva detta domanda.

Tale decisione veniva impugnata dalla s.p.a. Lazzi Vi. Tur dinanzi alla Corte d’Appello di Firenze, che, in riforma della impugnata sentenza, condannava il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento della somma di Euro 40.935,82, oltre interessi.

Avverso detta sentenza il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. La società summenzionata ha resistito con controricorso, depositando anche memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1;

violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e /o con riferimento all’art. 360, n. 1 e dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo i ricorrenti la proposta azione risarcitoria avrebbe dovuto essere fatta valere dinanzi alle Commissioni Tributarie nel giudizio relativo alla impugnazione degli avvisi di accertamento in base ai quali si era poi proceduto alla iscrizione ipotecaria. Il collegio osserva che detta questione è stata risolta dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, che con sentenza n. 8958 del 2007 hanno statuito che la giurisdizione sulla proposta azione di risarcimento del danno per comportamento illecito dell’amministrazione finanziaria appartiene al giudice ordinario.

Con detta sentenza la causa è stata rimessa poi alla sezione semplice per la decisione sul merito del ricorso.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1227 e 2043 c.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Secondo i ricorrenti la Corte d’Appello di Firenze non avrebbe tenuto ben presente che l’iscrizione provvisoria a ruolo del terzo dei tributi, di cui agli atti di accertamento, dopo la notifica di tali atti, era un atto dovuto D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 15, nella sua precedente formulazione, e che il comportamento dell’amministrazione volto ad adempiere un preciso obbligo di legge non potrebbe costituire al contempo elemento per determinare la sua colpa sotto altro profilo.

Qualora l’amministrazione agisce nel rispetto delle norme impostegli dall’ordinamento, in questo, nonostante l’iniziale errore, non potrebbe rinvenirsi alcun comportamento colposo.

Nè l’estremo della colpa potrebbe rinvenirsi nel semplice fatto che l’amministrazione non abbia ritenuto di condividere le ragioni rappresentate dal contribuente per una soluzione stragiudiziale della controversia.

Opinando diversamente si dovrebbe pervenire alla conclusione che, ogni volta che la controversia tra la P.A. ed il privato non si sia risolta “stragiudizialmente” ad abbia comportato la instaurazione di un procedimento giudiziario conclusosi poi con la vittoria del contribuente, la colpa dell’amministrazione sia in re ipsa nel fatto che il giudice abbia dichiarato l’illegittimità dell’atto sul quale è fondata la richiesta di risarcimento ex art. 2043 c.c..

Nè sarebbe possibile ravvisare l’estremo della colpa nel fatto che la amministrazione abbia preteso, al fine di sospendere la riscossione della imposta, la prestazione della garanzia ipotecaria, atteso che, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 39, nella sua precedente formulazione, la possibilità di sospendere il pagamento del tributo era rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione finanziaria. Pertanto pienamente legittima sarebbe stata la richiesta da parte dell’amministrazione della prestazione di idonea garanzia, anche in considerazione dell’elevato importo del credito tributario accertato, trattandosi di un operare corretto anche alla luce dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione. Il ricorso è fondato.

Il collegio osserva che l’amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell’adottare l’atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione.

Nel caso che ne occupa l’amministrazione finanziaria ha emesso gli avvisi di accertamento di cui in narrativa, ritenendo che il reddito relativo ad alcune villette della società resistente, poste all’interno di un villaggio turistico, che erano stati dichiarati e tassati come redditi fondiari, dovessero essere tassati invece come redditi di impresa. Gli avvisi di accertamento in via di rettifica sono scaturiti quindi da una diversa qualificazione giuridica data dall’ufficio finanziario al reddito summenzionato. Sulla base di tali atti l’ufficio ha subito iscritto a ruolo un terzo dei tributi ritenuti evasi, non ha dato corso alle reiterate richieste di annullamento di ufficio avanzate dalla società, attuale resistente, preferendo attendere la decisione delle Commissioni Tributarie di primo e secondo grado, che hanno annullato gli avvisi di accertamento in questione ed ha preteso per adottare il provvedimento di sospensione della riscossione dei tributi iscritti a ruolo, ovviamente prima della decisione di dette Commissioni, la concessione di una garanzia ipotecaria.

Giustamente i ricorrenti hanno evidenziato che la colpa dell’amministrazione finanziaria non può essere ravvisata nè nella iscrizione a ruolo del terzo dei tributi dovuti nè nella richiesta di concessione di una garanzia ipotecaria.

Effettivamente il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15 (recante la rubrica: iscrizioni a ruolo in base ad accertamenti non definitivi), nella formulazione vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che le imposte corrispondenti agli imponibili accertati dall’ufficio, ma non ancora definitivi, sono iscritte a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell’atto di accertamento, per un terzo dell’imposta corrispondente all’imponibile o al maggior imponibile accertato.

Tale iscrizione, come si evince dalla norma riportata, non rientra nell’ambito del potere discrezionale della amministrazione finanziaria, ma costituisce un atto dovuto.

Per quanto riguarda la richiesta della garanzia ipotecaria, accordata .dalla società con iscrizione di ipoteca sui beni della società per un importo di L. 3.000.000.000, il collegio osserva che tale garanzia fu chiesta dall’amministrazione finanziaria dato il rilevante importo dei tributi portati dalle due cartelle esattoriali, di cui in premessa, rispettivamente di L. 279.572.534 e L. 478.508.826; stando così le cose non si potrebbe rimproverare all’amministrazione finanziaria di avere violato i principi di legalità, di imparzialità o di buona amministrazione, avendo preteso una garanzia adeguata dato il notevole importo dei tributi sopra indicati.

Non si può poi rimproverare all’amministrazione di non avere dato seguito alle reiterate richieste di annullamento di ufficio degli atti impugnati dato il rilevante importo dei tributi, ritenuti evasi, ed in considerazione del fatto, che, essendo il contribuente una impresa commerciale, era necessario accertare incontrovertibilmente, attraverso la decisione del giudice, che il reddito derivante dalle villette in questione non costituisse reddito di impresa, la regola essendo che, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 40 (attualmente art. 43) relativo alle imposte sui redditi, non si considerano produttivi di reddito fondiario gli immobili relativi ad imprese commerciali.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può essere decisa nel merito con il respingere la domanda risarcitoria della s.p.a.

Lazzi Vi.Tur. La complessità della controversia giustifica la integrale compensazione delle spese processuali di tutti i gradi di giudizio.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda della L.V.T. s.p.a..

Compensa le spese di tutti i gradi di giudizio.