Lavoro nero: le sanzioni in materia di uso di lavoratori irregolari (lavoratori in nero) e gli organi competenti alla loro applicazione.
L’art. 36-bis, del D.L.n.223/2006, inserito dalla legge di conversione, n. 248/2006, al comma 7, lettere a) e b), ha modificato, a far data dal 12 agosto 2006, data di entrata in vigore della legge di conversione, rispettivamente, i commi 3 e 5 dell’art. 3 del D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2002, n.73.
Le modifiche apportate interessano le sanzioni in materia di utilizzazione di lavoratori irregolari e quelle concernenti gli organi competenti alla loro applicazione:
- per effetto della prima modifica, la sanzione prevista dal citato comma 3 per l’utilizzo di lavoro irregolare non è più fissata in misura proporzionale (“… dal 200 al 400 per cento dell’importo, per ciascun lavoratore irregolare, del costo del lavoro calcolato sulla base dei vigenti contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione”), ma quantificata in un una somma che varia “…da euro 1.500 a euro 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di euro 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo”.
Come indicato dagli estensori della circolare n.28/2006, “la nuova misura sanzionatoria non appare più commisurata al costo del lavoro calcolato per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione della violazione, ma è determinata in misura fissa, maggiorata di 150 euro per ogni giornata di lavoro effettivo”.
La modifica introdotta, in pratica, si adegua al principio stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 12 aprile 2005, n.144 che aveva dichiarato incostituzionale l’art.3, comma 3, del D.L. n. 12 del 2002, nella parte in cui non ammetteva la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare avesse avuto inizio successivamente al 1° gennaio dell’anno nel quale è stata constatata la violazione; - la successiva lettera b) del comma 7 dell’art. 36-bis ha invece modificato il comma 5 dell’art.3 del D.L. n. 12 del 2002, norma che affidava l’irrogazione della sanzione amministrativa all’Agenzia delle Entrate. Di conseguenza, l’eventuale contenzioso riguardante il provvedimento sanzionatorio ricadeva automaticamente nell’ambito della giurisdizione delle Commissioni tributarie, posto che, secondo l’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, così come modificato dall’art. 12, comma 2, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, essa comprende “… tutte le controversie aventi ad oggetto … le sanzioni amministrative, comunque irrogate da Uffici finanziari …”. in materia fiscale, contributiva e del lavoro”.
Nessuna modifica è stata, invece, apportata al comma 4 del predetto articolo 3, in base al quale
“alla constatazione della violazione procedono gli organi preposti ai controlli in materia fiscale, contributiva e del lavoro”.
Successivamente, l’art. 1, comma 54 della legge 24 dicembre 2007, n. 247, ha modificato l’art. 36-bis del citato DL n. 223 del 2006, inserendo il comma 7-bis, in base al quale
“l’adozione dei provvedimenti sanzionatori amministrativi di cui all’art. 3 del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73, relativi alle violazioni constatate prima della data di entrata in vigore del presente decreto, resta di competenza dell’Agenzia delle entrate ed è soggetta alle disposizioni del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e successive modificazioni, ad eccezione del comma 2 dell’articolo 16”.
Inoltre, l’art. 7, comma 1 del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, ha disposto la proroga del termine al 30 giugno 2008, per la notifica dei provvedimenti sanzionatori amministrativi, relativi alle violazioni constatate fino al 31 dicembre 2002.
Infine, la materia è stata recentemente rivisitata da un nuovo intervento della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 130 del 14 maggio 2008, ha dichiarato
“l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 …, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria”.
Le prime istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 35/E del 30 maggio 2007 sono ritenute oggi superate dalla stessa Amministrazione finanziaria, che con il documento di prassi n. 56/E del 24 settembre 2008 fornisce nuove indicazioni.
In questo nostro intervento sintetizziamo l’articolato documento appena pubblicato.
Organo competente all’irrogazione delle sanzioni
Sulla base delle diverse modifiche normative intervenute, a far data dal 12 agosto 2006, l’organo deputato all’irrogazione delle sanzioni è la Direzione provinciale del lavoro.
Invece, la competenza ad irrogare le sanzioni amministrative conseguenti a violazioni constatate fino all’11 agosto 2006 è attribuita all’Agenzia delle entrate.
Criteri di commisurazione della sanzione
Come abbiamo visto, la sanzione prevista per l’utilizzo di lavoro irregolare non è più fissata in misura proporzionale ma quantificata in un una somma variabile.
L’applicabilità del principio del favor rei – art. 3, comma 3, del D. Lgs. n. 472/97 – deriva dal rinvio operato al D. Lgs. n. 472/97 (con l’unica esclusione della preventiva notifica dell’atto di contestazione).
Tale norma prevede che
“Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo”.
Il principio del favor rei, al di là dell’ipotesi di deroga legislativa, trova un limite, come indicato nell’art. 3, comma 3 del D. Lgs. n. 472 del 1997, soltanto nel caso in cui il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo.
In sintesi, con riferimento alle violazioni constatate in data anteriore al 12 agosto 2006, può verificarsi che:
- la sanzione non sia stata ancora irrogata;
- la sanzione sia stata irrogata, ma il provvedimento non sia ancora divenuto definitivo;
- la sanzione sia stata irrogata con provvedimento divenuto definitivo.
Nel caso sub a) va irrogata la sanzione più mite.
Nel caso sub b) la misura della sanzione va ridotta in conformità alla previsione più favorevole, con diritto alla restituzione di quanto eventualmente già pagato in eccedenza.
Nel caso sub c) la sanzione irrogata secondo la previsione meno favorevole rimane dovuta.
La circolare evidenzia che la Corte di cassazione, con la recente sentenza n. 9217 del 9 aprile 2008, ha affermato che le disposizioni dell’art. 3, comma 3 del D. Lgs. n. 472 del 1997 comportano
“che – salvo che il caso d’intervenuta definitività del provvedimento sanzionatorio – le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute devono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, pure in sede di legittimità, atteso che, nella valutazione del legislatore, in ogni altro caso, la natura e lo scopo squisitamente pubblicistici del principio del favor rei devono prevalere sulle preclusioni derivanti dalle ordinarie regole in tema d’impugnazione” (cfr. anche n. 18664 dell’8 luglio 2008).
Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che l’applicabilità, anche d’ufficio, del principio del favor rei
“non esclude il dovere della parte di allegare e, se necessario, provare la sussistenza dei fatti costitutivi e/o eventualmente modificativi, ovvero estintivi, necessari per la concreta applicazione di dette norme, non potendo il giudice introdurre nella controversia, di sua iniziativa, elementi di fatto diversi da quelli allegati e provati dalle parti”(Cass. n. 25734 del 10 dicembre 2007).
Riscossione delle sanzioni irrogate dall’Agenzia delle entrate
In ordine alla riscossione delle sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate, le Entrate ripercorrono il tortuoso iter legislativo e giungono alla seguente conclusione: la competenza conferita agli uffici finanziari riguarda l’intero procedimento di irrogazione della sanzione e di riscossione della stessa.
Ne deriva che, nelle ipotesi di sanzioni irrogate per violazioni constatate prima del 12 agosto 2006, gli Uffici dell’Agenzia delle entrate restano competenti ad effettuare l’iscrizione a ruolo delle relative somme.
Giurisdizione sulle controversie in materia di sanzioni irrogate dall’Agenzia delle entrate
Le Entrate, dopo aver ripercorso compiutamente i diversi orientamenti giurisprudenziali, affermano che in punto di giurisdizione e di relativo procedimento contenzioso, risultano applicabili le disposizioni stabilite dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 689 del 1981.
Pertanto, l’Autorità giudiziaria cui spetta la cognizione delle controversie concernenti le sanzioni in esame va individuata, a norma degli artt. 22, primo comma e 22-bis, secondo comma della legge n. 689 del 1981, nel Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione.
Ne consegue che il giudizio innanzi al Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione si introduce mediante ricorso, da proporre nel termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento (ovvero di sessanta giorni, se l’interessato risiede all’estero).
Il ricorso avverso i provvedimenti di irrogazione delle sanzioni in esame va proposto nei confronti dell’Ufficio locale che ha emesso l’atto impugnato.
Depongono in tal senso sia il disposto normativo di cui all’art. 23 della legge n. 689 del 1981, che reca testuale riferimento all’“autorità che ha emesso l’atto impugnato”, sia la giurisprudenza di legittimità.
Rappresentanza e difesa in giudizio
In base al quarto comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981, in primo grado le parti possono stare in giudizio direttamente, senza il patrocinio di avvocati; in particolare, “l’autorità che ha emesso” il provvedimento impugnato “può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati”.
In definitiva, nei procedimenti in questione gli Uffici locali passivamente legittimati in primo grado possono stare in giudizio direttamente ovvero avvalersi della rappresentanza e difesa dell’Avvocatura dello Stato.
Nei giudizi in esame trova applicazione la sospensione feriale dal 1° agosto al 15 settembre di ciascun anno, prevista dall’art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742.
Strumenti probatori
A differenza che nel giudizio tributario – in cui, ai sensi del comma 4 dell’art. 7 del D. Lgs. n. 546 del 1992, non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale, nel corso del giudizio di opposizione regolato dall’art. 23, comma 5, della legge n. 689 del 1981, “il giudice dispone, anche d’ufficio, i mezzi di prova che ritiene necessari e può disporre la citazione di testimoni anche senza la formulazione di capitoli”.
Gli estensori del documento di prassi rilevano che va
“accuratamente valutata l’attendibilità dei testimoni di cui intende valersi l’autore della violazione, anche sotto l’aspetto di significativi legami – non solo di parentela – intercorrenti con lo stesso, alla stregua dei principi desumibili dalla giurisprudenza di legittimità”,
secondo cui
“in tema di prova testimoniale, l’insussistenza, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 248 del 1974 (concernente illegittimità costituzionale dell’articolo 247 del codice di procedura civile, n.d.r.), del divieto di testimoniare sancito per i parenti e per gli altri soggetti indicati dall’art. 247 c.p.c. rende bensì impossibile un’aprioristica valutazione di non credibilità delle disposizioni rese dalle persone menzionate in tale norma (non avendo evidentemente senso, in caso contrario, l’eliminazione del divieto stesso), ma non esclude che il vincolo di parentela possa, in concorso con ogni altro utile elemento, essere considerato al fine della verifica della maggiore o minore attendibilità delle deposizioni stesse (Cass. 18 aprile 1994 n. 3651);” (cfr. Cass. n. 1632 del 14 febbraio 2000; conforme: Cass. n. 17384 del 30 agosto 2004).
Si richiama, infine, l’attenzione sulla disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 23 in commento, in base al quale “Il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente”.
Ne deriva che
“gli Uffici devono prestare particolare cura nell’assolvimento dell’onere probatorio, sviluppando dettagliatamente tutti i motivi idonei a dimostrare l’avvenuta violazione, esibendo la relativa documentazione ed avvalendosi dei mezzi di prova ammessi nel giudizio innanzi al Tribunale. In particolare, deve essere adeguatamente valutata la sostenibilità, sotto l’aspetto probatorio, dei rilievi contenuti nel verbale di constatazione della violazione”.
Impugnabilità della sentenza emessa dal Tribunale
La sentenza emessa dal Tribunale è impugnabile innanzi alla “corte di appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza” (art. 341 del codice di procedura civile).
Ai fini della decorrenza del termine “breve” di trenta giorni per la proposizione dell’appello, la notifica della sentenza deve essere effettuata presso l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate, ogniqualvolta questo non si sia avvalso della rappresentanza in giudizio dell’Avvocatura dello Stato.
Diversamente, nelle ipotesi in cui l’Agenzia si sia avvalsa del patrocinio dell’Organo legale, la notifica deve essere effettuata presso l’Avvocatura (cfr., tra le tante, Cass. n. 4936 dell’8 marzo 2006).
Prudenzialmente, osserva la circolare n. 56/2008, il predetto termine breve di impugnazione va rispettato anche nei casi in cui la notifica della sentenza dovesse risultare viziata.
Nel giudizio d’appello l’Agenzia deve essere rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato, tenuto conto che la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981 consente all’opponente ed all’autorità che ha irrogato la sanzione di stare in giudizio direttamente con esclusivo riferimento alla fase di impugnazione innanzi al Tribunale.
Controversie pendenti
Per i giudizi pendenti innanzi alle Commissioni tributarie, instaurati antecedentemente alla data da cui decorrono gli effetti della predetta sentenza della Consulta (vale a dire i giudizi instaurati anteriormente al 22 maggio 2008), le Entrate, in forza dell’efficacia retroattiva della sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 2008, escludono l’operatività della c.d. perpetuatio jurisdictionis prevista dall’articolo 5 del codice di procedura civile, secondo cui
“La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo”.
Pertanto, nelle controversie di cui si tratta risulta applicabile la c.d. translatio iudicii, ciò comporta che – a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione pronunciata dalla Commissione tributaria presso cui pende il giudizio instaurato prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 130 del 2008 – il processo possa essere riassunto innanzi al Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione entro il termine indicato dal Giudice a quo o, in mancanza, entro il termine di sei mesi di cui al primo comma dell’art. 50 del codice di procedura civile.
Se la riassunzione non avviene nei termini predetti, il processo si estingue (artt. 50, secondo comma e 307, terzo comma del codice di procedura civile).
Ciò posto, con riferimento alla gestione del contenzioso pendente in materia, gli Uffici deducono il difetto di giurisdizione qualora non sia ancora intervenuta la sentenza di primo grado, fermo restando che tale difetto va rilevato d’ufficio dal Giudice secondo quanto disposto dall’art. 3, comma 1 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
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A cura di Concetta Pagano