L’interpello ordinario all’Agenzia delle Entrate: problematiche e ipotesi

L’istituto dell’interpello, esteso dallo «Statuto del contribuente» (art. 11, L. 212/2000) a tutti i casi in cui emergano difficoltà interpretative riferibili all’attuazione delle norme tributarie, si situa nella linea del pieno e «consapevole» recepimento, da parte del legislatore fiscale, dei principi di correttezza, di buona  fede e di tutela dell’affidamento. 
Inoltre, esso consente agli intermediari di svolgere una qualificata funzione di filtro e di primissima analisi delle problematiche  sottoposte e, infine, all’Amministrazione, di migliorare qualitativamente la propria attività e di risolvere all’origine moltissime questioni potenzialmente generatrici di contenzioso.

A tale proposito, può essere osservato che la funzione interpretativa delle norme e di risoluzione della fattispecie concreta è estremamente delicata, e ciò giustifica anche la preoccupazione per il coordinamento e l’uniformità dei pareri resi, compiti dei quali è investita – nell’Agenzia delle Entrate – la Direzione Centrale Normativa e Contenzioso.

Interpello all’Agenzia Entrate:  riscontri normativi e di prassi

L’interpello ordinario trova la propria fonte normativa primaria di riferimento nell’ art. 11 della L. 212/2000, mentre le relative norme secondarie sono contenute nel decreto ministeriale 26.4.2001, n. 209, il quale ha specificato le modalità attuative dell’istituto, premettendo che

«non è opportuno accogliere l’indicazione del Consiglio di Stato relativa alla possibilità di presentare l’istanza di interpello anche dopo che il contribuente ha dato attuazione alla norma controversa, atteso che il mantenimento del carattere preventivo dell’interpello consente di non confliggere con la disciplina del ravvedimento operoso» (1).

Dopo la C.M. 18.5.2000, n. 99, che ha tracciato i fondamentali confini tra attività di consulenza e di assistenza, il primo atto di interpretazione ufficiale a portata generale sull’interpello è costituito dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate 31.5.2001, n. 50 (istruita ed emanata dalla Direzione Centrale Normativa e Contenzioso che, allo stato attuale, rappresenta – nell’Agenzia delle Entrate – l’articolazione organizzativa competente a livello nazionale in tema di interpretazione delle norme giuridiche tributarie)

La successiva circolare 16.5.2005, n. 23/E, ha ulteriormente puntualizzato i caratteri e le modalità di svolgimento di quella che è divenuta un’attività ordinaria di consulenza approfondita «di massa», imponendosi di fronte alla platea dei contribuenti (privati, professionisti e imprese) come un settore emergente nell’ambito dei rapporti con il Fisco.

Natura dell’interpello ordinario: assistenza, consulenza e controllo

Tra le molteplici attività svolte dall’Agenzia delle Entrate (allo stato, il massimo «ente della fiscalità»), l’interpello ordinario sembra possedere uno statuto ibrido, tra attività di assistenza (volte a garantire il corretto adempimento degli obblighi fiscali «facilitando» i compiti che i contribuenti spontaneamente intendono assumersi, in attuazione di norme giuridiche e delle istruzioni fornite dall’Amministrazione) e attività di controllo (finalizzate soprattutto alla deterrenza rispetto ai comportamenti evasivi/elusivi/fraudolenti, compito nell’esecuzione del quale – evidentemente – il Fisco si atteggia a «controparte», e non certo a «collaboratore», dei contribuenti).

Esso è parte in verità, dal punto di vista dell’Amministrazione, di quelle funzioni di «presidio giuridico» che trovano la loro esplicazione sia al livello dell’interpretazione delle norme (appunto, con l’interpello, ma anche con l’attività di redazione di circolari interpretative, curata dagli organi centrali), sia a quello, più operativo, della difesa dell’Agenzia in sede giudiziale.

Dal punto di vista della collocazione dell’interpello nel complesso delle attività svolte dall’Agenzia, va evidenziato che (escludendo la fase del contenzioso) l’attività dell’Amministrazione si «triplica», potendosi ravvisare in essa:

  • un «assistente» fiscale, pronto a fornire ogni tipo di informazione ed esplicazione rispetto all’attuazione delle norme e agli orientamenti consolidati, in sede di predisposizione ed invio delle dichiarazioni, di versamento, etc., con la possibilità di «erogare» chiarimenti anche a mezzo di call centers, avvisi su Internet, SMS ed altri mezzi «innovativi»;
  • un «consulente» fiscale, al quale possono rivolgersi sia gli uffici dell’Amministrazione stessa, o di altre Amministrazioni Pubbliche, sia i contribuenti, per richiedere la risoluzione di problemi giuridico-interpretativi, ovvero la risposta «ufficiale» rispetto a determinate questioni da appurarsi «in punto di fatto»;
  • un «controllore» fiscale, in grado di contestare i comportamenti evasivi, elusivi e fraudolenti, procedendo alla formulazione di rilievi e al successivo recupero a imposizione attraverso atti impositivi, nonché all’irrogazione di sanzioni, e financo di collaborare con la Guardia di Finanza e con l’Autorità Giudiziaria nel contrasto a determinate tipologie di crimini economici.

Come risulta dalle indicazioni ufficiali dell’Agenzia delle Entrate, la possibilità di comunicare tra le prime due funzioni (assistenza e consulenza) è pressoché «ordinaria», mentre il Fisco «controllore» dovrebbe funzionare senza ricevere sollecitazioni o «segnalazioni» dal Fisco «consulente» (o «assistente»?), per non violare – sostanzialmente – il rapporto di fair play che è il presupposto per l’applicazione dell’art. 11 dello «Statuto».

Questo, naturalmente, se non è il contribuente a violare per primo tale presupposto, realizzando un utilizzo non trasparente dell’istituto dell’interpello, ricercando la possibile «validazione» di un comportamento fiscalmente illecito.

Secondo la menzionata circolare 23/E/2005, le istanze di interpello ex art. 11, L. 212/2000, devono essere redatte in carta libera e «non richiedono l’adozione di forme o formulazioni solenni». In ciò, l’interpello dichiara la propria natura «non contenziosa», e rifiuta le formule «sacramentali», evidentemente, perché esse non gli sono necessarie, e soprattutto perché non era interesse del legislatore di complicare le modalità pratiche di attivazione dell’interpello, ossia di un istituto sorto proprio nella prospettiva di evitare molte di quelle vertenze sorte tra contribuenti e Amministrazione che avevano alimentato un pletorico contenzioso tributario.

In particolare, non è necessario che il contribuente dichiari espressamente l’intento di avvalersi dell’interpello, ma, secondo l’Agenzia, rileva solamente la volontà di «inoltrare per iscritto … istanze… concernenti l’interpretazione delle disposizioni tributarie».

L’interpello ordinario nell’art. 11 dello Statuto del Contribuente

Secondo l’art. 11, co. 1, L. 212/2000, nel testo vigente a decorrere dall’1.8.2000, ciascun contribuente è abilitato a inoltrare per iscritto all’Amministrazione finanziaria, che deve rispondere entro 120 giorni,

«circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse.

La presentazione dell’istanza non ha effetto sulle scadenze previste dalla disciplina tributaria».

Lo scarno inciso normativo, successivamente specificato sia dal regolamento di attuazione, sia delle circolari dell’Amministrazione, racchiude in sé numerose problematiche, delle quali si cercherà di render conto.

Innanzi tutto, la norma primaria – così come pure il regolamento di attuazione – si rivolge, evidentemente, a tutte le articolazioni dell’«Amministrazione finanziaria», anche se le problematiche di maggior rilievo, alla luce dell’importanza dei tributi amministrati e delle funzioni assegnate, sono quelle ascrivibili all’area di competenza  dell’Agenzia delle Entrate.

4.  I termini per la risposta

L’Amministrazione – ossia l’Agenzia delle Entrate, ma anche le altre Agenzie fiscali, nonché gli altri enti impositori (come le regioni e gli enti locali) – sono tenuti a rispondere alle istanze di interpello ordinario entro 120 giorni, e la violazione di tale obbligo solo in parte derogabile, è sanzionata attraverso la produzione di effetti specifici «a danno» della parte pubblica e a vantaggio del contribuente.

Il silenzio è insomma «significativo», sicché, se l’Amministrazione omettesse la risposta, l’interpellante potrebbe dar corso al comportamento specificamente prospettato nell’istanza.

È evidente che anche in relazione a tale aspetto potrebbero sorgere problematiche interpretative: dovrebbe infatti trattarsi dell’omessa risposta in relazione a una questione chiara e incontrovertibile, altrimenti l’ente impositore avrebbe margine per disconoscere gli effetti indicati, «svincolando» quindi l’attività di accertamento e controllo.

Analogamente, i contribuenti e l’Amministrazione dovranno porre specifica attenzione alle eventuali domande contenute all’interno del quesito principale, ovvero, nel caso di interpelli «plurimi», contenenti più quesiti, alla puntuale risposta fornita (od omessa) in relazione ad ogni quesito.

Un aspetto che merita qui porre in evidenza riguarda la «tempistica» dell’istanza e della risposta, in quanto incidente sulle ordinarie scadenze fiscali e sulle aspettative dei contribuenti.

È chiaro infatti che, se il comportamento prospettato (ad esempio, il realizzo di una plusvalenza da cessione di partecipazioni con riferimento alla quale è invocato il trattamento di parziale esenzione, ex art. 87 del TUIR) è destinato a realizzarsi nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale, l’interesse del contribuente ad ottenere una risposta positiva potrebbe venir meno se il decorso dei 120 giorni (eventualmente prorogabili, in caso di integrazione documentale, fino a giungere a 240 giorni complessivi) comportasse la comunicazione del parere dopo la scadenza dei termini prescritti per il dichiarativo.

A tale proposito – atteso che, comunque, il requisito della preventività dell’interpello deve sussistere al momento della presentazione dell’istanza, e non quando è emanato il parere – potrebbero verificarsi le seguenti circostanze:

  • contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha attuato il comportamento prospettato prima di ricevere il parere positivo della direzione regionale;
  • contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha attuato il comportamento prospettato prima di ricevere il parere negativo della direzione regionale;
  • contribuente che ha presentato l’istanza di interpello e ha prudenzialmente attuato un comportamento per sé più svantaggioso, ma poi riceve un parere positivo dall’Amministrazione (troppo tardi rispetto alle ordinarie scadenze fiscali).

Mentre nella prima ipotesi, chiaramente, non sussisterebbero problemi quanto alle conseguenze del comportamento dell’istante, difforme rispetto all’interpretazione del Fisco, nella seconda ipotesi il contribuente potrebbe temere di aver innescato un’attività di controllo, «autodenunciandosi» di fronte agli uffici.

Tale timore non dovrebbe però aver fondamento, dato che l’attività consulenziale dell’Amministrazione (e dell’Agenzia delle Entrate in particolare) tende a tenersi ben distinta e indipendente rispetto a quella di controllo, e quindi in nessun modo suscettibile di incidere sui piani di controllo elaborati dalle strutture operative.

Nella terza ipotesi, infine, il contribuente temeva una posizione restrittiva da parte dell’Amministrazione, ma invece, innescando la procedura di interpello, ha ricevuto una risposta a sé favorevole.

In tale situazione, la dichiarazione potrebbe essere già stata presentata e le maggiori imposte già assolte: si tratterebbe dunque di rettificare tali adempimenti, per far valere i benefici concessi dall’interpello positivo.

Il carattere «circostanziato e specifico» dell’istanza

L’istanza dev’essere «circostanziata», e dunque recare tutte le indicazioni che, in punto di fatto e di diritto, necessitano alla direzione regionale o centrale per procedere all’istruttoria e alla successiva emanazione del parere.

Soprattutto, atteso che comunque l’Agenzia fiscale può sopperire alla mancanza di informazioni sulle norme che si ritengono applicabili, un’istanza di interpello carente della descrizione del fatto relativamente al quale è chiesto di conoscere l’orientamento «ufficiale», può prestarsi a immaginabili difficoltà di trattazione, o persino a una pronuncia di inammissibilità.

Infatti, l’interpello ha la caratteristica di produrre un parere che vincola i controlli fiscali, e quindi si «consolida» nei confronti dell’Amministrazione; ma il parere riguarda il caso specificamente prospettato, e quindi sarebbe improduttivo – o, peggio, utilizzabile strumentalmente, perché riferito a una fattispecie vaga e indefinita -, nel caso in cui la situazione dell’istante non fosse chiaramente esposta (eventualmente, anche con il supporto della documentazione ritenuta utile dallo stesso interpellante, o richiesta dalla direzione).

Inoltre, l’istanza dev’essere «specifica», ossia riferita alla particolare situazione – o alle particolari situazioni – relativamente alle quali è proposto interpello. Non è espressamente esluso l’interpello «plurimo», contenente più domande, ma – evidentemente – su ciascuna domanda l’interpellante avrà l’onere di esplicare, documentare, argomentare, e prospettare la relativa soluzione.

L’obbligo di redigere un’istanza circostanziata e specifica appare finalizzato, sostanzialmente, a circoscrivere l’area tematica sulla quale la direzione andrà a rispondere e quindi, in definitiva, ad evitare «ultrapetizioni» od «extrapetizioni», dalle quali potrebbero sorgere ulteriori incertezze od utilizzi strumentali dei pareri resi.

Gli effetti della risposta dell’Amministrazione Fiscale

Il co. 2 dell’art. 11 dispone che la risposta resa dall’Amministrazione finanziaria (e, quindi, dalle Agenzie Fiscali, nonché dalle regioni, dagli enti autonomi territoriali e da tutti gli enti impositivi, che hanno pure la facoltà di «esternalizzare» tale funzione affidandola ad altri enti, attraverso convenzioni specifiche) dev’essere «scritta e motivata», e

«vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente».

La forma scritta è, evidentemente, l’unica garanzia a fronte della possibilità di «dispersione» cui qualsivoglia «consulenza» non formalizzata e procedimentalizzata – ad esempio, telefonica – sarebbe soggetta. Occorre, insomma, la «prova» e la «traccia» del parere, e (ciò che è implicito) anche la permanenza degli atti istruttorii, come la stessa istanza, le richieste di integrazione documentale, gli eventuali carteggi tra direzioni regionali e centrale, etc.

Naturalmente, la spiccata informatizzazione della procedura per la gestione delle istanze comporta anche che, ormai, pressoché tutta l’attività di consulenza fiscale resa dall’Amministrazione (e in particolare dall’Agenzia delle Entrate) è registrata in un ponderoso archivio informatico, utile soprattutto a guidare i nuovi orientamenti interpretativi dell’Amministrazione stessa.

Il vincolo nei confronti dell’Amministrazione è costituito – ciò che sarà ribadito in altri termini dal decreto attuativo – solamente con riferimento all’interpellante (ovvero al contribuente nel cui interesse è presentata l’istanza dagli altri soggetti eventualmente a ciò abilitati secondo la normativa) e alla questione specifica che è oggetto dell’istanza.

L’interpello si pone insomma, in linea di principio, come una risposta specifica a una domanda specifica, e la domanda, come avviene per le pronunce giurisdizionali, circoscrive l’ambito stesso della risposta.

Tale caratteristica di «specificità» spicca particolarmente se si considerano le differenze tra l’interpello ordinario e l’interpello antielusivo: mentre, infatti, quest’ultimo è orientato a cogliere la componente «artificiosa» e «maliziosa» di comportamenti coordinati posti in essere da più soggetti, in un contesto dinamico, l’interpello ex art. 11, pur potendosi esercitare su un più ampio campo applicativo, può conoscere solamente la «fotografia» di un determinato comportamento, ossia ciò che il contribuente vuol far conoscere all’Amministrazione, omettendo il «prima» e il «dopo», nonché i «dintorni» del comportamento prospettato.

L’art. 5, co. 1, del decreto ministeriale, dispone che la risposta resa dall’Amministrazione

«ha efficacia esclusivamente nei confronti del contribuente istante, limitatamente al caso concreto e personale prospettato nell’istanza di interpello».

Tale puntualizzazione vale a eslcudere, dal punto di vista formale, ogni produzione di effetti propri dell’interpello nei confronti di soggetti terzi, ovvero dello stesso istante, con riferimento ad altre circostanze passate, presenti o future, non comprese nella situazione prospettata nell’istanza (fatta salva, evidentemente, la possibilità di presentare un’altra istanza specifica e personale).

Risulta chiaro che la diffusione del parere – non ad opera dell’Amministrazione ma degli interpellanti o dei loro consulenti (motivatamente «censurata», peraltro, dalla circolare 23/E/2005) – potrebbe ingenerare nei terzi la fondata aspettativa in pronunce successive coerenti con il primo parere reso; è altresì chiaro che il medesimo istante potrebbe essere «tentato» di utilizzare il parere ricevuto oltre i limiti della risposta redatta dall’Amministrazione, magari anche opponendolo agli uffici in sede di contraddittorio o contenziosa.

Per tali motivi, le risposte dell’Amministrazione devono essere quanto più possibile mirate, ed eventualmente contenenti vincoli, precisazioni, etc., in grado di subordinare la risposta positiva alla ricorrenza di determinate circostanze di fatto.

Tale efficacia si estende anche ai comportamenti successivi del contribuente che siano riconducibili alla fattispecie oggetto di interpello, fatta salva la possibilità di rettifica della soluzione interpretativa da parte dell’Amministrazione.

L’interpello individua quindi, in relazione a un caso specifico, la «norma del caso concreto», che, nell’ambito della procedura di ruling, consente ai contribuenti di ottenere delle «linee-guida» cui riferirsi anche in futuro (a titolo esemplificativo, si pensi a un’impresa che abbia ottenuto dall’Agenzia delle Entrate una parere positivo relativamente all’emissione delle fatture esponendo l’aliquota IVA ridotta del 4% anziché quella ordinaria: per quanto stabilito dal decreto in esame, non sarà necesaria la presentazione di successivi interpelli, perché ogni fattura per le operazioni considerate potrà essere emessa ad aliquota ridotta).

La particolare valenza attribuita al silenzio dell’Amministrazione fa sì che, ai sensi del co. 2 dell’art. 5 del decreto, se la risposta dell’ufficio su istanze ammissibili e recanti l’indicazione della soluzione interpretativa non perviene al contribuente entro il termine di 120 giorni (eventualmente prorogabile), la mancata risposta può essere fatta valere come assenso rispetto al comportamento prospettato dal richiedente.

L’effetto più rilevante dell’interpello ordinario, che è causa dell’appeal dell’istituto presso i contribuenti, risiede nella sanzione di nullità che colpisce gli atti amministrativi, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, che siano difformi rispetto alla risposta fornita dall’ufficio, ovvero dell’interpretazione sulla quale si è formato il silenzio assenso.

Anche a tale riguardo, considerando il carattere specifico e circoscritto delle questioni sulle quali può vertere l’istanza, sia per i contribuenti, sia per gli uffici, occorre prestare una particolare attenzione rispetto alla reale estensione dell’interpretazione fornita dal Fisco.

Secondo il co. 3 dell’art. 5, l’Amministrazione non perde tuttavia la facoltà di pronunciarsi diversamente dopo l’emanazione di un particolare parere, dato che può essere fornita:

  • una risposta diversa da quella data in precedenza;
  • una risposta oltre il termine di cui all’art. 4, co. 1.

In tali ipotesi, però, «l’ufficio recupera le imposte eventualmente dovute ed i relativi interessi, senza la irrogazione di sanzioni, a condizione che il contribuente non abbia ancora posto in essere il comportamento specifico prospettato o dato attuazione alla norma oggetto d’interpello».

Ciò significa che l’Amministrazione, in determinati casi, può «ravvedersi» rispetto a una posizione già assunta (e ciò sembra in verità un’espressione del generale potere di annullamento e revoca in sede di autotutela): è opportuno evidenziare, però, che tale facoltà di revoca dovrà esercitarsi con particolare oculatezza e in casi assai limitati; in caso contrario, infatti, atteso il forte impatto che la revisione dei pareri potrebbe avere sulla platea dei contribuenti, potrebbe aversi un pregiudizio per l’immagine dell’Amministrazione stessa.

La regola stabilita dal co. 3 si rende applicabile anche con riferimento al comportamento già posto in essere dal contribuente, se la risposta dell’ufficio su istanze ammissibili ma prive delle indicazioni di cui all’art. 3, co. 3 (esposizione chiara ed univoca del comportamento e della soluzione interpretativa sul piano giuridico che si intendono adottare), non perviene nel termine di 120 giorni.

Il valore del silenzio

Per quanto disposto dal secondo periodo del co. 2 dell’art. 11, L. 212/2000, se l’istanza non perviene al contribuente entro il termine di cui al co. 1 (120 giorni, eventualmente prorogabili fino a 240),

«si intende che l’Amministrazione concordi con l’interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente».

Da ciò consegue che

«qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta, anche se desunta ai sensi del periodo precedente, è nullo».

Il co. 3 del medesimo art. 11 aggiunge che, limitatamente alla questione che è oggetto dell’istanza di interpello, l’Amministrazione non può irrogare sanzioni nei confronti del contribuente che non abbia ricevuto risposta entro il termine prescritto.

Entra qui in gioco, in primo luogo, la problematica generale del valore del silenzio delle Amministrazioni pubbliche, nell’ambito della quale il silenzio della direzione competente si qualifica come silenzio-assenso, escludendo quindi alla radice l’interesse del contribuente ad opporsi (con mezzi amministrativi o giurisdizionali), dato che, nell’ambito dell’interpello ordinario, la stessa soluzione da lui prospettata è idonea a dar luogo alla «risposta» – pur implicita – dell’Amministrazione.

In realtà, come si è visto in quasi sette anni di applicazione dell’istituto, l’ipotesi di un parere «implicito» formatosi a mezzo del silenzio-assenso dell’Amministrazione è rimasta un’ipotesi di scuola, perché gli uffici competenti rispondono pressoché sempre entro i termini e, anzi, spesso senza usufruire dell’intero lasso temporale loro concesso dalla norma.

Il silenzio rappresenta tuttavia, nell’istituto in esame, una potente garanzia per gli interpellanti, e inoltre rafforza l’obbligo di adempiere dell’Amministrazione, che in questo modo è soggetta non solamente ad un termine perentorio, ma anche alla «sanzione» immediata rispetto all’eventuale inadempimento.

Ciò si riflette in un notevole rischio potenziale per l’Amministrazione in sede di consulenza, poiché anche una pronuncia apparentemente «innocua», non censurabile per vizi di «ultrapetizione» od «extrapetizione», potrebbe esporre il Fisco a tentativi di utilizzo indebito del parere, in sede amministrativa e giudiziale.

Considerazioni di sintesi

Il «ruolo guida» tra gli interpelli è svolto dall’interpello «ordinario», finalizzato alla risoluzione di un’amplissima gamma di problematiche interpretative, e non – come succede per altre forme di «interlocuzione» preventiva – alla dimostrazione di circostanze di fatto di fronte a un Fisco che si atteggia comunque ad autorità ispettiva.

L’assetto «paritetico» del rapporto contribuente – Fisco nel quadro dell’interpello ordinario comporta però un necessario fair play nella conduzione del gioco.

Il rischio dell’interpello è infatti, dal punto di vista dell’Amministrazione, che esso possa essere inteso come un «escamotage» per ottenere la «validazione» di comportamenti non chiari, ambigui, spiegati dal contribuente omettendo alcuni significativi particolari, allo scopo di procurarsi un (indebito) trattamento fiscale vantaggioso.

In tale prospettiva, il grande appeal dell’interpello consiste, com’è evidente, non tanto nell’ottenere una consulenza qualificata sul trattamento tributario di una determinata fattispecie, quanto nel ricevere una risposta ufficiale proveniente dall’autorità fiscale, ovvero dall’«altra parte» del rapporto giuridico d’imposta (o, comunque, dal legittimo rappresentante di tale parte), con effetti preclusivi nei confronti delle attività di controllo.

Nella sostanza, attivando la procedura di interpello ordinario, il contribuente – privato o impresa – obbliga l’Amministrazione a rispondere entro i termini concessi (120 giorni al massimo, eventualmente prorogabili di altri 120 giorni nel caso in cui sia necessaria l’integrazione documentale, o l’acquisizione di ulteriori informazioni e spiegazioni), ovvero ad accettare la formazione del silenzio-assenso, rilasciando una sorta di «norma del caso concreto».

Se, infatti, l’accertamento e le sanzioni risultano inibite, ciò significa che l’ente impositore conviene di accettare la prospettazione fatta dall’istante, ovvero – motivatamente – di disattenderla.

In ogni caso, l’operazione è circondata di garanzie sia per il contribuente (che, comunque, rimane libero di comportarsi diversamente), sia per l’Amministrazione (in quanto può sempre essere revocata la risposta resa, fatta salva la non applicazione delle sanzioni nei confronti del contribuente, che – chiaramente – si era comportato secondo buona fede).

Leggi anche aggiornamenti come:
Consulenza giuridica e Interpelli dell’Agenzia delle Entrate: chiarimenti
Gli interpelli pubblici all’Agenzia Entrate – Provvedimento di agosto 2018
Diritto di interpello: approfondimento

NOTE

(1)  Cfr. il parere del Consiglio di Stato espresso dalla Sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza del 20.11.2000, n. 193/2000, nel quale sembrava astrattamente ammissibile anche un «interpello successivo».

Fabio Carrirolo

Maggio 2007