Processo tributario: perizie e consulenze tecniche in materia penale tributaria

 Il ruolo di consulente tecnico, d’ufficio o di parte, in ambito penale ha assunto sempre maggiore rilevanza e pone non poche problematiche e responsabilità al professionista incaricato di esprimere la propria valutazione tecnica in merito a presunte violazioni di norme tributarie.

 

La riforma della legge 516/82, a tutti nota con l’ormai famosa dizione “manette agli evasori”, la rilevanza assunta dalle problematiche fiscali nel panorama dei reati societari e fallimentari – basti pensare ai numerosi processi per reati di bancarotta –  hanno coinvolto sempre più, anche in materia penale, la figura professionale del dottore commercialista.

Occorre sottolineare, infatti, che la riforma del Codice di Procedura Penale ha trasformato alcuni aspetti essenziali del rito.

In particolare, la circostanza che il rito accusatorio è caratterizzato dal fatto che la prova si raccoglie, si forma e viene assunta durante il dibattimento e quindi innanzi al Giudice, comporta nuove esigenze per le parti.

In questo contesto assume maggiore rilevanza rispetto al passato la figura del consulente tecnico, sia esso del Pubblico Ministero o della difesa ovvero il Perito del Giudice, chiamati ad assolvere ad una rilevante funzione in quella fase che costituisce l’essenza del rito accusatorio, e cioè la formazione della prova.

Nei processi concernenti reati societari o fallimentari, la laboriosità del lavoro da svolgere e nel contempo la peculiare rilevanza degli aspetti puramente tecnici (anche e soprattutto in materia contabile) richiedono approfondimenti rigorosi da parte di esperti della materia.

Nel diritto penale tributario, infatti, la norma penale si limita a sanzionare il fatto illecito, ma è l’esperto (il dottore commercialista) che deve dire al penalista se ed in che modo la parte contribuente era tenuta ad osservare la norma tributaria di riferimento.

Nel procedimento penale, le disposizioni relative alla “Perizia” sono contenute nel Capo VI° “Perizia” del Titolo II° “Mezzi di prova” del Libro Terzo “Prove” del Codice di Procedura Penale, articoli da 220 a 232. E’ anche opportuno ricordare come nel previgente Codice di procedura penale, improntato al rito inquisitorio, il Giudice avesse la facoltà e non l’obbligo di disporre una perizia.

Ed al perito egli era solito ricorrere quando la materia o la complessità della materia sulla quale verteva il processo esorbitava dalle sue normali conoscenze, per cui egli ricorreva alla nomina di un esperto in grado di fare luce sui fatti e sulle circostanze.

Era una valutazione del tutto soggettiva da parte del Giudice, volta alla sua necessità di conoscere, comprendere e correttamente valutare i fatti sottoposti al suo giudizio.

Con il nuovo rito accusatorio le cose sono completamente cambiate nel senso che la perizia è obbligatoria “quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” (art. 220, primo comma del C.P.P.).

La perizia non è quindi diretta a fornire solo al Giudice gli elementi conoscitivi da lui richiesti quando egli ritenga di esercitare la facoltà di avvalersi di questo particolare mezzo di prova; ma proprio dalla obbligatorietà degli accertamenti peritali si può desumere la diversa funzione attribuita oggi alla perizia.

Una funzione che si può sinteticamente riassumere nell’affermazione che la perizia è diretta soprattutto alla formazione di una conoscenza comune a tutte le Parti del processo ed al Giudice e non solo al Giudice.

Oggi viene posta in primo piano la competenza scientifica del Perito il quale deve portare non solo il Giudice, ma tutte le Parti del processo all’acquisizione delle conoscenze necessarie a risolvere la quaestio facti sulla quale verte il processo.

E quindi non più un Perito qualsiasi, bensì un professionista competente il quale riesca effettivamente a fornire un contributo ad un comune sapere del Giudice e delle Parti, cioè una persona che sappia riportare al linguaggio comune delle persone che partecipano al processo le tematiche scientifiche necessarie al corretto svolgimento del processo.

L’apporto del Perito è anche importante per quanto riguarda la formulazione dei quesiti da parte del Giudice.

Nel rito attuale, il quesito nasce dal confronto dialettico tra il Giudice e le Parti, tra il Giudice ed il Perito, tra il Perito ed i Consulenti, e tra i consulenti consulenti tra loro, e la decisione che ne scaturisce è la più aderente alle necessità conoscitive emerse nel processo.

Ed anche su questo punto l’apporto del Perito è molto importante perché, in virtù della sua competenza specifica, egli è in grado di evitare che si creino false ed illusorie conoscenze del tutto inadeguate a risolvere quella che è la tematica processuale del fatto.

Il dottore commercialista può essere chiamato anche a svolgere la delicata funzione di consulente tecnico del Pubblico Ministero, figura nuova introdotta dal Codice Vassalli nel quadro delle indagini preliminari dirette dal P.M. che può disporre, qualora la ritenga necessaria, consulenza tecnica ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

L’art. 359 del codice di procedura penale, infatti, quando il Pubblico Ministero procede ad accertamenti per i quali sono necessarie specifiche competenze tecniche, può nominare Consulenti i quali non possono rifiutare la loro opera.

Premesso che le indagini preliminari non costituiscono una fase diretta alla formazione della prova ma servono al P.M. per ricercare le fonti di prova, che poi egli evidenzierà ed utilizzerà nel corso del dibattimento, in questa fase dunque il Consulente ha la delicata, e non sempre facile, funzione di aiutare il P.M. nel comprendere situazioni tecniche complesse nelle quali non è in grado di entrare completamente.

L’opera prestata dal Consulente non ha valore probatorio. Avrà valore probatorio quando il Consulente sarà interrogato davanti al Giudice come teste indicato dal P.M. e secondo le forme dell’interrogatorio incrociato e quindi solo rispondendo alle domande e solo svolgendo la problematica che gli viene sottoposta, solo in questo caso le sue affermazioni possono essere assunte come prova.

E’ bene sottolineare che l’opera del Consulente deve essere diretta alla ricerca della verità, qualunque essa sia.

Le supposizioni o gli indizi che indirizzano l’attività o le specifiche domande del P.M. non devono avere l’effetto per il consulente di ricercare, a tutti i costi, elementi volti all’acquisizione delle prove di colpevolezza, perché queste bisogna trovare, come potrebbe accadere quando il consulente è soggiogato dalla autorevolezza del P.M. che lo ha nominato ed al quale P.M. il consulente ritiene di fare cosa gradita contribuendo a rafforzare l’impianto accusatorio, magari nella speranza di ricevere in futuro un altro incarico.

Come già evidenziato, occorre andare alla ricerca della verità, che può anche portare a conclusioni che il P.M. non sembra voler sentire, tenendo conto di tutti gli elementi, compresi quelli che possono giovare agli indagati.

E devo segnalare – per averne avuto esperienza diretta – che ammettere di non aver trovato elementi probatori che possano reggere l’urto di un processo, pur avendo magari la netta sensazione della commissione dei reati sui quali si indaga, è cosa apprezzata dal pubblico ministero che in tal modo può valutare con cognizione di causa se rinviare o meno a giudizio l’indagato.

Risulterebbe infatti frustrante se l’impianto accusatorio – magari costruito sugli elementi segnalati nella relazione tecnica del consulente del P.M. – non trovasse riscontro nel processo penale.

Viceversa, nel caso in cui la parte assistita non sia la pubblica accusa bensì l’imputato l’obiettivo da perseguire sarà quello dell’assoluzione, totale o parziale, dell’assistito evidenziando le lacune (ovvero la carenza di prove) dell’impianto accusatorio di controparte.

Estremamente delicato – è appena il caso di sottolinearlo – è infine il caso in cui il professionista riveste il ruolo di consulente tecnico d’ufficio e, magari, sulla scorta della deposizione del CTU deve accertarsi il superamento o meno delle soglie di punibilità ai fini penali. In tali casi, in pratica, dalla relazione del CTU può dipendere la sussistenza o meno di un ipotesi di reato.

In conclusione, sembra potersi dire che nell’ambito del nuovo procedimento penale il ruolo cui assolve il dottore commercialista in tutti i casi in cui viene chiamato a pronunciarsi su tematiche attinenti la propria specifica professionalità è sicuramente di rilievo e, pertanto, assai delicato.

In quest’ottica, emerge in tutta la sua importanza la prospettata necessità di svolgere tale ruolo con l’obiettivo di aiutare l’interlocutore a comprendere le questioni tecniche, al solo fine – come si usa dire anche nella formula del giuramento – di far conoscere al giudice la verità.

Qualunque essa sia, gradita o non gradita.

 

 Mi piace ricordare che le riflessioni alla base del presente e di altri approfondimenti in tale materia, nascono e traggono spunto dalle appassionate e affascinanti parole pronunciate da Domenico Contini, dottore commercialista, già vicepresidente del Consiglio nazionale, in occasione del convegno dal titolo Falso in bilancio e perizie amministrative e contabili in materia penale, tenutosi a Messina il  28-29 gennaio 2000.

Contini, dall’alto della sua esperienza, illustrò con grande acume  la strada da percorrere nel futuro delle professioni all’interno del mercato globale, individuando nei nuovi sentieri specialistici di conoscenza la risposta culturale vincente.

Le parole di quel giorno mi colpirono e sono rimaste impresse nella mia memoria: ove possibile cerco, pertanto, di rielaborarle e trasmetterne il contenuto essenziale ad altri colleghi.

 

novembre 2005

Massimo Conigliaro