Società di comodo: se gli affari vanno male?

La Riforma Fiscale non ha corretto la disciplina delle società di comodo ma ha solo limato i coefficienti di redditività che fanno scattare le penalizzazioni. Rimane il dubbio se le errate scelte imprenditoriali possano portare una società ad essere di comodo perchè non supera i limiti.

Articolo tratto da Blast – Quotidiano di Diritto Economia Fisco e Tecnologia, direttore Dario Deotto

 

La disciplina delle società non operative (c.d. di comodo) è ormai da diverso tempo al centro di interessanti spunti di riflessione da parte della dottrina e della giurisprudenza, tanto che anche il Governo ha deciso di intervenire sulla materia con la Riforma Fiscale, stabilendo di rivedere la disciplina e prevedendo l’individuazione di nuovi parametri, da aggiornare periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, tenendo anche conto dei principi elaborati, in materia di IVA, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea (articolo 9, comma 1, lettera b, della Legge 111/2023).

Ad oggi, però, il legislatore delegato ha rinunciato alla revisione complessiva della disciplina, limitandosi, nelle more, a ridurre i coefficienti per la determinazione del reddito presuntivo delle società che non superano il test di operatività di cui all’articolo 30 della Legge 724/1994 (articolo 20 del Dlgs. 192/2024) e, parrebbe, a fissare la latitudine della previsione attualmente in essere (si vedano i recenti “Cattivi pensieri” di Dario Deotto).

Il vigente articolo 30 della Legge n. 724/1994, recante, appunto, la disciplina delle società non operative (o di comodo), stabilisce che le società di capitali e di persone, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi risultanti dal conto economico è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando alle immobilizzazioni materiali e immateriali alcune percentuali (c.d. test di operatività). Per le società non operative si presume che il reddito del periodo di imposta non sia inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione, ai valori dei beni posseduti nell’esercizio, di talune percentuali.

Secondo taluna giurisprudenza di legittimità la disciplina delle società non operative integrerebbe una triplice presunzione legale relativa, che fa derivare dall’accertamento dell’esistenza degli elementi patrimoniali indicati al comma 1 del citato articolo 30 il fatto ignoto dell’inoperatività della società (prima presunzione), che correla all’inoperatività l’impiego “elusivo” dello schema societario per la gestione di patrimoni (seconda), e che fa scaturire dall’inoperatività la percezione di un reddito minimo (terza); il contribuente avrebbe la facoltà di superare la prima presunzione dimostrando l’insussistenza di elementi patrimoniali valorizzati dall’Amministrazione finanziaria ai fini del test di operatività o la sussistenza di un’effettiva attività imprenditoriale, e la seconda attraverso la prova di una situazione oggettiva e non imputabile all’interessato che giustifichi la scarsità dei ricavi e del reddito (Cass. civ. 4946/2021 e 26219/2021).

Invero, a ben vedere, l’articolo 30 citato contiene soltanto due presunzioni legali di evasione: la prima, di non operatività della società, derivante dal mancato superamento del test di operatività; la seconda, di conseguimento di un determinato reddito minimo, appunto, per le società non operative. Sicché, se viene superata la prima presunzione dal contribuente, dimostrando lo svolgimento di un’effettiva attività d’impresa, cade anche la seconda. Queste conclusioni, peraltro, sono state raggiunte anche da alcuni recenti arresti degli Ermellini (cfr. Cass. civ. 9339/2023).

Gli ultimi approdi giurisprudenziali – per cui la disciplina in oggetto integra delle presunzioni c.d. “a catena” – hanno quindi consentito di superare una pregressa posizione di legittimità molto più rigida, per la quale la disciplina integrerebbe una sola presunzione legale relativa, secondo cui una società si considera non operativa se non supera il test di operatività, senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, con la società che potrebbe far valere situazioni oggettive di carattere straordinario che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi: impossibilità che deve essere intesa non in termini assoluti, quanto piuttosto in termini economici, avendo riguardo alle effettive condizioni del mercato (tra le tante, Cass. civ. 6029/2020, 5334/2020, 16204/2018, 21358/2015), ed elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standard minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta (Cass. civ. 24314/2020).

Soltanto in tempi più recenti la Suprema corte ha “alleggerito” l’onere della prova contraria gravante sul contribuente, stabilendo che esso può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società, a prescindere dall’esito del test di operatività e quindi della corretta individuazione dei valori da considerare per la determinazione dei ricavi presunti da confrontare con quelli effettivi (Cass. civ. 9339/2023, 16472/2022).

Oggi, quindi, il contribuente può dimostrare l’effettiva esistenza di un’attività d’impresa al fine di superare il meccanismo presuntivo che assiste la disciplina in oggetto, ma potrebbe anche dimostrare succedaneamente la presenza di situazioni oggettive idonee a disinnescare le presunzioni legali in parola. Per quanto concerne il concetto di situazioni oggettive, occorre evidenziare che per un certo periodo di tempo sia la giurisprudenza di legittimità che l’orientamento degli Uffici hanno valorizzato esclusivamente le cause esterne alla società, mentre l’incapacità imprenditoriale inidonea a far conseguire determinati ricavi/risultati all’impresa – causa interna – non era ammessa quale esimente all’applicazione della disciplina sulle società di comodo.

Anche questa posizione, però, è stata recentemente superata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la caratteristica di “oggettività” delle situazioni che il contribuente può far valere, nella ratio del comma 4-bis dell’articolo 30 non ha la funzione di distinguere tra cause esterne, che si impongono al soggetto, e cause che derivano anche solo in parte da libere determinazioni, ma quella di richiedere che questi sia in grado di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato (Cass. civ. 16472/2022 e 12862/2021).

Rilevante al riguardo è la recentissima Cass. civ. 3297/2025, con cui i Giudici del Palazzaccio, nel convalidare la decisione di merito, hanno stabilito che il tenore letterale dell’articolo 30 consente di ritenere integrata la prova contraria gravante sul contribuente non solo nei casi in cui l’andamento negativo o la scarsa redditività dell’iniziativa imprenditoriale sia dipesa da eventi collocati al di fuori della sfera di controllo dell’imprenditore, ma anche quando derivi da scelte imprenditoriali errate, a condizione che non via sia stata totale assenza di pianificazione aziendale.

Si tratta di un importante e condivisibile approdo giurisprudenziale che evidenzia – una volta in più – la necessità di una riforma dell’intera disciplina, come stabilito dalla Legge Delega rimasta inattuata, anche alla luce dell’altro aspetto – sul versante IVA – che sta comportando la disapplicazione della disciplina attuale per quanto concerne la detrazione IVA, alla luce della recente giurisprudenza UE (causa C-341/2022): sono ormai reiterati, infatti, gli arresti della Cassazione, per cui, ai fini IVA, deve essere disapplicata la disciplina sulle società non operative (di comodo), non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dell’IVA dal mancato superamento del test di operatività, ma solo dalla riconducibilità delle operazioni a una frode o a un abuso, alla luce dei principi affermati dalla Corte UE (tra le più recenti, Cass. 4157/2025).

 

 

Alessandro Borgoglio, tratto da BLASTonline
Venerdì 14 Marzo 2025