L’onere della prova nel processo tributario – prima parte

La materia tributaria è stata a lungo sprovvista di un norma specifica in tema di onere della prova e ci si è avvalsi nel tempo del costante richiamo alle norme civilistiche.
Ma come è cambiata la disciplina dopo la riforma del processo tributario? Possiamo basarci sul principio secondo cui “chi contesta deve provarne la fondatezza”?

Onere della prova nel processo tributario – Sommario:

 

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Considerazioni introduttive in tema di onere della prova

onere prova processo tributarioL’onere della prova è un principio logico-argomentativo in base al quale chi intende dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove della sua esistenza.

Tale principio è disciplinato dall’art. 2697 del codice civile, rubricato “Onere della prova”, a norma del quale:

“Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”

In linea generale, la ripartizione dell’onere della prova tra le parti delineata dal codice civile risponde a principi di opportunità e razionalità, oltre che a concrete esigenze di giustizia.

In particolare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., gli elementi di una determinata fattispecie si distinguono in fatti costitutivi, estintivi, modificativi o impeditivi; pertanto, mentre la prova dei fatti costitutivi spetta all’attore (art. 2697, comma 1), la prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi spetta al convenuto (art. 2697, comma 2).

Specificamente, per “fatto costitutivo” si intende l’elemento la cui prova è necessaria poiché concorre a determinare gli effetti materiali previsti dalla relativa norma. Da tanto ne consegue che la prova di tale fatto incombe sull’attore, cioè su colui che agisce in giudizio invocando l’applicazione di quella determinata disposizione.

Invece, sono da intendersi “estintivi o modificativi” quei fatti che determinano l’estinzione o la modificazione dell’effetto giuridico richiesto dall’attore. In tal caso, l’onere della prova grava sul convenuto, ossia su colui che si oppone alla pretesa avanzata dall’attore.

In altri termini, la ripartizione dell’onere probatorio, attiene al diritto fatto valere in giudizio ed è dovuta alle posizioni ricoperte dalle parti in ambito processuale, con la conseguenza che l’onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto/diritto a sostegno della propria tesi, conformemente al noto brocardo “Onus probandi incumbit ei qui dicit” (“l’onere della prova incombe su colui che afferma qualcosa”); invece, il soggetto che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha l’onere di dimostrarne l’inefficacia o provare altri fatti che abbiano modificato o fatto venir meno il diritto vantato dall’attore.

Tanto premesso, occorre rammentare che, la materia tributaria era sprovvista di un norma specifica in tema di onere della prova e, pertanto, in virtù del costante richiamo alle norme civilistiche, trovava applicazione il succitato art. 2697 codice civile.

La normativa civilistica in ambito tributario è stata, tuttavia, oggetto di diverse deviazioni, tra le quali si segnala l’indirizzo, oramai definitivamente tramontato, che faceva leva sulla cosiddetta “presunzione di legittimità dell’atto amministrativo”, la quale addossava l’onere della prova nel processo tributario “sempre e comunque sul contribuente”, così determinando una sorta di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, che sarebbe risultato, quindi, sino a prova contraria, fondato sia in fatto che in diritto.

Tale indirizzo è stato superato a partire da alcune sentenze della Corte di Cassazione del 1979 (tra tutte, Cass. n. 2990/79) conseguendone che, ad oggi, non è più fatto controverso che, in base al principio della “vicinanza dell’onere della prova”, anche nel rapporto tributario, valga la disposizione di cui all’articolo 2697 codice civile, in base al quale, nelle vicende tributarie, l’Amministrazione Finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, così come spetta al contribuente la prova del fatto costitutivo nelle liti in materia di rimborso.

Tanto premesso, occorre però chiarire che, da ultimo, la legge di riforma del processo tributario n. 130 del 31 agosto 2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022, ha introdotto una specifica disposizione in materia, aggiungendo, di fatto, il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, di cui meglio si argomenterà nel prosieguo.

 

L’onere della prova nel processo tributario

Ante riforma tributaria: art. 2697 codice civile

Come anzidetto, prima della recentissima introduzione del comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, la materia tributaria era sprovvista di un norma specifica in tema di onere della prova e, pertanto, in virtù del costante richiamo alle norme civilistiche, trovava applicazione il succitato art. 2697 codice civile.

In un primo momento, sul piano processuale, la presunzione di legittimità faceva gravare sempre sul contribuente l’onere di dimostrare in giudizio l’illegittimità o l’infondatezza dell’atto impositivo.

Tuttavia, tale indirizzo è stato superato mediante alcune sentenze della Cassazione.

Tra le prime pronunce di legittimità, si segnala la sentenza n. 2990 del 23 maggio 1979 con la quale i giudici di legittimità hanno, per la prima volta, ritenuto che:

“(…) non può porsi tutto l’onere probatorio a carico esclusivo del destinatario del provvedimento, poiché se egli, per ragioni attinenti esclusivamente alla esecutorietà della pretesa fatta valere dalla pubblica amministrazione, assume la iniziativa del processo, la sua qualità di attore in giudizio non esclude che l’indagine del giudice verta pur sempre su un diritto di credito, i cui presupposti di fatto, secondo le regole generali, debbono essere provati, in caso di incertezza circa la loro esistenza oggettiva, dalla autorità amministrativa che coltiva la relativa pretesa, mentre incombe al destinatario del provvedimento l’onere della prova dei fatti modificativi o estintivi, secondo la disciplina dettata dall’art. 2697 c.c.”.

Questa pronuncia ha rappresentato, dunque, una vera e propria svolta nel processo tributario, poiché ha permesso di valorizzare, ai fini del riparto probatorio, la posizione sostanziale assunta dalle parti nel processo, estendendo l’applicazione al processo tributario della regola generale di cui all’art. 2697 c.c.

Ed invero, da sempre la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato tale norma attribuendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale; mentre al contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa.

In altri termini, traslando tale principio civilistico in ambito tributario, ne discende che l’Amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, conseguendone, in termini generali che:

  • spetta al Fisco l’onere di provare la maggiore capacità contributiva del soggetto verificato nonché i presupposti di fatto e di diritto sui quali la pretesa fatta valere nei suoi confronti si fonda (vale a dire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa);
     
  • spetta al contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa o, al più, la prova del fatto costitutivo in materia di rimborso.

Sul punto, si segnala, tra le tante, la sentenza della Corte di Cassazione, 25 ottobre 2021, n. 29856, con cui è stato chiarito che:

“E’ ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, anche nel processo tributario, vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’articolo 2697 c.c., e che, pertanto, in applicazione della stessa, l’amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, essendosi ormai da tempo chiarito che la c.d. presunzione di legittimità degli atti amministrativi (un tempo evocata per giustificare la loro idoneità ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui) non opera nei confronti del giudice ordinario (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 1946 del 10/02/2012; Sez. 5, n. 13665 del 05/11/2001; Sez. 1, n. 2990 dei 23/05/1979, Rv. 399324).

Pertanto, è chiaro che, per un lungo periodo, nel processo tributario ha trovato applicazione la disciplina civilistica ex art. 2697 c.c., soprattutto perché nel codice del processo tributario non vi era alcuna disposizione in tema di onere probatorio.

 

Post riforma del processo tributario: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92

Solo con l’entrata in vigore della L. n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, il legislatore è intervenuto in tema di riparto dell’onere probatorio in materia tributaria aggiungendo il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992.

Specificamente, l’art. 6 della L. n. 130/2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022 (e applicabile anche ai processi pendenti), ha modificato l’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 aggiungendo il comma 5-bis, in materia di onere probatorio.

La novella legislativa non solo ristabilisce le regole tradizionali in tema di onere probatorio, ma istituisce, altresì, un maggiore rigore sia nell’individuazione delle prove da parte dell’Amministrazione finanziaria, che nella valutazione delle stesse da parte del giudice tributario.

Specificamente, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, (sganciandosi per la prima volta dalla necessarietà di fornire la prova del diritto da far valere in giudizio di cui all’art. 2697 cc), tanto dispone:

L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

Orbene, analizzando il testo normativo, la disposizione sembra potersi “scomporre” in due parti:

  • il primo periodo, relativo all’onere della prova sugli atti impositivi, dispone che l’Amministrazione è tenuta a provare i presupposti di fatto e di diritto della propria pretesa erariale.
    In altre parole, il Fisco deve fornire la prova dell’esistenza dell’an e del quantum dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria, vale a dire delle violazioni contestate con l’atto impugnato.
    È pacifico che la circostanza per cui l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria grava sull’ente impositore dipende dalla posizione che quest’ultimo ricopre nel processo, ossia dalla sua posizione di creditore nonché di attore sostanziale.
    Spetta, invece, al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.
    Ciò perché, nelle controversie relative alle istanze di rimborso, la posizione di creditore nonché di attore formale e sostanziale è ricoperta dal contribuente e, pertanto, spetta a costui dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione, cioè l’eccedenza di pagamento
    Tra le più recenti pronunce che hanno preso atto della novella legislativa in commento vi è naturalmente la giurisprudenza di merito, tra cui si segnala la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa n. 3856 del 23 novembre 2022, con la quale i giudici hanno così statuito:

    La lettura esegetica dell’incipit del novellato comma 5-bis, articolo 7, del Dlgs 546/1992 non lascia spazio a diverse interpretazioni: “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato“. La prima considerazione indotta dalla lettura di questa alinea del comma citato è che la norma si risolve, inequivocabilmente, nell’introduzione nel processo tributario di una nuova regola autonoma sorta per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere della prova, superando così la portata dell’articolo 2697 del codice civile e con esso la trasposizione, talora impropria, nel processo tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche. In base alla nuova regola, dunque, è inequivocabile che sia l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa”;

  • il secondo periodo, invece, è relativo al potere di annullamento del giudice tributario e ai presupposti in tema di valutazione delle prove.
    Più nel dettaglio, il secondo periodo della novella legislativa individua i criteri di valutazione rimessi al giudice tributario nell’adozione della propria decisione nonché i presupposti per l’annullamento dell’atto tributario, prevedendo, specificamente, che il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
    Peraltro, ai sensi del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria, il giudice non può acquisire d’ufficio le prove. In altri termini, il giudice non può supplire alla mancanza di fondatezza o ad una prova insufficiente o contraddittoria, ma, in tale circostanza, ha il dovere di annullare l’atto impositivo.

La nuova disposizione normativa richiede, quindi, una capacità dimostrativa della pretesa, con la conseguente limitazione dei poteri discrezionali del giudice nella sua valutazione.

Infatti, il nuovo comma 5-bis cit. chiarisce che il dovere del giudice di esprimere il suo “prudente apprezzamento”, ex art. 116 codice procedura civile, deve essere basato sulla verifica della sussistenza di una prova specifica, puntuale e circostanziata dei fatti contestati.

Laddove tale prova manchi, allora il giudice dovrà annullare l’atto impositivo.

Più nello specifico, il giudice ha l’obbligo di dichiarare la nullità dell’atto impugnato qualora la prova della sua fondatezza sia:

  • mancante;
  • contraddittoria;
  • insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Ne consegue che, la novità legislativa di cui al comma 5-bis cit., induce il giudice ad apprezzare con particolare rigore tali indizi, disattendendo la pretesa quando, anche alla luce delle difese del contribuente, essi appaiano inidonei a integrare, seppur presuntivamente, le “ragioni oggettive” della contestazione.

Sul tema, a conferma di quanto appena detto, si è espressa la Corte di Giustizia Tributaria di Lecce con la recentissima sentenza n. 309/2023 depositata il 1° marzo 2023, così precisando:

“Nella seconda parte del secondo periodo, collocato in aggiunta (“e”) a quello precedente, si individuano i poteri della Corte di giustizia tributaria dicendo che essa “annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.

In tal modo viene a emergere la prova della fondatezza dell’atto impositivo quale vizio dell’atto impugnato, la cui mancanza, contraddittorietà o insufficienza comporta per la Corte di giustizia tributaria l’annullamento dell’atto impugnato.

Nel connotare il deficit probatorio che conduce all’annullamento dell’atto la norma si dilunga nello specificare che la “mancanza”, la “contraddittorietà” o l’“insufficienza” debbono essere correlate alla dimostrazione, in modo circostanziato e puntuale, delle ragioni su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni, impegnando così l’organo giudicante alla valutazione del risultato istruttoriamente acquisito dalla prova incombente sull’Amministrazione, “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale””.

Tirando le somme di quanto fin qui esposto, non può non rilevarsi che le novità in materia di onere probatorio introdotte con la L. n. 130/2022 hanno permesso di riequilibrare il rapporto tra fisco e contribuente.

L’obiettivo dell’intervento normativo sembra convergere, infatti, verso un unico concetto di onere della prova, in base al quale chi “contesta deve provarne la fondatezza”; pertanto:

  • in caso di accertamento, l’Amministrazione dovrà provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato; così come, del pari, spetterà al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso (quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati);
     
  • al contempo, il giudice dovrà annullare l’atto impugnato, se la prova della sua fondatezza è mancante, contraddittoria o insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

L’articolo prosegue nella SECONDA PARTE…

 

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A cura di Maurizio Villani e Federica Attanasi

Sabato 27 maggio 2023