La ricostruzione del prezzo per ciascun piatto, sia alla carta sia su menù fisso, con un volume d’affari del tutto sproporzionato rispetto all’utile «irrisorio» di esercizio dichiarato, conduce a ritenere del tutto antieconomica l’attività svolta e, di conseguenza, irragionevoli le argomentazioni della parte contribuente volte a rimarcare che i prezzi assunti a base dell’accertamento non sono significativi e che non sarebbe stato valorizzato il fatto che il ristorante operava con differenti fasce di prezzo a seconda della tipologia di pasto, della fascia oraria e delle specifiche richieste (menù degustazione o menù personalizzati).
E’ questo il principio che si ritrae dalla lettura dell’ordinanza della Corte di Cassazione che ha investito il controllo operato nei confronti di un ristorante.
Il fatto: l’accertamento presso il fornitore
Una s.a.s., esercente attività di ristorazione, ed i soci, hanno impugnato gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione maggiori ricavi e, dunque, maggiore imponibile ai fini IRAP e I.V.A. in capo alla società e ai fini IRPEF a carico dei soci, in relazione agli anni d’imposta 2004 e 2005.
La ripresa fiscale traeva origine da una verifica a carico di una società fornitrice, svolgente l’attività di lavorazione e commercio del caffè, nel corso della quale erano stati rinvenuti documenti extracontabili dai quali era risultato che, nei periodi di imposta 2004 e 2005, la predetta società aveva ceduto alla società accertata quantitativi di caffè in assenza di relativa fatturazione.
Sulla base di tali dati, applicando una percentuale di ricarico, l’Ufficio finanziario aveva proceduto alla ricostruzione dei ricavi conseguiti dal ristorante, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, primo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Nel chiedere l’annullamento degli atti impositivi, le parti contribuenti hanno dedotto che la metodologia di accertamento adottata dall’Ufficio era viziata, quanto ai cali ed agli sfridi del materiale, all’utilizzo alternativo dei prodotti, che incidevano sui quantitativi di materie prime e sulle dosi di prodotto utilizzate nel confezionamento delle pietanze, nonché in ordine all’individuazione dei prezzi medi per porzione ed al numero dei coperti serviti.
Accogliendo l’appello dell’ufficio sulla sentenza di primo grado, i giudici del riesame hanno osservato che dalla documentazione extracontabile acquisita presso il fornitore, che costituiva contabilità parallela rispetto a quella ufficiale, si evinceva sia che le operazioni ivi indicate non risultavano annotate nella contabilità ufficiale, sia che nell’anno 2004 la società aveva ceduto «in nero» lotti di caffè per un rilevante imponibile.
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