Spese di pubblicità o di rappresentanza: il caso della prassi nelle vendite delle calzature

Il problema dei campioni ceduti gratuitamente: possono essere considerati spese di pubblicità o rappresentanza?

Spese per distribuzione gratuita di calzature: sono spese di rappresentanza, sì o no?

spese pubblicità rappresentanzaPer orientamento ormai consolidato, “costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite”, con la conseguenza che solo le prime sono deducibili nei limiti di quanto previsto dalla richiamata norma.

Le spese relative alla distribuzione gratuita a potenziali clienti di campioni di “calzature non in gomma” prodotte da una società non costituiscono spese di rappresentanza e non sono deducibili dal reddito d’impresa né quando, per pratica commerciale, sono seguite da un ordinativo vero e proprio della merce e il loro prezzo si aggiunge a quello delle altre né quando, per mancato gradimento dei campioni, non segue l’ordinativo.

Lo ha affermato la Cassazione (come già segnalato nel Diario Quotidiano del 7 Dicembre).

Costi relativi a campioni di scarpe e reddito d’impresa

Nella fattispecie, si ritenevano indeducibili i costi relativi a campioni di scarpe spediti a potenziali clienti stranieri al fine di far conoscere la tipologia del prodotto e di ottenere successivi ordini di acquisto.

Nella prassi, nell’ipotesi di mancato gradimento dei campioni, la relativa restituzione rappresenta un’operazione assolutamente antieconomica e non praticabile per i costi di trasporto e per le difficoltà di carattere burocratico concernenti le operazioni doganali.

Tale comportamento commerciale trovava giustificazione esclusivamente nello svolgimento delle operazioni doganali poiché, in caso di successiva effettuazione dell’ordine da parte del cliente estero, si provvedeva al pagamento, unitamente al resto della merce ordinata, di un regolare corrispettivo anche per il campione, corrispettivo poi contabilizzato quale sopravvenienza attiva.

Nel caso non seguiva alcun ordinativo, invece, non vi era alcuna restituzione del campione, anche in ragione della eccessiva onerosità dei relativi costi.

La tesi del contribuente era che la produzione/vendita di un prodotto di moda, la cessione gratuita di campioni, quale che ne potesse essere il valore, fosse un costo deducibile la cui utilità si esauriva nelle vendite di una stagione.

Sulla base delle disposizioni contenute nell’artico 108 comma 2 Tuir, nel testo applicabile ratione temporis, trattandosi di beni di valore unitario superiore a 25,82 euro distribuiti gratuitamente, anche se prodotti dall’impresa, la società ha quindi dedotto interamente la spesa sostenuta per la relativa distribuzione.

L’ufficio, invece, considerando lo schema commerciale seguito dalla società, ha ritenuto che le scarpe cedute non potessero essere considerate “campioni”.

Erano provvisti di marchio indelebile in quanto destinati al mercato e costituivano oggetto di cessione, per espresso riconoscimento della società, quando, a seguito della loro presa visione, una volta emessi gli ordini di acquisto, li si inseriva nella vendita insieme al resto della merce ordinata.

Di conseguenza, ha escluso la deducibilità integrale della spesa e ha rideterminato l’ammontare della somma scalabile dal reddito.

Mentre la società ha sottratto interamente il costo per la distribuzione gratuita, l’ufficio, tenendo conto che l’azienda aveva registrato in contropartita le sopravvenienze attive relative ai beni oggetto inizialmente di cessione gratuita, ha considerato indeducibili i costi corrispondenti alla differenza.

Dopo esiti altalenanti nelle commissioni di merito, (la provinciale aveva accolto le tesi dell’Ufficio, ma non la regionale) l’ufficio ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte ha accolto il motivo di ricorso e ha affermato che:

sotto il profilo dei costi, … è noto l’indirizzo consolidato… secondo il quale ‘in tema di imposte sui redditi delle persone giuridiche, ai sensi dell’art. 108 (ex 74, secondo comma) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi…” (Cassazione, n. 29124/2021).

Cosa dice(va) il TUIR?

L’articolo 108, comma 2, del Tuir, nella sua formulazione in vigore fino al 31 dicembre 2007 (quindi prima dell’intervento inteso a vincolare la deducibilità dell’onere ai requisiti dell’inerenza e della congruità), non indicava criteri specifici per qualificare le spese di rappresentanza, limitandosi a prevederne la deducibilità nella misura di un terzo del loro ammontare, in quote costanti nell’esercizio in cui erano state sostenute e nei quattro successivi.

Rientravano in tale categoria anche le spese sostenute per i beni distribuiti gratuitamente, nonostante recanti emblemi, denominazioni o altri riferimenti atti a distinguerli come prodotti dell’impresa e per i quali non si applicavano le limitazioni alla deducibilità.

Nella fattispecie in esame, la Cassazione ha affermato che:

erroneamente … la CTR ha annullato la ripresa dell’Amministrazione finanziaria che, limitatamente ai soli costi riferibili alla cessione di campioni a titolo gratuito (con esclusione delle cessioni diventate onerose), ha considerato indeducibile il relativo costo”.

In tal modo ha distinto implicitamente le cessioni di campioni di scarpe, distribuite prima gratis e che hanno acquisito poi valore commerciale tipico delle altre paia richieste, dalle cessioni di campioni di scarpe che sono state inviate gratis ai clienti e che non sono state foriere di alcuna vendita futura.

Queste ultime, pur essendo gratuite, non hanno le finalità tipiche delle spese di rappresentanza, nei termini in cui sono state riconosciute dalla giurisprudenza di legittimità, ma, piuttosto, sono volte a incrementare le vendite come le spese di pubblicità.

Anche a voler attribuire ai costi in discussione tale natura, la deducibilità non potrebbe essere invocata poiché le spese di pubblicità non sono gratuite e, per lo più, scaturiscono da un contratto a prestazioni corrispettive, sulla base del quale controparte, dietro corrispettivo, si obbliga a pubblicizzare/propagandare, il marchio e/o il prodotto dell’impresa al fine di stimolarne la domanda; contratto che non risulta depositato nella fattispecie in esame.

Fonte: Ordinanza Cassazione n. 29124 del 20 ottobre 2021.

A cura di Danilo Sciuto

Giovedì 9 Dicembre 2021