Le indagini finanziarie e le dichiarazioni di terzi possono far prova contemporaneamente contro il contribuente? Analizziamo una recente “risposta” della Cassazione.
Indagini finanziarie e dichiarazioni di terzi: la sentenza n. 9903 del 27/05/2020
L’Agenzia delle Entrate attivava un controllo fiscale, tramite l’invio di un questionario fondato su indagini bancarie, a carico di un contribuente che – sebbene non dichiarasse alcun reddito e non svolgesse alcuna attività lavorativa – aveva effettuato delle operazioni di versamento su alcuni conti correnti intrattenuti presso un istituto di credito.
L’avviso di accertamento emesso, con il quale si accertava un reddito imponibile di € 143.896,00, resisteva alle censure del contribuente sia in primo che in secondo grado.
In particolare i giudici regionali lombardi, in modo molto netto:
“ritenevano non valide le prove apportate dalla contribuente a giustificazione delle operazioni bancarie, sia perché il processo tributario non ammetteva prove testimoniali, sia perché dette prove, non supportate da documentazione, risultavano inconsistenti”.
Seguiva, pertanto, il ricorso per cassazione del contribuente, articolato su dieci motivi, con il quale censurava il pronunciamento dei giudici di seconde cure.
Gli Ermellini, ritenendo fondati il quarto ed il quinto motivo di ricorso, hanno ritenuto corretto cassare la sentenza impugnata, rinviando alla Commissione tributaria della Lombardia, deputata anche a provvedere sulle spese.
I giudici di legittimità, nella sentenza n. 9903 del 27/05/2020, innanzitutto hanno messo in evidenza che se, da un lato “in materia di accertamenti bancari, grava sul contribuente l’onere probatorio di superare la presunzione legale posta dalla disposizione normativa in esame a favore dell’Erario – che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. – offrendo non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, Cass. n. 26111 del 30/12/2015) idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, mediante indicazione specifica delle diverse cause giustificative delle singole operazioni effettuate e della loro estraneità a fatti imponibili (Cassazione n. 26111 del 2015, cit.; n. 15217 del 12/9/2012; n. 1418 del 22/1/2013; n. 21303 del 18/9/2013; n. 20668 del 1/10/2014; sez. 6-5, ord. n. 10480 del 3/5/2018)”, dall’altro lato si radica in capo al giudice di merito l’obbligo di “operare una verifica puntuale dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione delle singole movimentazioni contestate e, quindi, di dare conto in sentenza delle risultanze di detta verifica”.
L’organo di nomofilachia, una volta escluso che il recupero in esame potesse configurare l’opposta violazione del divieto di doppie presunzioni [1], aveva cura di sottolineare che:
“in mancanza di espresso divieto normativo ed in ossequio al principio di libertà dei mezzi di prova, al contribuente è consentito fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, dovendo in questo caso il giudice di merito “individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative” (Cass. n. 11102 del 5/5/2017; n. 10480 del 2018, cit.)”.
Fatte queste debite premesse, la Su