Economia digitale: ipotesi di tassazione

L’economia digitale, fondata sulle tecnologie informatiche, comprende tutte le attività economiche che sulle tecnologie digitali si sono sviluppate e che ad esse fanno riferimento. Tra le varie forme che può assumere l’economia digitale va considerato l’e-commerce, una forma di commercio e vendita di beni o servizi che si effettua attraverso Internet, con piattaforme IT di diverso genere e struttura. La materia è stata oggetto di più interventi da parte della Commissione Europea

Economia digitale – Aspetti generali

L’ economia digitale, fondata sulle tecnologie informatiche, comprende tutte le attività economiche che sulle tecnologie digitali si sono sviluppate e che ad esse fanno riferimento.

Tra le varie forme che può assumere l’economia digitale va considerato l’e-commerce, una forma di commercio e vendita di beni o servizi che si effettua attraverso Internet, con piattaforme IT di diverso genere e struttura.

La materia è stata oggetto di più interventi da parte della Commissione Europea.

Il documento emanato dal CNDCEC e FNC in data 28.5.2018, “La fiscalità nell’economia digitale. Problematiche e scenari possibili”, riassume le proposte di carattere comunitario ed internazionale ed illustra le misure adottate dall’Italia, tra le quali:

  • la modifica all’art. 162 del TUIR, che ricomprende nella nozione di stabile organizzazione “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso”;
  • l’istituzione di un’imposta sulle transazioni digitali (c.d. web tax: essendo però inutilmente decorso il termine entro cui avrebbe dovuto essere emanato il decreto attuativo, la prospettata entrata in vigore a decorrere dal 2019 è incerta).

 

 

Economia digitale e crisi dei modelli tradizionali

L’economia digitale costituisce un enorme passo in avanti rispetto ai tempi in cui le imprese e i gruppi multinazionali dovevano strutturarsi con più sedi nei vari Paesi, in ragione delle mille difficoltà relative alle comunicazioni, al cambio valuta, ai dazi, ai costi di trasporto.

Infatti:

  • l’evoluzione della tecnologia ha consentito l’ampliamento della possibilità per i privati consumatori di fare acquisti online e per le imprese di vendere prodotti e servizi a consumatori di tutto il mondo senza la necessità di essere fisicamente presenti nel Paese del consumatore;
  • i consumatori in tutto il mondo possono essere facilmente raggiunti dall’“offerta”, non soltanto per la vendita effettiva di beni e servizi, ma anche per la veicolazione della pubblicità;
  • la più semplice acquisizione e gestione delle informazioni e dei dati (“big data”) ha messo “il dato” al centro del nuovo modo di fare pubblicità, più mirata e personalizzata sulla base delle più probabili esigenze del consumatore.

 

In questa prospettiva, l’avvento dei servizi digitali ha reso inutile la presenza fisica degli operatori sul territorio.

Tuttavia, lo sviluppo dell’economia dematerializzata ha sollevato notevoli problematiche fiscali a livello internazionale, la cui soluzione richiede necessariamente azioni coordinate a livello sovranazionale, multilaterale o bilaterale.

Come rilevato nel documento del CNDCEC – FNC, l’economia digitale e i relativi risultati economici dipendono da attività immateriali, costituite dai dati degli utenti e da metodi avanzati di raccolta e trattamento di tali dati. L’approccio utilizzato, completamente innovativo, guarda non all’ubicazione delle strutture dell’impresa, materiali ed umane, dedicate alla produzione dei servizi digitali o al mantenimento dell’interfaccia digitale, ma al luogo in cui sono ubicati gli utenti stessi.

Da ciò conseguono varie problematiche relative all’individuazione del luogo in cui gli utenti sono collocati quando accedono all’interfaccia digitale e alla ripartizione territoriale del profitto dell’impresa in funzione di parametri quali il numero degli utenti, il grado di intensità e le modalità di accesso alla interfaccia digitale.

 

 

Gli interventi in corso

Le disposizioni “in progress”, per ora, si rinvengono nella legge di bilancio 2018, che contiene alcuni interventi in materia di stabile organizzazione e di imposizione sui servizi digitali.

Sotto il profilo delle iniziative internazionali, va rammentata l’Azione 1 del piano contro l’erosione della base e lo spostamento degli utili (Base Erosion and Profit Shifting Project – BEPS), predisposto dall’OCSE/G20.

Tra gli interventi in tale sede previsti:

  • la modifica dell’elenco delle eccezioni alla definizione di stabile organizzazione, per garantire che ciascuna di esse sia limitata alle attività che sono di carattere preparatorio o ausiliario e l’introduzione di una regola anti-frammentazione;
  • la modifica della definizione di stabile organizzazione per affrontare talune situazioni che possono interessare le vendite online;
  • la messa a punto delle regole sulle CFC per includere nel reddito da assoggettare a tassazione in capo alla società controllante estera quello prodotto dall’impresa controllata operante nell’economia digitale.

 

La Commissione UE è intervenuta a più riprese sul tema, in particolare presentando, il 21.3.2018, due proposte di direttiva che prevedono:

  1. un intervento di tipo strutturale sulle regole in materia di individuazione e tassazione della stabile organizzazione, introducendo il concetto di “presenza digitale significativa” quale nesso di imponibilità del reddito prodotto in un determinato Paese e prevedendo regole per l’attribuzione del profitto a tale presenza digitale significativa;
  2. un intervento di tipo congiunturale e temporaneo, attraverso l’introduzione di una web tax sui ricavi di taluni servizi digitali da pagare nel Paese in cui essi vengono fruiti.

 

La proposta di direttiva

La proposta di direttiva COM (2018) 147 final in materia di presenza digitale significativa stabilisce la tassazione in un determinato Paese del reddito ivi prodotto da una società residente in un altro Stato mediante una “presenza digitale significativa” (PDS), cioè la “stabile organizzazione” delle società dell’economia digitale.

Le regole di tale direttiva si applicano, in presenza di una PDS in uno Stato Ue, per i seguenti soggetti:

  • società residenti in un altro Stato UE;
  • società residenti in uno Stato extra UE con il quale non è in vigore una convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni;
  • società residenti in uno Stato extra UE in presenza di una convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni, ma solo se la convenzione prevede regole simili a quelle previste dalla direttiva.

 

La direttiva trova applicazione in presenza di un servizio, digitale, definito come “un servizio fornito attraverso internet o attraverso una rete elettronica, la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata e richiede un intervento umano minimo”.

La semplice vendita di beni o servizi mediante internet (commercio elettronico) non è considerata un servizio digitale.

Sono considerati “servizi digitali”, tra gli altri:

  1. la fornitura di prodotti digitali in generale, compreso il software;
  2. i servizi che veicolano o supportano la presenza di un soggetto su una rete elettronica, quali un sito o una pagina web;
  3. i servizi automaticamente generati da un computer attraverso internet o una rete elettronica, in risposta a dati specifici immessi dal destinatario;
  4. la concessione, a titolo oneroso, del diritto di mettere in vendita un bene o un servizio su un sito internet che operi come mercato online;
  5. le offerte forfettarie di servizi internet (Internet service packages, ISP) nelle quali la componente delle telecomunicazioni costituisce un elemento accessorio e subordinato.

 

Non rientrano invece nella definizione di servizi digitali i servizi di tele-radiodiffusione, di telecomunicazione, etc.

Circa la nozione di PDS, che deve ricorrere affinché una determinata impresa venga considerata attiva (e quindi tassabile) in un determinato Stato, si precisa che la PDS viene configurata quando l’attività svolta dalla società in uno Stato membro è costituita in tutto o in parte dalla fornitura di “servizi digitali” (presupposto oggettivo) e risulta soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni riguardanti la significatività dell’attività:

  1. ricavi derivanti da servizi digitali resi a utenti situati nello Stato membro superiori ad euro 7 milioni nel periodo di imposta;
  2. numero di utenti (privati o imprese) dei servizi digitali situati nello Stato membro superiore a 100 mila nel periodo di imposta;
  3. numero di contratti commerciali (conclusi con imprese dello Stato membro) per la fornitura di servizi digitali superiore a 3 mila nel periodo di imposta.

 

Ai fini della verifica delle prime due condizioni, l’utente si considera situato in un determinato Stato membro se utilizza un dispositivo in tale Stato membro per accedere all’interfaccia digitale mediante la quale sono forniti i servizi digitali. Lo Stato in cui il dispositivo è utilizzato si determina con riguardo all’indirizzo di protocollo internet del dispositivo (oppure in base ad altro metodo di geolocalizzazione, se più accurato).

 

 

La tassazione degli utili

La proposta di direttiva 147 prevede che gli utili attribuibili a una PDS in uno Stato membro sono soggetti “unicamente” al regime di imposta sulle società di tale Stato membro: si tratta di una disposizione che va in senso contrario rispetto a quanto generalmente previsto dalle convenzioni bilaterali per le stabili organizzazioni.

L’attribuzione del profitto alla PDS seguirebbe il criterio previsto per le stabili organizzazioni, ipotizzando l’esistenza di un’entità distinta ed indipendente che svolge attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe, tenendo conto delle funzioni esercitate, degli attivi utilizzati e dei rischi assunti, attraverso un’interfaccia digitale.

Il metodo per attribuire il profitto alla PDS è il “profit split”, cioè il metodo della ripartizione dell’utile, fondato sull’analisi della suddivisione degli utili netti effettuata da entità collegate per transazioni infragruppo, e sul conseguente paragone con l’utile che soggetti indipendenti avrebbero ottenuto per operazioni analoghe.

Come fattori di ripartizione dell’utile complessivo si guarderebbe alle spese sostenute per la ricerca, lo sviluppo e la commercializzazione, nonché il numero di utenti e i dati raccolti in ciascuno Stato membro. Sarebbe però consentito l’utilizzo di un altro metodo, tra quelli accettati a livello internazionale, laddove si dimostrasse la sua maggior adeguatezza, visti i risultati dell’analisi funzionale.

Come è stato rilevato, le innovazioni in sede UE sono destinate a rimanere frustrate fino a quando le convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni non seguiranno la stessa via (in particolare con riguardo alla PDS).

Le regole della proposta di direttiva COM (2018) 147 final trova infatti applicazione solo nei confronti delle società residenti nella UE e in Paesi extra-UE con i quali non risulta stipulata alcuna convenzione contro le doppie imposizioni. Per le società extra-UE con i quali la convenzione bilaterale è stipulata, l’innovazione si applicherà invece solo a condizione che la convenzione contenga a propria volta regole simili[1].

 

 

L’imposta sui servizi digitali

Il secondo intervento proposto dalla Commissione Europea in materia di economia digitale consiste nell’introduzione di una Imposta sui Servizi Digitali (ISD) da applicare, nella misura del 3%, sui ricavi derivanti da servizi digitali forniti da società di grande dimensione.

L’ISD è finalizzata a tassare, nel Paese in cui vengono prodotti, i ricavi generati da servizi digitali che si caratterizzano per la creazione di valore da parte degli utenti, cioè per i quali la partecipazione degli utenti ad una attività digitale (accesso, navigazione ed uso di interfacce digitali come siti web, social network e applicazioni in genere) costituisce un contributo fondamentale per la produzione dei ricavi.

L’imposta sarà rivolta alle sole società di rilevante dimensione, per le quali, nel periodo di imposta, siano verificate contestualmente queste due condizioni:

  • importo totale dei ricavi a livello mondiale superiore a 750 milioni di euro;
  • importo totale dei ricavi imponibili nell’UE superiore a 50 milioni di euro.

L’imposta colpirà i ricavi imponibili, cioè quelli derivanti:

  1. dalla fornitura di servizi consistenti nella collocazione su di un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti;
  2. dalla trasmissione di dati raccolti sugli utenti e generati dalle attività dagli stessi effettuate sulle interfacce digitali;
  3. dai servizi di “intermediazione”, consistenti nella messa a disposizione degli utenti di interfacce digitali multilaterali, che permettono agli utenti di trovare altri utenti e di interagire con essi, eventualmente agevolando cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra loro.

Il luogo di assoggettamento dei ricavi imponibili segue le regole generali indicate nella direttiva 147: Stato membro in cui si trovano gli utenti del servizio che ha generato i ricavi imponibili (a prescindere dal fatto che tali utenti abbiano contribuito finanziariamente a generare i ricavi).

Sui ricavi imponibili si applicherà l’ISD nella misura del 3%, con esigibilità dal primo giorno lavorativo successivo alla chiusura di ciascun periodo di imposta.

Responsabile per il pagamento della ISD è lo stesso soggetto passivo che fornisce i servizi da cui si generano i ricavi imponibili. In un gruppo è consentito designare un’unica società quale responsabile del pagamento dell’imposta per tutto il gruppo.

Il soggetto passivo deve identificarsi nello Stato membro in cui produce i ricavi imponibili (eventualmente differente dallo Stato in cui risiede ai fini dell’imposta sulle società) e in tale Stato, attraverso uno sportello unico, presenterà la dichiarazione e verserà l’imposta. Se il soggetto passivo produce ricavi in più Stati membri (e deve conseguentemente versare l’ISD a più Stati) adempierà agli obblighi (dichiarazione e versamento) nel solo Stato membro di identificazione. Questo Stato trasmetterà le informazioni agli altri Stati membri.

 

 

La ridefinizione della stabile organizzazione

Oltre alle innovazioni che riguardano più direttamente l’economia digitale, sono intervenute in tempi recenti alcune novità di “corollario”, riferibili in particolare alla nuova definizione di stabile organizzazione e alla previsione di una nuova forma di prelievo sulle transazioni digitali (web tax).

In particolare, in forza della nuova lettera f-bis) del comma 2 dell’art. 162 del TUIR (introdotta dal comma 1010 dell’art. 1 della legge di bilancio), è “stabile organizzazione” anche “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso”.

Inoltre, l’intervento della legge di bilancio ha comportato l’espunzione, dalle ipotesi che “non sono” stabile organizzazione (art. 162, comma 5), della “disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e sevizi”.

L’effetto combinato dei due interventi rende superfluo, per la configurazione di una stabile organizzazione in Italia, l’elemento aggiuntivo costituito, nell’ambito di una struttura organizzativa articolata, di personale e di risorse strumentali destinate alla specifica attività, tali da configurare in maniera evidente una sede fissa d’affari volta in concreto allo svolgimento dell’attività all’interno dello Stato, e non un mero supporto per attività di fatto svolte all’estero e, semplicemente, “canalizzate” telematicamente nel territorio dello nazionale.

Secondo il CNDCE – FNC, la nozione di “presenza significativa e continuativa” dovrebbe potersi materializzare solo in presenza di ulteriori elementi, quali (a titolo esemplificativo):

  • la disponibilità di un nome di dominio locale;
  • l’adattamento dei contenuti della piattaforma tecnologica utilizzata al gusto, alla cultura, al quadro normativo nazionale (per esempio in materia di quantificazione dei prezzi e/o di predisposizione delle clausole generali di vendita).

Queste nuove previsioni, tuttavia, interessano il solo diritto interno, e sono destinate a soccombere in presenza di contrarie previsioni degli accordi internazionali, sovraordinati nella gerarchia delle fonti del diritto.

 

 

L’imposta sulle transazioni digitali

I commi 1011 – 1019 dell’art. 1 della legge di bilancio configurano una nuova forma di prelievo, volto a colpire principalmente le transazioni digitali B2B, la cui identificazione è demandata ad un decreto ministeriale.

In termini generali, è comunque stabilito che verranno assoggettati al prelievo i servizi:

  • forniti attraverso internet o una rete elettronica;
  • la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione.

L’imposta colpirà il corrispettivo della transazione (al netto dell’IVA), in misura pari al 3%, se il fornitore di servizi digitali (residente oppure non residente, a prescindere dal luogo di perfezionamento del contratto) avrà realizzato nel corso del medesimo anno solare almeno 3000 operazioni, qualunque ne sia l’importo.

Operando – nel contesto B2B – un meccanismo di rivalsa (il cliente / committente liquida l’imposta e si rivale sul fornitore), e che il prestatore dei servizi digitali viene esentato dal prelievo se dichiara in fattura di collocarsi al di sotto del previsto limite di operazioni, si profilano potenziali problemi per il committente, che potrebbe incolpevolmente fidarsi di una dichiarazione non veritiera dalla sua controparte, esponendosi così al rischio di sanzioni.

AL prelievo in questione viene riconosciuta natura di imposta indiretta che colpisce il corrispettivo della transazione, accostata all’IVA per quanto riguarda l’accertamento, i profili sanzionatori, la riscossione e il contenzioso, previa verifica della loro compatibilità.

Il versamento dell’imposta è un adempimento a carico del cliente, che deve operare la ritenuta al momento del pagamento del corrispettivo al fornitore dei servizi per poi procedere mediante versamento diretto ordinariamente entro il giorno 16 del mese successivo.

La natura assegnata al tributo crea dei problemi per quanto attiene al diritto allo scomputo da parte del prestatore del servizio estero, il quale non si potrà avvalere delle convenzioni contro le doppie imposizioni, efficaci solo in materia di imposizione reddituale. Nei confronti del fornitore di servizi digitali nazionale, non spetta invece il diritto alla deduzione, a meno che venisse riconosciuta l’applicazione del principio di derivazione (come si evincerebbe dal paragrafo 49 dell’OIC 12, trattandosi di “imposta connessa con la prestazione dei servizi”).

Va inoltre considerato che, soprattutto in presenza di un fornitore dotato di “notevole forza contrattuale”, l’onere dell’imposta potrebbe essere traslato economicamente sulla controparte, incrementando i costi di acquisto per l’acquirente o per i suoi “aventi causa” lungo la catena del valore.

Anche relativamente a tali previsioni è stato rilevato che (a prescindere dalle vicissitudini delle future disposizioni attuative) esse potranno operare concretamente solo se verranno cambiate anche le norme convenzionali internazionali[2].

 

 

Le criptovalute

criptovalute in bilancioSempre in materia di economia digitale, è opportuno considerare quanto è stato affermato dall’Agenzia delle Entrate nei propri recenti orientamenti interpretativi riguardanti le criptovalute.

Al riguardo si osserva che il termine “valuta”, si riferisce in generale alle monete in circolazione e ai titoli fiduciari che le rappresentano. “Criptovaluta” è invece una valuta solo in senso lato, non ufficialmente coniata ed emesse da alcun istituto bancario centrale e non prevista come avente corso legale all’interno di uno o più Stati.

La Banca d’Italia (comunicazione 30.1.2015) parla di “valute virtuali”, definendole come “rappresentazioni digitali di valore non emesse da una banca centrale o da un’autorità pubblica”, che non sono necessariamente collegate a una valuta avente corso legale, ma sono utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento e possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Questi strumenti non sono moneta legale e non devono essere confuse, secondo la Banca d’Italia, con la moneta elettronica.

Le criptovalute non hanno natura fisica, ma digitale, essendo create, memorizzate e utilizzate non su supporto fisico bensì su dispositivi elettronici (ad esempio gli smartphone), nei quali vengono conservate in “portafogli elettronici” (“wallet”).

In particolare, i bitcoin sono generati mediante la creazione di algoritmi matematici, tramite un processo di “mining” (“estrazione”); un apposito software consente lo scambio dei codici criptati tra gli utenti (user), che possono essere sia operatori economici che soggetti privati. Si entra in possesso dei bitcoin acquistandoli in cambio di valuta legale, oppure accettandoli come pagamento per la vendita di beni o servizi.

Gli user utilizzano le monete virtuali in alterativa alle valute tradizionali come mezzo di pagamento per regolare gli scambi di beni e servizi, ma anche per fini speculativi attraverso piattaforme on line che consentono lo scambio di bitcoin con altre valute tradizionali sulla base del relativo tasso cambio.

In forza di un orientamento consolidato (risoluzione n. 72/E del 2.9.2016, a propria volta fondata sull’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 22.10.2015 – causa C-264/14), l’Agenzia delle Entrate considera le criptovalute (tra le quali i bitcoin) come sostanzialmente equiparate, ai fini fiscali, alle valute straniere.

Pertanto:

  • le plusvalenze derivanti da cessioni a termine danno luogo a prelievo sostitutivo del 26% [art. 67, comma 1, lett. c-ter), Tuir];
  • le cessioni a pronti (anche sotto forma di prelievo dai relativi conti o depositi) originano plusvalenze imponibili a patto che “nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni di lire (euro 51.645,69) per almeno sette giorni lavorativi consecutivi” [art. 67, commi 1, lettera c-ter), e 1-ter), TUIR];
  • trattandosi di “altre attività finanziarie”, la consistenza dei depositi alla fine di ciascun anno è soggetta a monitoraggio fiscale;
  • tale consistenza non è invece soggetta ad IVAFE (nemmeno espressa in valore assoluto), in quanto si tratta di un’imposta destinata a colpire soltanto i conti ed i depositi di natura bancaria.

 

Secondo quanto argomentato dal CNDCEC – FNC, la soluzione adottata dall’Agenzia (equiparazione alle valute estere) è “di comodo”: la richiamata sentenza comunitaria sancisce infatti l’equiparazione tra valute virtuali e valute estere in un procedimento ai fini IVA, nella misura in cui “tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento”.

Al riguardo, è anche osservato che il Consiglio di Stato francese ha equiparato i guadagni derivanti dalla compravendita di criptovalute alle plusvalenze su beni mobili, modificandone radicalmente il regime impositivo.

 

Fabio Carrirolo
21 giugno 2018

 

NOTE

[1] Cfr. Zanetti E., “Disciplina fiscale dell’economia digitale incisiva solo con un intervento OCSE”. Eutekne.info, 29.5.2018.

[2] Cfr. Zanetti, cit.