La nuova tassa sulle locazioni turistiche

uno dei provvedimenti di maggior impatto della manovra di primavera è la scelta di applicare una ritenuta sulle locazioni turistiche brevi pagate tramite portali internet (il più noto è Airbnb): l’esplozione dei servizi digitali ha creato un nuovo mercato che può far sfuggire alla tassazione tantissime locazioni

Spesometro L’economia della collaborazione digitale o sharing economy promuove lo sfruttamento delle risorse grazie a tutte quelle piattaforme che mettono in contatto le persone per affittare, condividere, scambiare, vendere beni, competenze, tempo, denaro, spazio.

I servizi che rientrano in questo perimetro possiedono, così, le seguenti caratteristiche.

1) Promuovono lo sfruttamento delle risorse incoraggiando l’accesso invece della proprietà e il riuso invece dell’acquisto.

2) L’azienda che li offre è una piattaforma abilitatrice; non eroga servizi o prodotti dall’alto verso il basso, ma agisce da abilitatrice, mettendo direttamente in contatto chi cerca con chi offre (modello peer-to-peer). Può offrire, inoltre, servizi di valore aggiunto in termini di organizzazione dell’ambiente in cui avvengono le interazioni senza però influenzare gli attori che in tale ambiente interagiscono.

3) Gli asset che generano valore per le piattaforme (beni e competenze) appartengono alle persone e non alla compagnia, come avviene invece nelle aziende tradizionali.

4) La collaborazione è al centro del rapporto. Le persone attraverso questi servizi entrano in relazione fra loro collaborando. Si può collaborare mettendo in comune il bene temporaneamente senza modificarne la proprietà, o in maniera permanente cedendo la risorsa non più utilizzata. In entrambi i casi la transazione può essere mediata dal denaro, oppure no.

Tra i tratti distintivi dell’economia collaborativa è possibile dunque individuare alcuni elementi comuni, ossia l’utilizzo comune di una risorsa in modo differente dalle forme tradizionali di scambio; la relazione peer-to-peer, ossia il rapporto orizzontale tra i soggetti coinvolti che si distingue dalle forme tradizionali di rapporto tra produttore e consumatore; la presenza di una piattaforma digitale che supporta tale relazione e in cui in genere è presente un meccanismo di reputazione digitale e le transazioni avvengono tramite pagamento elettronico.

Le forme e gli oggetti della condivisione possono essere i più svariati, dai beni fisici come i mezzi di trasporto fino ad arrivare ad accessori, prodotti digitali, spazi, tempo, competenze e servizi, il cui valore non necessariamente può essere determinato in denaro e può tenere in considerazione elementi generalmente esclusi dalle tradizionali logiche di scambio.

In Italia, secondo uno studio di Collaboriamo.org e dell’università Cattolica, le piattaforme collaborative nel 2015 erano 186 (+34,7% rispetto al 2014).

Anche la Commissione europea cita uno studio (Consumer Intelligence Series: The Sharing economy. Pwc 2015) secondo cui la sharing economy è potenzialmente in grado di accrescere le entrate globali dagli attuali 13 miliardi di euro circa a 300 miliardi di euro entro il 2025.

Una compiuta regolamentazione del fenomeno consentirebbe dunque, senz’altro, l’emersione di un ampio segmento di economia informale relativo ai servizi tipicamente riconducibili alla sharing economy e che oggi sfuggono in gran parte anche a tassazione.

Il modello prevalentemente adottato dalle piattaforme italiane è quello tipico delle piattaforme collaborative (applicato per esempio da Airbnb e Blablacar): la percentuale sul transato.

Esistono comunque anche altre forme di revenue per le piattaforme come per esempio le consulenze e la vendita di servizi o prodotti alle imprese.

Il 25% delle piattaforme offre anche servizi aggiuntivi che, in alcuni casi servono per aumentare la visibilità e dunque il numero di utenti quali per esempio promozioni e sconti, crediti virtuali o la possibilità di acquistare i beni noleggiati.

In conclusione, la sharing economy rappresenta senz’altro un mondo molto complesso e variegato.

Alla luce di quanto sopra indicato bisognerebbe capire prima di tutto:

  • su quali tipi di piattaforme intervenire (solo quelle che intermediano in cambio di compensi, o anche quelle che si limitano a mettere in contatto le persone, avendo poi presumibilmente comunque un ritorno economico [magari sotto forma di inserzioni pubblicitarie o altro]);

  • quali tipi di redditi oggi non vengono intercettati (i compensi per le intermediazioni, i proventi pubblicitari, i compensi per le prestazioni accessorie, etc)

  • quali problematiche le diverse fattispecie presentano (mancanza di sede in Italia per quelle estere, mancata dichiarazione di redditi [e in quali diversi modi] per quelle che si camuffano sotto forme non imprenditoriali etc)

  • distinguere la disciplina e le relative soluzioni ai fini fiscali per le piattaforme da quella per le persone che a tali piattaforme si appoggiano

  • capire quanti e quali tipi di realtà economiche gravitano intorno a questa economia (i drivers che accompagnano i turisti dall’aeroporto agli appartamenti affittati, i soggetti che gestiscono gli appartamenti per conto dei proprietari, chi fa le pulizie ed altri servizi accessori)

  • quali sono i riflessi Iva coinvolti nella disciplina.

E anche in questo caso, del resto, altri Paesi si sono già mossi.

A partire dal 1 agosto 2016 gli ospiti che, tramite la piattaforma di Airbnb, prenotano alloggi situati ad Ajaccio, Annecy, Antibes, Avignon, Biarritz, Bordeaux, Cannes, La Rochelle, Lille, Lione, Marsiglia, Montpellier, Nantes, Nizza, Saint-Malo, Strasburgo, o Toulouse sono infatti soggetti al pagamento della Tassa turistica, con riscossione diretta da parte della società che gestisce la piattaforma telematica (e successiva remissione nelle casse dell’Erario).

Al momento, del resto, Airbnb sta riscuotendo e rimettendo le tasse per conto dei suoi host anche in altre città della Francia (Parigi in testa), in India, a titolo di tassa sui servizi (e alla non irrisoria aliquota del 14,5% del prezzo dell’alloggio, incluse anche le spese di pulizia, ridotto del 40%), nei Paesi Bassi, relativamente alla tassa turistica di Amsterdam, alla non irrisoria aliquota del 5% del prezzo dell’alloggio (incluse le spese di pulizia), in Portogallo, per la tassa di soggiorno sugli alloggi situati a Lisbona (da 1 a 7 euro a notte a persona) e naturalmente negli Stati Uniti, con differenti discipline a seconda degli Stati interessati, e comunque con riferimento, anche in tal caso con aliquote percentuali anche di un certo rilievo (anche fino al 14% del prezzo dell’alloggio), a diversi tipi di tasse: dalla tassa statale di soggiorno, alla tassa di contea sul soggiorno, alla tassa comunale di soggiorno, alla tassa alberghiera, alla tassa sul valore aggiunto, alle tasse alberghiere e alla tassa dell’affitto.

E solo per citarne alcune.

Gli host residenti in queste zone sono del resto responsabili per il calcolo di tutte imposte applicabili (in Alabama gli host sono anche responsabili della riscossione di tutte le tasse municipali e comunali che non sono riscosse dallo Stato), autorizzando Airbnb, nelle giurisdizioni dove la società facilita tale riscossione, a riscuotere e pagare le tasse di soggiorno a loro nome.

Prendendo spunto comunque dalle esperienze già in atto all’estero (soprattutto in Paesi UE) sarebbe opportuno quindi anche in Italia, sia per dare certezza agli operatori, sia per evidenti ritorni positivi per le casse dell’Erario, seguire strade analoghe.

Concentrandosi sul fenomeno immobiliare (forse, da un punto di vista economico quello più rilevante e comunque quello più facilmente intercettabile) la strada tracciata (poi infatti seguita nella “Manovrina” in corso di definizione) è la seguente:

  1. definire i canali, le piattaforme di distribuzione, le agenzie di intermediazione e le società di gestione come sostituti di imposta con ritenuta alla fonte sia per la cedolare (estesa a tutti tali soggetti, anche per farli emergere) che per l’imposta di soggiorno dei Comuni;

  2. tutti questi operatori professionali dovrebbero avere l’obbligo di inviare, ai singoli proprietari, un riassunto dei redditi annuali delle transazioni effettuate (una sorta di CUD dell’immobile).

E comunque, come detto, almeno per il settore degli affitti turistici, anche l’Italia alla fine si è mossa e con la recente “Manovrina” ha finalmente stabilito che le piattaforme online che si occupano di affitti turistici fungano da sostituti di imposta.

Nella manovra correttiva dei conti 2017 si stabilisce infatti una stretta sugli affitti brevi, ovvero quelli di durata inferiore ai 30 giorni (i classici affitti turistici), stabilendo, da un lato, la possibilità di pagare la cedolare secca al 21% anche per questo tipo di locazioni (anche se, a dire il vero, tale conclusione era già di fatto avallata sulla base di una interpretazione dell’Agenzia delle Entrate stessa) e dall’altro che l’imposta venga direttamente riscossa, con ritenuta alla fonte, da parte degli intermediari, anche quando questi operino attraverso portali online.

In altre parole le piattaforme telematiche attraverso cui avviene lo “scambio” diventano sostituti d’imposta, e al momento del pagamento trattengono l’importo relativo alla cedolare secca, che dunque viene sottratto automaticamente dalla cifra che riceverà l’host.

Infine sarà sempre il portale a dover versare la somma dovuta all’erario.

E sempre l’intermediario dovrà comunicare all’Agenzia delle Entrate i contratti conclusi e rilasciare annualmente a chi affitta la certificazione unica (Cu) contenente gli importi percepiti e le ritenute effettuate.

La violazione di tali regole comporterà del resto delle sanzioni, per l’intermediario, pari a 2.000 euro.

Le regole valide per i portali web dovranno peraltro essere applicate anche dagli intermediari, come le agenzie immobiliari, obbligati sia a segnalare i contratti conclusi che ad effettuare la ritenuta d’acconto sugli importi ricevuti.

La legge introduce dunque ora una misura antievasione. È proprio infatti per l’altissima percentuale di evasione che le nuove regole si sono rese necessarie.

Il problema giuridico più rilevante resta quello di come far fare il sostituto di imposta ad un soggetto estero.

Sulla medesima linea si erano comunque già mossi alcuni Comuni, laddove, per esempio, il Comune di Firenze aveva siglato un Protocollo con Airbnb per la riscossione dell’imposta di soggiorno, stabilendo, tra le altre cose, che con spirito di volontaria collaborazione (ora in realtà soppiantato da norma imperativa), il Comune e la società intendevano collaborare al fine di giungere ad un insieme di regole che consenta la creazione di un sistema di raccolta dell’imposta di soggiorno, impegnandosi per la creazione di un sistema che permettesse alla piattaforma di raccogliere, per conto dei propri host, l’imposta di soggiorno, per poi riversarla al Comune.

Proprio su tali modalità applicative, dopo la norma, si dovrà comunque attendere il decreto attuativo dell’Agenzia delle Entrate.

26 aprile 2017

Giovambattista Palumbo