Gli acquisti da fornitori black list

ecco quali sono le condizioni per la deducibilità dei costi, quando gli acquisti sono effettuati da imprese aventi sede in stati a regime fiscale privilegiato

Cause esimenti individuate dall’art. 110 c. 11 TUIR.

L’articolo 110, comma 10 del TUIR n. 917/1986 , prevede che

“non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori diversi da quelli indicati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis”.

 

Tale norma sancisce il principio dell’indeducibilità dal reddito di impresa dei costi sostenuti con soggetti localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata.

Tale principio, tuttavia, non opera se il contribuente dimostri ex articolo 110 comma 11 del TUIR n. 917/1986 alternativamente:

a) che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva;

b) che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

 

La norma prevede la possibilità di utilizzare due esimenti, alternative tra loro:
  • la prima, connotata dal fatto che il fornitore estero svolga prevalentemente un’attività commerciale effettiva e che le operazioni poste in essere abbiano avuto concreta esecuzione;

  • la seconda, qualificata dalla rispondenza ad un effettivo interesse economico delle operazioni intercorse con il fornitore estero e dal fatto che le stesse abbiano avuto concreta esecuzione.

I costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti o domiciliati in Paesi diversi da quelli inclusi nella white list (Paesi Black List) sono deducibili a norma dell’art. 110, c. 11, TUIR n. 917/1986 solo quando il contribuente sia in grado di dimostrare l’esistenza delle esimenti previste dal medesimo art. 110, ovvero che:

  • la controparte residente nel Paese Black List svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva;

  • o, alternativamente, le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico del contribuente e che le stesse hanno avuto effettiva e concreta esecuzione.

Sono deducibili i costi sostenuti all’estero con Paese a fiscalità privilegiata se si dimostra che le aziende degli Stati appartenenti alla black list svolgono attività commerciale effettiva. La spesa corrispondente a importazioni dai paesi inclusi nella black list è deducibile quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva.

Per dedurre i costi black list le imprese residenti in Italia devono fornire la prova che i soggetti esteri svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

 

Prove

Tali esimenti possono essere dimostrate dal contribuente in sede di controllo, nel termine di 90 giorni decorrenti dalla ricezione dell’apposito avviso ai sensi dell’art. 110, c. 11, TUIR; ovvero, in via preventiva, attraverso la presentazione di un’istanza di interpello alla competente Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate.

L’Amministrazione, prima di emettere l’accertamento deve chiedere all’interessato di fornire le prove entro 90 giorni.

L’Agenzia delle Entrate deve obbligatoriamente notificare al contribuente un’apposita richiesta di chiarimenti per consentire di dare prova delle suddette esimenti prima di emettere eventuale avviso di accertamento.

L’inidoneità delle prove dovrà risultare dalla motivazione dell’accertamento.

Tali prove possono essere fornite:

  • in sede di controllo, entro 90 giorni dalla ricezione dell’apposito avviso ai sensi dell’art. 110, c. 11, TUIR;

  • in via preventiva, per il tramite della Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate competente per il territorio in relazione al domicilio fiscale del contribuente, mediante la presentazione di un’apposita istanza di interpello ai sensi dell’art. 21, legge n. 413/1991.

Le prove possono essere addotte prima di effettuare la transazione con una società estera, presentando all’Agenzia delle Entrate apposita istanza di interpello antielusivo, ai sensi dell’art. 11, c. 13, legge 30 dicembre 1991, n. 413, oppure in sede di controllo fiscale.

Il contribuente potrà dimostrare quanto sopra presentando istanza di interpelloex art. 21, legge n. 413/1991 in via preventiva prima della presentazione della dichiarazione, oppure successivamente, in sede di verifica.

 

Effettivo interesse economico

Sussiste la necessità per il contribuente di dimostrare la logica economica sottesa alla scelta di istaurare rapporti economici con un fornitore residente in un Paese a fiscalità privilegiata, evidenziando eventualmente la sussistenza di oggettivi e significativi vantaggi economici che verrebbero meno qualora si acquistasse da un altro fornitore.

Prezzi competitivi, puntualità e serietà del fornitore costituiscono un effettivo interesse economico per consentire la deduzione di spese sostenute con soggetti ubicati in Stati a fiscalità privilegiata (Cassazione, Sentenza 8 maggio 2013, n. 10749).

L’effettivo interesse economico che ha indotto l’imprenditore ad approvvigionarsi da un’impresa residente in un paese a fiscalità privilegiata può essere dimostrato grazie alla comparazione tra il prezzo pagato e quello che si sarebbe sostenuto con altri fornitori, sia stranieri sia italiani. Il confronto tra prezzi può essere limitato a un campione significativo di acquisti. (CTR Lombardia, sentenza n. 33/22/2013).

La competitività del fornitore e l’utile realizzato nel periodo di imposta possono giustificare la deducibilità fiscale dei costi black list.

Risulta, infatti, provato l’effettivo interesse economico del contribuente italiano nel sostenere spese verso fornitori ubicati in Paesi a fiscalità privilegiata, vale a dire una delle esimenti che consentono lo sgravio fiscale degli esborsi sostenuti all’interno della dichiarazione dei redditi (CTr Lombardia, sentenza n. 138/35/12).

Sussiste sempre un effettivo interesse economico dell’impresa quando pone in essere un’operazione in grado di produrre profitto, nell’ambito della specifica natura dell’attività esercitata, a prescindere dalla dimostrata maggiore convenienza (CTR Marche sez. II del 22-06-2010 n. 5).

Ai fini della dimostrazione della sussistenza di un effettivo interesse economico all’acquisto di beni da parte di società residenti nei confronti di soggetti residenti in paesi a fiscalità privilegiata per la disapplicazione dell’art. 110, c. 10, TUIR, non è necessario produrre documenti sensibili e strettamente connessi alle attività del soggetto estero (quali i conti correnti bancari e le movimentazioni finanziarie), ma è sufficiente altra documentazione che dimostri il collegamento fisico della struttura con il territorio (CTP Milano del 20-12-2010 n. 338).

 

Onere probatorio

Al fisco basta invocare l’indeducibilità dei costi da paesi black list per scaricare sul contribuente l’onere della prova sulla sussistenza delle condizioni per poterli dedurre a norma dell’articolo 110, comma 11 del Tuir (Cass. civ. Sez. V, Sent., 29-12-2010, n. 26298).

La disposizione di legge citata, nonostante le successive modifiche intervenute, è rimasta immutata quanto al fondamentale divieto di deduzione di questo genere di spese; ed al conseguente onere (peraltro positivamente sancito: “quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova”) della parte privata di provare, nel proprio interesse, la sussistenza delle condizioni per cui il divieto può essere derogato. D’altra parte, l’onere di provare la deducibilità di un costo spetta all’impresa, secondo consolidata giurisprudenza, anche quando la deduzione non è vietata in linea di principio (Cass. nn. 3305/2009, 4218/2006, 2147412004, 11240/2002, 16198/2001, 12330/2001, 11514/2001).

La deduzione dei costi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti ed imprese domiciliate in Paesi a fiscalità privilegiata è ammessa quando le imprese residenti forniscano la prova prescritta dall’art. 110, c. 11, del D.P.R. n. 917/1986, ossia che le imprese fornitrici svolgono prevalentemente un’attività economica effettiva o che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

La prova di questi fatti è decisiva per il giudizio: in mancanza di essa, prevale la norma contenuta nell’art. 110, comma 10, del TUIR – D.P.R. n. 917/1986, per cui la spesa corrispondente ad importazioni dai Paesi inclusi nella black list è indeducibile.

Pertanto, all’Amministrazione finanziaria è sufficiente invocare il divieto legale di deduzione, mentre spetta al contribuente dimostrare l’esistenza delle condizioni per cui esso non sarebbe applicabile al proprio caso (Cass. civ. Sez. V, 29-12-2010, n. 26298).

L’esimente di cui all’articolo 110 del TUIR richiede la dimostrazione che l’attività del soggetto estero sia connotata dalla sua commercialità ed effettività; pertanto, è onere della parte esibire documentazione che ricostruisce l’attività svolta dal fornitore nello stato di residenza ovvero documentazione contabile o di bilancio dello stesso o comunque qualsiasi documentazione atta allo scopo. In alternativa la parte può fornire la prova della convenienza dell’operazione (CTP di Roma sez. 57 del 22-12-2010 n. 511).

 

Contraddittorio

La verifica delle condizioni di deducibilità dei costi black list deve essere caratterizzata da un contraddittorio effettivo. Infatti, nel confronto l’amministrazione finanziaria deve esplicitare le proprie valutazioni al contribuente permettendogli di produrre ulteriore documentazione probatoria prima di procedere all’accertamento.

L’art. 110, c. 10, TUIR reca una presunzione legale relativa in base alla quale, fino a prova contraria, sono da considerasi indeducibili, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, le spese e gli altri componenti negativi derivanti dalle transazioni intercorse fra imprese residenti ed imprese domiciliate in Stati o territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati.

Il contraddittorio che l’Amministrazione finanziaria è chiamata ad instaurare con il contribuente in base alle disposizioni legislative vigenti, deve essere effettivo e reale, al fine di portare a conoscenza dell’accertato la valutazione effettuata in merito alle prove che ha fornito per vincere la presunzione legale relativa di indeducibilità dei c.d. costi blacklist, di cui all’art. 110, c. 10, TUIR (CTR di Milano, sez. XL, 14-11-2011, n. 175).

 

 

Black list: sanzionata la mancata indicazione in dichiarazione

acquisto da fornitori in paesi a fiscalità privilegiataLe spese vanno indicate separatamente nella dichiarazione dei redditi.

L’omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi degli acquisti effettuati con operatori black list da parte delle imprese nazionali, fa scattare la sanzione proporzionale del 10%.

La prova delle esimenti non risparmia la sanzione del 10% ai contribuenti che non indicano i costi blacklist in Unico. Chi non riporta separatamente in dichiarazione i componenti negativi derivanti dalle operazioni intrattenute con operatori localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata, rischia la sanzione del 10%, indipendentemente dalla sussistenza delle prove per disapplicare la norma antielusiva.

Nella circolare n. 1/2013, l’Agenzia delle entrate ha chiarito che chi omette di indicare in dichiarazione i costi black list va incontro a una sanzione proporzionale del 10%.

La violazione è sostanziale e non formale. Anche se si riesce a dimostrare ex post la sussistenza delle esimenti richieste dal Tuir per la deducibilità degli acquisti da paesi a fiscalità privilegiata. nonostante la presenza di un’azienda estera operativa, l’omessa indicazione in dichiarazione o l’inserimento tardivo, rispetto ai controlli dell’Amministrazione finanziaria, degli acquisti effettuati con operatori black list da parte delle imprese nazionali, fa scattare la sanzione proporzionale del 10%.

 

Sanzioni

A partire dal 1° gennaio 2007, il contribuente ha l’obbligo di indicare negli appositi righi del modello UNICO il totale dei costi derivanti da operazioni con Paesi Black List e l’ammontare di quelli deducibili(1).

Per le violazioni commesse in data successiva al 1° gennaio 2007 e relative alla mancata separata indicazione in dichiarazione dei redditi dei componenti negativi di reddito la sanzione è pari al 10% di tali costi con un minimo di 500 ed un massimo di 50.000 euro.

Per quanto concerne le violazioni relative alla mancata separata indicazione in dichiarazione dei redditi dei predetti componenti negativi, essa è pari al 10% di tali costi con un minimo di 500 euro fino ad un massimo di 50.000 euro (art. 8 c. 3-bis D.Lgs. n. 471/1997).

Quando il contribuente non sia in grado di dimostrare le esimenti, pur avendo dedotto i relativi costi, si renderà applicabile la sanzione per infedele dichiarazione, che va dal 100% al 200% della maggiore imposta che ne deriva.La sanzione applicabile alle violazioni relative alla mancata prova delle esimenti, invece, è pari ad un minimo del 100% della maggiore imposta accertata a seguito dell’indeducibilità dei costi (inesistenza delle due esimenti alternative) e fino ad un massimo del 200% della maggiore imposte (art. 1 c. 2 d.lgs. n. 471/97).

La mancata prova delle esimenti determina l’applicazione della sanzione pari ad un minimo del 100% dell’imposta accertata a seguito dell’indeducibilità dei costi e fino ad un massimo del 200% sempre della maggiore imposta.Trova applicazione l’istituto del ravvedimento operoso per la presentazione di una dichiarazione integrativa.

L’omessa indicazione separata nella dichiarazione dei redditi dei costi relativi ad operazioni intercorse con soggetti paradisiaci non può essere sanata a posteriori(2) mediante la presentazione di una dichiarazione integrativa, in un tempo successivo a quello di contestazione della violazione commessa (Cassazione tributaria sentenza n. 5398 del 2012).

 

Note

1) Ai fini della deducibilità di costi sostenuti per l’acquisto di beni da soggetti residenti in Paesi black list, oltre alla sussistenza di valide ragioni economiche, è necessario che i suddetti elementi siano indicati separatamente nella dichiarazione dei redditi (CTR del Lazio, con la sentenza n. 58/10/2011 depositata il 25 febbraio 2011).

2) L’omessa indicazione separata nella dichiarazione dei redditi dei costi relativi ad operazioni intercorse con soggetti paradisiaci non può essere sanata a posteriori mediante la presentazione di una dichiarazione integrativa, in un tempo successivo a quello di contestazione della violazione commessa. Quando poi alla possibilità di presentare la dichiarazione integrativa al fine di rettificare la violazione commessa, la Corte con sentenza n. 5398 del 4 aprile 2012 ha rilevato che la stessa non può avvenire dopo che la violazione sia stata contestata. L’onere di indicazione nella dichiarazione annuale delle operazioni economiche intrattenute con soggetti residenti in Stati aventi regimi fiscali privilegiati non può essere surrogato da adempimenti successivi né è suscettibile di regolarizzazione laddove siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche (Cass. civ. Sez. V, 04-04-2012, n. 5398). L’omessa indicazione dei costi sostenuti per acquisti effettuati da paesi cd. black list (cd. paradisi fiscali, individuati dal D.M. 23 gennaio 2002) è sanabile anche a verifica conclusa, attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa. Questo è il principio enunciato dalla CTR del Veneto con la sentenza n. 38/11.

 

16 maggio 2013

Antonio Terlizzi

 


Allegato

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 8 maggio 2013, n. 10749

 

Ritenuto in fatto

1. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello principale dell’Ufficio ed accogliendo quello incidentale della parte contribuente, è stata confermata l’illegittimità dell’avviso di accertamento emesso, per IRPEG ed IRAP del 1999, nei confronti della MGT s.r.l. sulla base della ritenuta indeducibilità, ai sensi dell’art. 76, commi 7 bis e 7 ter, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo vigente ratione temporis), dei costi di acquisto di bobine fotografiche da società residente in Liechtenstein (T.C. L.C.), dalla quale la MGT era controllata.

Il giudice di merito ha ritenuto, in ordine all’appello principale, che le operazioni commerciali rispondevano ad un effettivo interesse economico (intendendo per tale non solo prezzi competitivi ma anche puntualità nelle forniture e serietà del fornitore) ed in ogni caso che non risultava sufficientemente provata l’esistenza di un rapporto di controllo tra le due società, non assumendo rilievo il fatto che il socio di maggioranza della M.G. risiedesse in Svizzera e che in questo Paese venissero inviati i pagamenti, né che la maggioranza degli acquisti fossero fatti dalla T.; quanto, poi, all’appello incidentale della società, attinente alla compensazione delle spese disposta in primo grado, la CTR ha affermato che, “data la materia trattata e la temerarietà della lite intrapresa”, l’Agenzia doveva essere condannata alle spese di entrambi i gradi.

2. La M.G.T. resiste con controricorso.

 

Considerato in diritto

1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2359 cod. civ. e dell’art. 76, comma 7 bis, del d.P.R. n. 917 del 1986, censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice a quo ha ritenuto non provata, nonostante la natura dei rapporti commerciali intrattenuti, l’esistenza di un rapporto di controllo cd. esterno tra la M.G.T. s.r.l. (quale controllata) e la società T. (quale controllante). Formula, quindi, il quesito “se, perché sussista una situazione di controllo che esclude la deducibilità delle componenti di reddito ex art. 76 DPR 917/86, si debba accertare anche la sussistenza del ed. controllo esterno, fondato su vincoli contrattuali tali da far ritenere che una società sia, nella sostanza, sotto l’influenza dominante dell’altra”.

Con il secondo motivo, denuncia il difetto di motivazione della sentenza in ordine agli elementi di fatto addotti dall’Ufficio al fine di dimostrare il detto rapporto di controllo.

Con la terza censura, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 76, comma 7 ter, del citato d.P.R. n. 917 del 1986 e dell’art. 2697 cod. civ., nella parte in cui il giudice di merito ha ritenuto provata, da parte della contribuente, l’esistenza di un effettivo interesse economico nel compimento delle operazioni contestate. Chiede, in conclusione, “se l’interesse economico di cui all’art. 76, comma 7 ter, D.P.R. 917/86 consista nella reale convenienza all’acquisto dei prodotti esteri rispetto ad analogo acquisto da imprese concorrenti” e “se l’onere di dimostrare tale convenienza incomba sulla parte che intende avvalersi del disposto di tale norma”.

Con il quarto motivo, denuncia il difetto di motivazione in ordine alla questione di cui alla doglianza precedente.

2.1. I quattro motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per stretta connessione, si rivelano inammissibili o, comunque, infondati.

2.2. I commi 7 bis e 7 ter dell’art. 76 del d.P.R. n. 917 del 1986, introdotti dalla legge n. 413 del 1991, prevedevano, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis (poi più volte modificato: cfr., ora, art. 110 del nuovo TUIR), per quanto qui interessa, che “non sono ammesse in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e società domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti alla Comunità economica europea aventi un regime fiscale privilegiato, le quali direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa ai sensi dell’art. 2359 del codice civile” (comma 7 bis); e che “le disposizioni di cui al comma 7 bis non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che le società estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione” (comma 7 ter).

2.3. Ciò posto, il giudice di merito, come detto in narrativa, dopo aver considerato sussistente la “esimente” prevista dal citato art. 76, comma 7 ter, in quanto le operazioni in esame erano rispondenti ad un effettivo interesse economico, intendendo per tale “non solo prezzi competitivi delle merci acquistate, ma anche puntualità nelle forniture e serietà del fornitore in genere”, ha poi, in ogni caso, e quindi con effetto assorbente, ritenuto non sufficientemente provato il rapporto di controllo tra le due società, considerando inadeguati a tal fine gli elementi addotti dall’Ufficio, quali il fatto che il socio di maggioranza della M.G.T. risiedesse in Svizzera, che in tale Paese venissero inviati i pagamenti e che la maggioranza degli acquisti delle bobine fosse effettuata presso la T..

Si tratta di motivazione che, per un verso, è esente dai vizi di violazione di legge denunciati nei quesiti di diritto sopra riportati (avendo il giudice a quo valutato l’esistenza di un rapporto di controllo di tipo esterno tra le società e considerato, ai fini di accertare l’interesse economico, anche l’aspetto della convenienza degli acquisti sotto il profilo della competitività dei prezzi), e, per altro verso, si fonda su accertamenti e valutazioni di fatto che si sottraggono alle censure sul piano della motivazione formulate, in termini del tutto generici, nel secondo e quarto motivo, i quali si rivelano inammissibili prima ancora che infondati per l’assenza dei requisiti prescritti, per tale tipo di censure, dall’art. 366 bis cod. proc. civ.

3. Con il quinto motivo, la ricorrente censura, infine, la sentenza per avere il giudice accolto l’appello incidentale della società, concernente la compensazione delle spese disposta in primo grado, condannando nel dispositivo l’Ufficio al loro pagamento, con “totale assenza di motivazione”, essendo la parte motiva della sentenza priva di alcun cenno della questione.

Il motivo è inammissibile.

Premesso, per completezza, che solo la compensazione delle spese processuali deve essere sorretta da motivazione, e non già l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato, atteso che il vizio motivazionale, ove ipotizzato, sarebbe relativo a circostanze discrezionalmente valutabili e, perciò, non costituenti punti decisivi idonei a determinare una decisione diversa da quella assunta (Cass. n. 2730 del 2012), deve rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza è pervenuta alla statuizione di condanna dell’Ufficio anche alle spese di primo grado “data la materia trattata e la temerarietà della lite intrapresa”.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in €. 25.000,00 per compensi, oltre €. 200,00 per esborsi ed oltre accessori di legge.