Processo tributario: niente valore alle autocertificazioni

una recente sentenza della corte di Cassazione ha negato valore, in sede processuale, alle autocertificazioni, in quanto equiparabili alla prova testimoniale

Con la sentenza n. 1662 del 24 gennaio 2013 (ud. 29 ottobre 2012) la Corte di Cassazione ha negato valore, in sede processuale, alle autocertificazioni.

Il principio espresso

L’autocertificazione ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, e ciò tanto più nel contenzioso tributario, in cui trova ostacolo insuperabile nella previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, giacchè la sua ammissione finirebbe per introdurre in tale processo – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cass. nn. 703 del 2007, 16348 del 2008, 6755 del 2010)”.

Brevi note

La questione relativa al valore da far assumere alle autocertificazioni continua a tenere banco; di fatto il dibattito non si è mai sopito.

La Corte di Cassazione (sentenza n. 4269/2002) ha, in un primo momento, riconosciuto anche al contribuente la possibilità di utilizzare in suo favore eventuali dichiarazioni a lui rese da terzi al di fuori del giudizio, nell’ottica di attuazione dei principi del “giusto processo“, fermo restando il valore di indizi.

In pratica, si è consentito1 l’utilizzo di atti notori, in cui il valore probatorio resta limitato al fatto che la dichiarazione sia stata resa in presenza di un pubblico ufficiale, ma non si estende alla rispondenza alla verità delle circostanze indicate nell’atto stesso; di dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, che sono destinate a portare a conoscenza della Pubblica Amministrazione circostanze a questa già risultanti in propri atti; di perizie giurate.

Successivamente, con la sentenza n. 703 del 29 novembre 2006 (dep. il 15 gennaio 2007), la Corte Cassazione ha assegnato alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come all’autocertificazione in genere, la natura certificativa e probatoria limitatamente al procedimento amministrativo, essendo tali atti privi di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale, trovando un limite insuperabile, in particolare nel contenzioso tributario, nell’art. 7, c. 4, del D.Lgs. n. 546/1992; anche perché, diversamente, si introdurrebbe nel processo tributario (eludendo il divieto di giuramento sancito dalla richiamata disposizione) un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato ma, anche costituito al di fuori del processo.

Con la sentenza n. 16348 dell’8 aprile 2008, depositata il 17 giugno 2008, la Corte di Cassazione ha confermato tale posizione.

E con la sentenza n. 14328 del 19 giugno 2009 (ud. del 28 maggio 2009) la Cassazione, proprio in ordine all’efficacia probatoria della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, ha rilevato che “è principio generale del nostro ordinamento quello secondo cui nessuno può costituire titoli di prova a favore di se stesso, essendo giustificato il sospetto che chi affermi o neghi un dato fatto possa farlo anche contro la verità, mosso dal proprio interesse. Ne deriva che la prova a favore può provenire soltanto da terzi mentre una dichiarazione o un documento provenienti da un soggetto possono essere solo titoli di prova contro di lui”.

Di recente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24958 del 10 dicembre 2010 (ud. del 30 settembre 2010), ha affermato che l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di efficacia in sede giurisdizionale, trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, ostacolo invalicabile nella previsione del D.Lgs. 546 del 1992, art. 7, comma 4, giacchè finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo” (Cass. 6755/2007; conf. Cass. n. 703/2007). La sentenza si fa forte, fra l’altro, anche del pensiero di quella parte della giurisprudenza minoritaria che ritiene ammissibile la produzione di atti notori, che ha comunque precisato che tali dichiarazioni hanno un mero “valore indiziario, quali documenti facenti fede solo riguardo alla data, all’esistenza ed alla provenienza delle dichiarazioni in essi scritte, ma non quanto all’attendibilità delle dichiarazioni medesime, da ritenersi soggette, allo stesso modo di qualsiasi altra scrittura privata, al vaglio del giudicante che deve tener conto di ogni elemento da cui possa desumersi la maggiore o minore veridicità delle stesse” (Cass. n.724/2010).

Sempre di recente va segnalata l’ordinanza n. 26067 del 5 dicembre 2011 (ud. 8 novembre 2011) della Corte di Cassazione, su un particolare caso di accertamento sintetico2.In sostanza, secondo quanto emerge dalla motivazione della sentenza gravata (dove non si fa menzione di alcuna risultanza istruttoria che suffraghi il contenuto della dichiarazione sottoscritta dalla venditrice delle quote), la Commissione Tributaria Regionale ha caducato la ripresa fiscale esclusivamente sulla base di una dichiarazione extraprocessuale dalla venditrice delle quote (e figlia del contribuente) attestante la simulazione del contratto dal quale il Fisco aveva desunto la capacità contributiva del contribuente. Tale decisione è in contrasto col fermo insegnamento di questa Corte secondo cui, in tema di contenzioso tributario, se – in forza di quanto affermalo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 18 del 2000 – anche il contribuente può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, le risultanze emergenti da tali documenti non hanno valore probatorio pieno (a ciò ostando il divieto di prova testimoniale e di giuramento fissato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, che in tal guisa verrebbe eluso mediante un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo), ma possono essere utilizzate solo quando trovino ulteriore riscontro nelle risultanze del processo (Cass. 16032/05, 149/10, 3724/10, 6755/10)”. In pratica, le risultanze emergenti da dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale non hanno valore probatorio pieno, ma possono essere utilizzate solo quando trovino ulteriore riscontro nelle risultanze del processo.

La prova testimoniale richiamata dall’art.7 del D.Lgs. n. 546/1992, ed esclusa, è esclusivamente quella che si forma in sede processuale, restando possibile la formalizzazione di dichiarazioni verbali rese agli organi operanti, le quali pur non essendo prove immediatamente fruibili hanno valenza indiziaria.

Tali dichiarazioni non possono avere natura di prova certa ed inequivoca, ma semmai di mero indizio bisognevole di ulteriori supporti, non potendosi ad esse attribuire il significato e la portata della prova testimoniale, atteso che, a differenza di quest’ultima, non sono assunte con le garanzie e le modalità rigidamente previste nel codice di procedura civile.

Siamo in presenza, quindi, di elementi indiziari, che possono concorrere a formare il convincimento del giudice, ma non sono, da soli, idonei a fondare la decisione, se non supportate da riscontri oggettivi.

Ovviamente, anche per il contribuente le dichiarazioni in questione non potranno avere pieno valore probatorio, ma solo il valore di “elementi“, che non possono costituire da soli il fondamento della decisione.

Evidenziamo che la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza n. 73053/01 del 23 novembre 2006 (causa Jussila c. Finlandia) ha affermato che l’impossibilità di utilizzare la prova orale è in astratto compatibile con il principio dell’equo processo sotteso dall’art. 6 della Convenzione europea diritti dell’uomo (Cedu) “solo se dal divieto non deriva un grave pregiudizio della posizione del ricorrente-contribuente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile”. Per la Corte europea, il divieto di prova testimoniale è in contrasto con l’equo processo europeo in tutte quei casi in cui costituisce l’unico mezzo di prova, ed è conciliabile con l’art. 6 del Cedu se la posizione del contribuente è difendibile mediante altri mezzi di prova.

15 febbraio 2013

Francesco Buetto

1 Cfr. sul punto RICCIONI, L’ammissibilità ai fini probatori delle dichiarazioni rese da terzi in ambito extraprocessuale in rapporto al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, in “il fisco”, n. 14/2003, fasc. n. 1, pag. 2120.

2 Cfr. ANTICO, Le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà non smontano il sintetico, in www.https://www.commercialistatelematico.com.