Natura sanzionatoria e indeducibilità degli interessi moratori

Le motivazioni logiche e di diritto per cui gli interessi moratori non possono essere dedotti dal reddito da parte del contribuente.

La natura sanzionatoria degli interessi moratori – Aspetti generali

In una recente pronuncia della Corte di Cassazione, riconoscendone la natura sanzionatoria, è stato chiarito che gli interessi moratori non possono assumere rilevanza nella determinazione del reddito di impresa.

La risoluzione della questione, come impostata nell’interpretazione della Suprema Corte, richiede qualche riflessione in ordine alle sanzioni e al loro possibile concorso, come componenti reddituali negativi, nel sistema del reddito di impresa.

 

 

Qualche chiarimento sul canone dell’inerenza

Seguendo la testuale formulazione del quinto comma dell’attuale art. 109 del TUIR, il principio di inerenza nel reddito di impresa comporta che

«le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».

 

Un’interpretazione ampliativa dell’inerenza, secondo la quale il principio deve intendersi riferito all’intera attività dell’impresa anziché ai singoli beni e attività, si è però affermata sia nella prassi interpretativa dell’amministrazione, sia nella giurisprudenza di legittimità, come si evince ad esempio dall’esame della sentenza della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10062 del 1° agosto 2000.

Tale pronuncia ha fatto richiamo alla prassi ministeriale – in particolare alla circolare 7.7.1983, n. 30/9/944 – la quale aveva affermato che la spesa inerente doveva intendersi come legata non ai ricavi dell’impresa, bensì all’attività della stessa; in tale prospettiva, era stata ammessa la deducibilità delle spese sostenute per le

«… attività di certificazione, anche se volontaria, dei bilanci della società madre, nonostante sia palese che detti costi non abbiano un diretto collegamento coi ricavi»1.

 

Sulla base di tali argomentazioni e interpretazioni, la Cassazione riteneva doversi riconoscere alla stabile organizzazione italiana la deduzione di una quota delle spese sostenute dalla società madre residente a Hong Kong: tale orientamento si supportava sia sul modello di Convenzione OCSE del 1977 (che, per l’appunto, riconosceva in capo alla stabile organizzazione le spese di direzione e di amministrazione), sia sulla stessa

«… logica della produzione del reddito d’impresa, a maggior ragione quando, come nella specie, la distribuzione dei costi avviene nell’ambito di un gruppo».

È infatti evidente, secondo la Corte,

« … che la strategia degli investimenti di un’impresa che si trova a capo di un gruppo non può essere confinata nei limiti di quella propria del cd. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento di una redditività in tempi brevi. L’impresa capo-gruppo può, infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela dell’immagine mondiale del gruppo o nell’intento di assicurarsi una maggiore presenza sul mercato, mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella specie, stabili organizzazioni senza personalità giuridica distinta, anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi».

 

In definitiva, secondo la regola di diritto enucleata dalla Cassazione, occorreva riconoscere validità alla scelta imprenditoriale, espressione di una «corretta strategia aziendale di gruppo», consistente nell’attribuire alla stabile organizzazione italiana «… una quota di costi (siano essi generali o operativi)» sostenuti dalla casa madre (nel caso di specie non residente).

 

 

Una breve premessa sulla rilevanza delle sanzioni nel reddito di impresa

L’Amministrazione finanziaria non ha escluso aprioristicamente qualsiasi possibilità di concorso del contesto «sanzioni» alla determinazione del reddito d’impresa, dato che ha ammesso la deducibilità degli interessi passivi derivanti da un finanziamento collegato al pagamento di una sanzione irrogata dalla Commissione Europea per la violazione di norme a tutela della concorrenza, escludendo la necessità del «nesso di accessorietà» ai fini del riconoscimento fiscale dei costi in parola.

Tale speciale tipologia di componenti negativi, all’epoca disciplinata dall’art. 63 (e attualmente dall’art. 96) del TUIR, doveva quindi ritenersi sottratta a ogni valutazione sull’inerenza, e subordinata al solo criterio forfetario del pro–rata di deducibilità2 (Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 9.11.2001, n. 178/E).

Per quanto però attiene alla sanzione in sé, l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate con la propria circolare n. 42/E del 26.9.2005, ha precisato che:

  • le sanzioni Antitrust sono indeducibili in quanto non inerenti rispetto all’attività di impresa (tale soluzione è coerente con la posizione precedentemente espressa nella circolare n. 98/E del 17.5.2000, par. 9.2.6, nonché nella circolare n. 55/E del 20.6.2002, par. 5, e nella risoluzione n. 89 del 12.6.2001);

  • in generale, «… le sanzioni mancano di qualsiasi nesso funzionale con l’attività imprenditoriale ed anzi, in quanto irrogate da un organo estraneo all’impresa, rispondono per definizione ad una finalità extraimprenditoriale, quella repressiva e preventiva del comportamento illecito».

 

L’interpretazione dell’Agenzia esclude quindi che le sanzioni assumano natura di «costi inerenti».

È utile rammentare che le sanzioni Antitrust sono irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nell’abito della sua attività istituzionale di vigilanza, e vanno a colpire i di comportamenti che compromettono o limitano l’altrui diritto di iniziativa economica tutelato dall’art. 41 della Costituzione. Si tratta di sanzioni direttamente irrogate all’impresa (anziché a una persona fisica determinata), e commisurate al fatturato della stessa.

Con le interpretazioni sopra brevemente rammentate, l’amministrazione finanziaria si è espressa sfavorevolmente quanto alla possibilità di dar loro rilevanza nella determinazione del reddito d’impresa, facendo peraltro riferimento a una sentenza del Consiglio di Stato3, nella quale è stata affermata la natura non risarcitoria, bensì punitiva, delle sanzioni in esame.

 

La giurisprudenza di legittimità in ordine all’indeducibilità delle sanzioni

La sentenza della Corte di Cassazione n. 5050 del 3.3.2010 («Sony Music Enterteneiment s.p.a.») ha di recente affermato che la sanzione consegue alla violazione di un divieto da parte dell’impresa, e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo (concorrente all’economia dell’impresa).

La condotta dalla quale è scaturita l’applicazione della sanzione è infatti non soltanto esterna rispetto alla normale attività imprenditoriale, ma addirittura antitetica rispetto al corretto svolgimento della stessa.

In particolare, nel caso in esame la società ricorrente per cassazione aveva chiesto il rimborso di somme inserite (a suo dire erroneamente) tra le variazioni del reddito imponibile, riferite a sanzioni Antitrust, affermandone la natura di componente reddituale passivo deducibile.

Affermando il carattere amministrativo delle sanzioni Antitrust, la Cassazione ha puntualizzato che queste, ancorché determinate – in misura variabile – nei limiti del 10% dei ricavi dell’esercizio precedente, non possono qualificarsi come sopravvenienze passive: perché ciò si verifichi è infatti necessario che il ricavo abbia concorso a formare il reddito nell’esercizio di competenza, ovvero che si riferisca a ricavi che abbiano concorso a formare il reddito in precedenti esercizi.

In tale contesto, la sanzione non va infatti «… ad incidere su un incremento di reddito, che potrebbe non esservi stato, ma ha soltanto funzione affittiva e deflativa, in funzione di deterrente di futuri possibili analoghi illeciti».

Analogamente a quanto accede per la condanna al risarcimento – la quale non influisce sulla nascita dell’obbligazione tributaria, perché logicamente e cronologicamente successiva al verificarsi del presupposto d’imposta -, la sanzione non esplica effetti apprezzabili sotto il profilo reddituale (non derivando da un’attività connessa all’esercizio di attività d’impresa).

 

La sanzione non può poi tradursi in un «premio» per le imprese che abbiano violato le norme del diritto positivo, ciò che avverrebbe – secondo la Corte – ove si intendesse riconoscerne la deducibilità.

A parere di chi scrive, il principio sopra individuato è certamente vero con riferimento alle sanzioni non penali aventi natura «afflittiva», mentre diverse considerazioni potrebbero valere per le sanzioni «risarcitorie», aventi la funzione di reintegrare il danno extracontrattuale: per queste ultime potrebbe infatti ipotizzarsi un trattamento parallelo rispetto a quanto previsto, per la tassazione in capo al percipiente, dall’art. 6, secondo comma, del Testo Unico.

 

La questione esaminata dalla Corte

Nel caso conosciuto dai giudici di legittimità, il contenzioso traeva origine da un avviso di accertamento emesso ai fini IRPEG e ILOR per l’anno 1992, con la vittoria del contribuente in primo grado parzialmente confermata dalla CTR.

Nel merito, le contestazioni avevano riguardato:

  • il recupero a tassazione delle quote di ammortamento di un complesso aziendale (albergo) – secondo la CTR, si ponevano le condizioni per l’applicabilità della disposizione derogatoria (rispetto alle regole poste dall’allora vigente art. 67 del TUIR), che consentiva la deduzione delle quote di ammortamento da parte del locatore e non del conduttore;

  • la deducibilità dei costi per l’acquisto di carburanti e gasolio e per interessi moratori sugli oneri di urbanizzazione (disconosciuta dall’Amministrazione finanziaria).

 

Questo i motivi di ricorso per cassazione proposti dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze:

  • violazione e falsa applicazione dell’art. 63 del «vecchio TUIR», in relazione all’art. 360 c.p.c. [deducibilità delle penalità moratorie conseguenti al mancato o ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, ai sensi della L. n. 10/1977];

  • insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c. [quanto alla pattuizione aggiuntiva all’originario contratto di locazione, in forza della quale tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile aziendale (albergo) erano poste a carico della società locatrice];

  • violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 444/1997 [indebita deduzione di costi relativi all’acquisto di carburante].

 

La soluzione indicata

Decidendo sul punto della deducibilità delle penalità moratorie (interessi) conseguenti al mancato o ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, la Corte riporta la posizione dell’Amministrazione, secondo la quale

«non di un costo si tratterebbe, nel caso di specie, bensì di una sanzione amministrativa dipendente da un comportamento illegittimo degli amministratori, concretatosi nel ritardato o omesso versamento delle somme dovute a titolo di oneri di urbanizzazione».

Le somme in questione erano pertanto ritenute fiscalmente indeducibili, con la conseguenza che, ai fini dichiarativi, la società contribuente avrebbe dovuto apportare una variazione in aumento del reddito di impresa per l’anno 1992.

L’accoglimento sul punto della tesi erariale si fonda sulla considerazione del difetto del requisito dell’inerenza degli interessi moratori rispetto all’attività dell’impresa.

«Ebbene, tale inerenza – secondo l’insegnamento di questa Corte – va correttamente intesa come accostamento concettuale tra due entità (la spesa, o il costo, e l’impresa), che determina un’imprescindibile ed indissolubile connessione tra le entità medesime. Sicché l’elemento negativo del reddito assume rilevanza, ai fini della qualificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta correlazione a questa o quella specifica componente del reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili per l’impresa (cfr. Cass. 1465/09, 6650/06)».

Per le ragioni indicate, gli interessi passivi, ai fini della deducibilità, devono tradursi in

«oneri generati dalla funzione finanziaria a sostegno dell’attività aziendale, ovverosia devono afferire all’impresa nel suo essere e progredire sul piano economico e reddituale».

A prescindere dall’applicazione dei vincoli della normativa tributaria di riferimento, insomma, che ha sempre considerato con attenzione «vigilante» tali componenti di reddito, anche per essi va verificato il rispetto dell’inerenza.

In tale prospettiva, gli interessi passivi moratori risultano deducibili, ai fini della determinazione del reddito dell’impresa, «esclusivamente se l’operazione cui accedono, per sua natura, sia rapportabile ai ricavi prodotti dall’attività aziendale».

«Siffatta deducibilità deve, per contro, escludersi nelle ipotesi in cui detti interessi non scaturiscano da un’operazione potenzialmente idonea a produrre utili, come nel caso – ricorrente nella fattispecie in esame – in cui ci si trovi in presenza di interessi moratori dovuti in conseguenza dell’omesso o del tardivo versamento di somme dovute dall’impresa».

In tale ipotesi, infatti, gli interessi rivestono per la Corte «un’innegabile natura sanzionatoria», giacché essi sono correlati ad un inadempimento dell’imprenditore o degli amministratori della società (per le imprese esercitate in forma associata).

Conseguentemente, gli interessi moratori non potevano costituire nel caso di specie costi funzionali alla produzione del reddito.

 

7 giugno 2012

Fabio Carrirolo

 

NOTE

1 Le medesime considerazioni erano espresse nella successiva risoluzione n. 158/E del 28.10.1998, anch’essa richiamata dalla Corte; a rafforzamento della tesi dell’inerenza «allargata» erano altresì citate le norme IVA (art. 19, D.P.R. n. 633/1972), che ammettono la detrazione per l’imposta assolta, dovuta o addebitata a titolo di rivalsa «in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa».

2 Si rammenta che, relativamente al trattamento degli interessi passivi nel sistema del reddito d’impresa, la riforma attuata con la Finanziaria 2008 ha comportato la soppressione del pro rata generale di indeducibilità, del pro rata patrimoniale, collegato al possesso di partecipazioni «pex», e della «thin cap», sostituiti dall’attuale regime di deducibilità entro i limiti degli interessi attivi e del ROL di periodo, con possibilità di riportare le eccedenze agli esercizi successivi.

3 Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, dec. 20.3.2001, n. 1671.