Operazioni inesistenti, prove e presunzioni

Approfondiamo il tema delle presunzioni – con particolare attenzione alla cd. “doppia presunzione” nel processo tributario: la loro ammissibilità, il loro valore e come possono essere combattute dal contribuente.

Con sentenza n. 8210 dell’11 aprile 2011 (ud. del 10 marzo 2011) la Corte di Cassazione, nell’ambito di una controversia avente ad oggetto operazioni inesistenti, ha chiarito il suo pensiero in materia di prove e presunzioni.

 

Il fatto

La C.T.P di Bergamo, in accoglimento del ricorso proposto da P.E. titolare di ditta individuale, annullava l’avviso di accertamento notificato a seguito della ispezione eseguita dalla Guardia di Finanza presso la P.P. s.r.l. dalla quale era emerso che la P.E. aveva emesso fatture per operazioni inesistenti.

La sentenza di primo grado, appellata, veniva confermata dalla C.T.R. di Milano, che ha sostenuto la mancanza di prova in ordine alla pretesa tributaria, essendo stati determinati i maggiori redditi di impresa della ditta P.E. mediante “doppia presunzione”: dalla fatturazione per operazioni inesistenti discende la prova presuntiva che la destinataria delle fatture, P.P. s.r.l., abbia conseguito un guadagno, e quindi dalla presunzione di tale guadagno si deduce una nuova presunzione, ritenendo che il 50% di detto guadagno abbia costituito il vantaggio economico della ditta P.E.. Ne segue – secondo la motivazione della sentenza – la inammissibilità della prova presuntiva di secondo grado giusta il disposto dell’art. 2727 c.c., che vieta la “praesumptio de praesumpto”.

 

La sentenza

Il collegio rileva, innanzitutto, che nella prova per presunzioni, “la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza di quest’ultimo derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità (Corte cass. 1 sez. 5.9.1996 n. 8089). In applicazione di tale principio la inferenza logica -secondo un rapporto di derivazione di tipo probabilistico- tra la fatturazione per operazioni inesistenti (fatto certo) ed il compenso lucrato dalla ditta individuale del P. (fatto ignorato) costituisce indubbiamente il risultato di una argomentazione di natura presuntiva (art. 2727 c.c.)”.

Errata viene ritenuta la motivazione del Giudice territoriale “nella parte in cui ha ritenuto di ravvisare analoga struttura argomentativa della prova nel fatto presupposto dal quale è stata desunta dall’Ufficio a prova della percezione di un compenso da parte della ditta TVS.. Tale fatto non può essere, infatti, scisso nelle due componenti della emissione delle fatture false – da parte di TVS.- e del ‘guadagno’ realizzato dalla società P.P. s.r.l., ma deve essere considerato unitariamente atteso che, come emerge dalla stessa sentenza impugnata, la Guardia di Finanza aveva rilevato dalla ispezione eseguita nei confronti della società cessionaria che quest’ultima aveva utilizzato le fatture false iscrivendo i relativi importi in contabilità, circostanza ex se dimostrativa della utilità economica conseguita dalla P.P. s.r.l.. Se dunque la emissione delle fatture per operazioni inesistenti utilizzate vantaggiosamente dalla società cessionaria con la iscrizione dei relativi importi nelle proprie scritture contabili, costituisce un fatto certo, ne consegue che nel caso di specie non si verte in tema di ‘doppia presunzione’ ma di unica prova presuntiva, essendo argomentata dal predetto fatto certo la prova della percezione da parte della ditta TVS. di un compenso per la falsa fatturazione (in disparte la questione della esatta determinazione del ‘quantum’ che non ha costituito motivo di ricorso di legittimità e non è stata peraltro affrontata dalla sentenza impugnata, nè a quanto è dato desumere dalla lettura della sentenza era stata specificamente riproposta dalla ditta nel giudizio di appello)”.

Pertanto, nel caso di specie, non è dato prescindere dal principio affermato da questa Corte secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi l’onere di fornire la prova dell’inesistenza dell’operazione “incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento…, e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perchè proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo (cfr. Corte cass. 5′ sez. 18.1.2008 n. 1023; id. 5′ sez. 16.1.2009 n. 951)”.

 

Le nostre considerazioni

La Corte Suprema, nella sentenza che si annota, ha cassato la pronuncia della regionale che aveva accolto le doglianze di parte per avere l’ufficio accertato un maggior reddito attraverso una presunta doppia presunzione (l’emissione di fatture per operazioni inesistenti da ROSSI a BIANCHI permette a BIANCHI di dedurne il costo e ROSSI di ottenere un guadagno per la vendita delle fatture ).

Nel campo tributario la prova documentale è rara, emergendo, invece, “il carattere interpretativo della prova, la sua natura di ragionamento, di argomentazione”1: di fatto, siamo spesso in presenza di presunzioni che, ai sensi dell’art. 2727 del c.c., sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, giusto il disposto dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R. n. 600/73, che stabilisce che l’incompletezza, la falsità, l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi, ovvero l’esistenza di attività non dichiarate possono essere desunte sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise, e concordanti.

Secondo un principio ormai consolidato della Corte di Cassazione – sentenza n.7931/1996 – i predetti requisiti, quanto alla gravità occorre che siano “…oggettivamente e intrinsecamente consistenti e come tali resistenti alle possibili obiezioni…”, quanto alla precisione occorre che risultino “… dotati di specificità e concretezza e non suscettibili di diversa altrettanto (o più verosimile) interpretazione…”, e quanto, alla concordanza è necessario che conducano a conclusioni, conformi e corrispondenti, risultando ovviamente “…non configgenti tra loro e non smentiti da dati ugualmente certi…”2, e – sentenza n. 11206 del 20 dicembre 2006, dep. il 16 maggio 2007 – il giudice del merito deve, innanzi tutto, valutare in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari al fine, da una parte, di scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, dall’altra, di conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, lo stesso giudice deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando uno o alcuni indizi.

E quindi, “per aversi presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (regola dell’inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, secondo un giudizio di probabilità basata sull’id quod plerumque accidit (regola dell’inferenza probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza”3.

 

La doppia presunzione

Restano, tuttavia, da mettere sul tavolo ancora alcune considerazioni sul cd. divieto di praesumptio de praesumpto, poichè una lettura superficiale della sentenza in esame può portare a ritenere che il giudice abbia ritenuto presente una unica prova presuntiva in quanto vige il divieto della doppia presunzione.

Il principale argomento su cui poggia l’inammissibilità della presunzione da presunzione è dato dalla considerazione secondo cui le presunzioni porterebbero il giudice a ritenere soltanto probabile il fatto da provarsi, diversamente dalle prove che porterebbero alla certezza. E pertanto, sarebbe illogico far derivare una presunzione non da un fatto noto e certo ma da una premessa fattuale probabile, quale è quella costituita da una fatto che deriva da un altra presunzione4.

Tale tesi si rileva debole poiché attribuisce “alla presunzione minore efficacia dimostrativa e persuasiva che alla prova. Una volta che si concede essere entrambi equipollenti… vien meno la ragione di far qualsiasi distinzione in questo campo5”. Inoltre, non è “esatta l’applicazione della teoria matematica del calcolo della probabilità alla teoria delle presunzioni6” e “una limitazione della facoltà di prova non può ammettersi senza un’espressa disposizione7”.

In campo tributario, una larga corrente dottrinaria, dà per scontato il divieto della doppia presunzione8.

La stessa giurisprudenza vieta la doppia presunzione, sia in campo civilistico9 che tributario, “alla luce del rilievo che il fatto base della presunzione deve essere noto (e noto non potrebbe intendersi il fatto presunto), ora rilevando che il rapporto tra fatto noto e fatto ignorato dev’essere caratterizzato dal requisito dell’univocità (e tale non potrebbe dirsi quello proprio di una doppia presunzione); essa tuttavia, anche se in apparenza giustifica il principio allo stesso modo del giudice civile, appare in concreto spesso orientata in modo più fluido, tentando di giustificare in concreto la condivisibilità dello stesso divieto alla luce dei requisiti indispensabili per la validità del procedimento presuntivo10”.

Tuttavia, a nostro avviso, anche le sentenze11 che a prima vista impongano il divieto della doppia presunzione possono offrire una apertura al divieto della doppia imposizione: se, per esempio, è certo che tizio abbia acquistato merce in evasione d’imposta, è possibile sostenere che la merce non trovata sia stata venduta12, e quindi “si è di fronte ad un praesumptum de praesumpto ogni qual volta un determinato attributo o una certa qualità non appaiono necessariamente connessi all’esistenza del fatto presunto, costituendone attributo possibile ma non necessario. Altro è ovviamente il caso in cui il fatto noto faccia presumere direttamente il thema probandum. In tale ipotesi, pur potendosi astrattamente ipotizzare due presunzioni, in concreto se ne avrà una sola, non costituendo la circostanza intermedia strumento logico per la conoscenza del fatto da ultimo presunto, ma semplice attributo dello stesso…Con il che non si vuole affatto apoditticamente negare l’esistenza di possibili riferimenti normativi in senso contrario; semplicemente si vuole sostenere che gli stessi non sembrano affatto sufficienti a superare la logicità sostanziale della tesi contraria, che ammette l’utilizzabilità, da parte dell’amministrazione finanziaria, di presunzioni da presunzioni purchè in concreto l’accertamento risulti logicamente e correttamente motivato13”.

Come affermato e sostenuto dalla migliore dottrina14, cui abbiamo il piacere di associarsi, “concettualmente non è detto che una presunzione di secondo grado, in quanto tale sia sempre troppo debole per poter essere presa in considerazione. La presunzione di secondo grado (cioè basata su un fatto a sua volta presunto) sarà senza dubbio meno rigorosa della prima presunzione, ma non si può escludere che in determinati casi sia abbastanza convincente; e perciò èun luogo comune (o meglio vale solo come ammonimento tendenziale) l’espressione secondo cui sarebbe vietato trarre presunzioni da presunzioni (Praesumptum de praesumpto non admittitur)”.

Al più, quindi, la presunzione di secondo grado potrà essere meno convincente, ma è un problema di prove. La stessa dottrina citata afferma che “ verso questo luogo comune la giurisprudenza ha però un atteggiamento di formale rispetto, perché parla di presunzioni di secondo grado solo quando si tratta di respingerle; quando invece una presunzione di secondo grado le sembra fondata la accetta, senza prendere posizione sul problema generale, conformante con il suo compito di risolvere controversie, non di sistemare gli istituti giuridici o di fare dottrina15.

In concreto il divieto di doppie presunzioni può avere il potere di suggestione che hanno molti luoghi comuni, e può fare un certo effetto quando il giudice è perplesso; un solenne praesumptum de praesumpto non admittitur, messo al punto giusto di un ricorso, può suonare bene per abbellire le nostre tesi (ad colorandum, come qualche volta si dice in gergo avvocatesco); l’importante è però che queste tesi siano per altri versi fondate, e che non si faccia affidamento solo sull’astratto divieto di doppie presunzioni”. In pratica prosegue l’illustre autore, “il divieto di presunzioni di secondo grado è solo un utile luogo comune per respingere le presunzioni che non convincono, come ha rilevato da quasi un secolo chiunque abbia approfondito l’argomento (i.e. LESSONA, Trattato delle prove in materia civile, Torino, 1902, V, 322, ss., CAVALLONE, Critica alla teoria delle prove atipiche, in Riv. Dir. Proc.le, 1978, 701), ma si rinuncia malvolentieri ai luoghi comuni, specie se innocui ed espressi nella lingua di Cicerone”.

 

13 maggio 2011

Gianfranco Antico

1 R. LUPI, in Manuale professionale di Diritto Tributario, Ipsoa Editore, Milano, 1998, pagg. 304 e seguenti.

2 L’una o più presunzioni utilizzate non debbono contraddirsi fra loro.

3Cass. Sez. III, Sent. n. 5082 del 6 giugno 1997.

4 In tal senso, PESCATORE, La logica del diritto, Torino, 1983, vol. I, 105; anche RAMPONI, Note sulle presunzioni in diritto civile, Roma, 1983, 24, afferma che la seconda presunzione “non sarebbe priva di ogni valore anche sussidiario, solo mancherebbe il requisito della gravità, necessario a costituire di per sé la piena prova del fatto”. Cfr. anche D’ONOFRIO, Delle prove, in Comm. al cod. civ. diretta da D’Amelio, libro VI, 1943, 410: “la presunzione non è un fatto e solo da fatti è lecito dedurre presunzioni”.

5 FERRINI, Note sulle presunzioni in diritto civile, Estratto dell’Antropologia giuridica, VI, 1892, ora in Opere di Contardo Ferrini, III, Milano, 1929, 457

6 LESSONA, Trattato delle prove, 3° edizione, I, Firenze, 1914, pag. 323. Per l’ammissibilità del praesumptum de praesumpto,DECOTTIGNIES, Le prèsompties en droit privè, Paris, 1950, pag. 268.

7 N. COVIELLO, Manuale di diritto civile italiano, Parte generale, 7° edizione, 1929, pag. 550 .

8 Fra gli altri, L. FERLAZZO NATOLI, Dubbi sulla costituzionalità della presunzione assoluta di plusvalenze speculative, in “ Riv. Dir. Fin. Sc. Fin.”, 1982, II, pag. 5

9 Cass. 28 gennaio 1982, n. 560; Cass. 15 maggio 1980, n. 3194.

10 G. GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Cedam Editore, Padova, 1984, serie I, volume LXVII, pag. 152.

11 Cfr. C.T.C., 1983, II, 1328, che ravvisa il vizio “proprio nella derivazione di presunzioni da altre presunzioni (praesumptum de praesumpto); invero, se per l’art. 2727 cod. civ. le presunzioni sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, è indiscutibile che, nello schema della prova indiretta, gli elementi che ne costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza. Ne consegue che è illegittimo valorizzare una presunzione, in mancanza di un fatto noto, per derivare da essa un’altra presunzione, ossia la certezza probatoria in ordine ad un fatto ignorato”.

12Cfr. Cass. Sent. n. 8089 del 15 marzo 1996 (dep. il 5 settembre 1996), secondo cui nella prova per presunzioni la relazione tra il fatto noto equello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficienteche l’esistenza di quest’ultimo derivi dal primo come conseguenzaragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità.Ne deriva che, dal dato certo dell’esistenza di merce in eccedenza rispettoal quantitativo acquistato con fatture, è legittimo dedurre sia l’acquistodella merce senza fatturazione ad un costo corrispondente a quellorisultante dalle fatture esistenti, che la vendita della stessa applicandouna percentuale di maggiorazione calcolata raffrontando i costi medi diacquisto e di vendita, questi ultimi desunti dalle fatture esistenti.Il procedimento per cui si giunge alla determinazione di un dato sconosciuto partendo da un dato certo attraverso passaggi logici e razionali non viola il divieto della doppia presunzione allorché nessuno dei passaggi logici intermedi costituisca autonoma presunzione.“Sotto un profilo generale, infatti, devesi rilevare che, come ripetutamente affermato da questa Corte, nella prova per presunzioni la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza di quest’ultimo derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità (Cass. nn. 7213/95, 10613/94, 3824/91, eccetera). Ne deriva che, nel caso di specie, dal dato certo dell’esistenza di merce in eccedenza rispetto al quantitativo acquistato con fatture, ben si può dedurre che fosse stata acquistata senza fatturazione ad un costo corrispondente a quello risultante dalle fatture esistenti…”. “Analogo ragionamento va fatto per la percentuale dimaggiorazione, anch’essa basata sul raffronto tra i costi medi di acquisto e di vendita, questi ultimi desunti dalle fatture esistenti. Costituisce presunzione grave, precisa e concordante il dato-resa medio tra materia prima e prodotti, dedotto attraverso passaggi logici e razionali e che simile accertamento non viola il principio secondo cui non è consentito dedurre una presunzione da un’altra presunzione, perché da un dato certo – acquistodella materia prima – si risale ad un dato non conosciuto (reddito), senza che ciascuno dei passaggi logici intermedi costituisca un’autonoma presunzione (Cass. n. 7234/91)”.

13 G. GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Cedam Editore, Padova, 1984, serie I, volume LXVII, pag. 159.

14 R. LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Ipsoa Editore, Milano, 2001, pag. 484.

15 Cfr. Cass. 10 gennaio 2001, n. 266. Nel caso di specie, una presunzione di secondo grado è stata ritenuta valida semplicemente negando che lo fosse.