Accertamenti bancari: per contrastarli non bastano le dichiarazioni di terzi

In caso di accertamento fondato sulle indagini finanziarie, è inutile tentare di giustificare le movimentazione bancarie contestate attraverso l’esibizione di dichiarazioni di terzi, che attestino che le somme in questione si riferiscono alla concessione e restituzione di presunti prestiti. A cura di Alessandro Borgoglio.

Dichiarazioni di terzi e accertamenti bancari

Le dichiarazioni sostitutive di atto notorio rese da beneficiari di presunti prestiti erogati dal contribuente sottoposto ad accertamento bancario sono ammissibili nel processo tributario al più come meri indizi, necessitando, pertanto, di ulteriori specifici elementi di supporto per dimostrare l’esistenza dei predetti prestiti e la riconducibilità ad essi delle movimentazione bancarie contestate dal Fisco.

Lo ha stabilito la C.T.R., con la sentenza del 24 marzo 2011, numero 32/26/11.

I fatti di causa ed il quadro normativo

indagini finanziarie e prestiti a terziUna società di persone era stata sottoposta ad accertamento da parte del competente Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, che aveva espletato le indagini finanziarie sia sui rapporti bancari intestatati alla società che su quelli risultanti a nome dei singoli soci (marito e moglie).

Da tali attività istruttorie, il Fisco aveva rilevato sui conti intestati ai predetti soci prelevamenti per 44.000 euro e versamenti per circa 90.000 euro, che non erano stati giustificati in alcun modo.

L’Ufficio aveva applicato, quindi, le presunzioni di cui all’articolo 51 del DPR 633/1972 e 32 del DPR 600/1973, in base alle quali base i versamenti rilevati nel corso delle indagini finanziarie sui conti correnti riferibili al contribuente devono essere considerati, ai fini dell’accertamento, alla stregua di ricavi non dichiarati, salvo che il contribuente non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione del reddito o che essi siano fiscalmente irrilevanti.

Anche i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti sono altresì posti come ricavi o compensi qualora il contribuente non ne indichi il beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili.

L’Agenzia delle Entrate, quindi, rettificava i ricavi dichiarati dalla società in base ai versamenti ed ai prelievi non giustificati, ed emetteva i relativi avvisi di accertamento a carico della società di persone e dei soci, per la quota di reddito ad essi imputabile.

I giudizi di merito

I contribuenti proponevano ricorso alla C.T. Prov., producendo, tra l’altro, delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio a giustificazione parziale delle movimentazione bancarie contestate, che sarebbero riconducibili – secondo i ricorrenti – a presunti prestiti, di cui le dichiarazioni allegate costituivano testimonianza resa dagli stessi beneficiari.

L’Ufficio, da parte sua, eccepiva che tali documenti non erano mai stati esibiti nella precedente fase istruttoria, che non vi era piena corrispondenza tra gli importi, e che era evidente l’anomalia dell’utilizzo di contanti per effettuare tali operazioni di prestito.

I giudici provinciali, però, ritenevano corretta la dimostrazione effettuata tramite le predette dichiarazioni sostitutive di atto notorio circa l’effettività dei prestiti in oggetto e, pertanto, annullavano la pretesa del Fisco limitatamente agli importi a cui si riferivano le succitate dichiarazioni, confermando, per il resto, l’operato dell’Amministrazione Finanziaria.

Opponeva gravame, allora, l’Agenzia delle Entrate, ribadendo le eccezioni già sollevate in primo grado circa le dichiarazioni sostitutive rese dai presunti beneficiari dei prestiti e, soprattutto, in merito al loro valore probatorio: secondo il Fisco, infatti, a tali documenti poteva al più riconoscersi una mera valenza indiziaria, come ripetutamente sancito dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 703/2007, 7445/2003, 18856/2004 e 5321/2006).

La Commissione tributaria regionale, investita della questione, ad integrazione dei richiami giurisprudenziali operati dall’Ufficio, ha menzionato la sentenza numero 24958/2010, con cui la Cassazione ha ribadito, ancora più recentemente, che l’attribuzione di efficacia probatoria alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà trova, con specifico riguardo al contenzioso tributario, un ostacolo invalicabile nella previsione dell’articolo 7, comma 4, del D.Lgs. 546/1992, giacché finirebbe per introdurre nel processo tributario – eludendo il divieto di giuramento e prova testimoniale – un mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (nello stesso senso: Cass. 6755/2007; Cass. n. 703/2007).

I giudici regionali hanno osservato, poi, che la summenzionata pronuncia del 2010, nella sua ultima parte, richiama una giurisprudenza minoritaria, che ritiene ammissibile la produzione di atti notori ma chiarisce che questi hanno un mero

“valore indiziario, quali documenti facenti fede solo riguardo alla data, all’esistenza ed alla provenienza delle dichiarazioni in essi scritte, ma non quanto all’attendibilità delle dichiarazioni medesime, da ritenersi soggette, allo stesso modo di qualsiasi altra scrittura privata, al vaglio del giudicante che deve tener conto di ogni elemento da cui possa desumersi la maggiore o minore veridicità delle stesse” (Cass. n. 724/2010).

Nel caso di specie, i giudici di seconde cure hanno stabilito che gli ulteriori elementi di sostegno alle predette dichiarazioni non potevano esaurirsi nella considerazione che la contabilità della società risultava regolare, come avrebbe voluto il contribuente, atteso che, invece, considerando tutti gli elementi disponibili del complessivo quadro probatorio, assumevano certamente maggiore rilievo le circostanze addotte dall’Ufficio (utilizzo di contanti, mancanza di coincidenza tra gli importi, novità dei documenti non esibiti prima), che contribuivano inevitabilmente a sminuire la rilevanza dell’indizio recato dalle predette dichiarazioni.

La Commissione tributaria regionale, pertanto, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Considerazioni conclusive

L’odierna pronuncia si inserisce su un filone giurisprudenziale di legittimità che deve ormai ritenersi pacifico ed il cui principio di diritto è applicabile non soltanto alle dichiarazioni di terzi allegate dai contribuenti a proprio vantaggio ma anche a quelle prodotte dal Fisco a proprio favore: la Suprema Corte ha stabilito, infatti, che può darsi ingresso nel processo tributario alle dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione Finanziaria purché tali dichiarazioni indiziarie trovino ulteriore riscontro nelle risultanze dell’accesso dei verificatori od in altri elementi istruttori (Cass., 10 marzo 2010, n. 5476; Cass., 12 febbraio 2010, n. 3389; Cass., 13 novembre 2006, n. 24200; Cass., 29 luglio 2005, n. 16032; Cass., 11 marzo 2002., n. 3526; Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18; Cass. 21317 del 15 ottobre 2010).

26 aprile 2011

Alessandro Borgoglio