Mancato conteggio costi neri

in caso di attività di verifica nasce spesso il problema di costi neri che dovrebbero essere indeducibili, ma che in taluni casi dovrebbero poter essere riconosciuti per garantire in sede di accertamento il principio di tassazione analitica che presiede alla determinazione del reddito di impresa

Aspetti generali

La questione proposta nel presente contributo è quella dei c.d. «costi neri», ossia dei componenti reddituali negativi «illeciti», che il sistema del reddito di impresa renderebbe indeducibili sulla base di principi desunti dal sistema stesso e dall’ordinamento generale, oltre che dalle norme del «diritto positivo», ma che in taluni casi dovrebbero poter essere riconosciuti per garantire in sede di accertamento il principio di tassazione analitica che presiede alla determinazione del reddito di impresa.

L’attività di rettifica compiuta dagli uffici fiscali, infatti, deve informarsi ai criteri di imposizione «netta» che discendono dalla stessa attuazione dei principi costituzionali, e che per il reddito di impresa costituiscono il fulcro della costruzione dell’imponibile: si è qui in presenza, difatti, di un reddito che non è solamente una manifestazione di ricchezza, ma anche l’espressione di un investimento nell’attività economica, come è ben manifestato dal funzionamento del bilancio d’esercizio.

In un’ottica strettamente economica, non può disconoscersi che a un eventuale maggior «guadagno» invisibile (rappresentato dai ricavi non dichiarati) deve far riscontro un maggior costo, presuntivamente anch’esso invisibile, non manifesto al Fisco.

Se tale è l’espressione economico-sostanziale del fenomeno (ricavi neri = costi neri), va pure posto in luce che, in base al testuale disposto normativo del TUIR, i componenti reddituali negativi, per poter essere deducibili, devono essere stati contabilizzati e dichiarati, e che, con effetto dichiaratamente sanzionatorio, il legislatore ha reso indeducibili in particolare i componenti negativi del reddito («illegali») che si ricollegano alla commissione di attività penalmente illecite.

Ricavi, costi, versamenti e prelevamenti

Nel contesto dei controlli bancari e finanziari (relativi alle operazioni sui conti e alle operazioni extraconto), la normativa di riferimento prevede l’assimilazione a «ricavi» (per i contribuenti titolari di reddito di lavoro autonomo, evidentemente, a corrispettivi/compensi) sia per i versamenti che per i prelevamenti, questi ultimi ritenuti espressione di «costi neri», presuntivamente collegati alla produzione di «ricavi neri» ulteriori rispetto a quelli che vengono collegati alle movimentazioni in entrata.

In buona sostanza, il legislatore ha operato un’inversione del consueto principio della determinazione del reddito di impresa «al netto» dei componenti negativo, e ha ipotizzato (con valore di presunzione legale relativa, suscettibile di prova contraria da parte del contribuente) che:

  • i versamenti siano pari a «ricavi neri»;

  • questi ultimi siano pari a un maggior reddito evaso (dal quale non viene scomputato alcun costo);

  • i prelevamenti siano anch’essi pari a «ricavi neri».

Insomma:

  • il reddito di impresa viene ordinariamente determinato in base al principio ricavi – costi (sulla falsariga di quanto avviene nel bilancio di esercizio);

  • il maggior reddito accertabile secondo le norme sui controlli bancari/finanziari viene determinato in base a un criterio ricavi + costi, traducendosi – evidentemente – in un «super-reddito», la cui esistenza effettiva è peraltro meramente presuntiva (anche se l’onere della prova è posto a carico del contribuente).

Si osserva a tale riguardo che le presunzioni legali relative poste a base dei controlli bancari sono state ritenute pienamente valide anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha avuto peraltro modo di affermare, nella pronuncia della sez. Trib., 26.4.2002, n. 6051, conforme alla precedente giurisprudenza (cfr. la sentenza della Corte di Cass., sez. Trib., 13.6.2001, n. 7973), che in caso di rettifica induttiva alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentualizzata dei costi.

Tale concessione era tuttavia esclusa ai fini IVA poiché la base imponibile di tale ultima imposta è costituita dall’insieme dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore.

Va detto che, in verità, una copiosa giurisprudenza successiva alle sentenze sopra richiamate (tra tutte, Cass., sez. Trib., 4.12.2008, n. 28799) conduce inequivocabilmente a ritenere insufficiente una determinazione dei costi in via presuntiva, sulla base della considerazione che l’onere della prova contraria grava sul contribuente, sia per quanto riguarda i «presunti ricavi» che in relazione ai «presunti costi».

Costi neri e costi da reato

Come è noto, il legislatore ha stabilito dapprima la tassazione in linea generale dei proventi derivanti da illecito penale, civile e amministrativo (art. 14, c. 4, L. 24.12.1993, n. 537), e successivamente l’indeducibilità dei componenti reddituali negativi riconducibili a fatti, atti o attività illecite (art. 14, c. 4-bis, L. n. 537/1993, come introdotto dall’art. 2, c. 8, L. 27.12.2002, n. 289).

In particolare, la disposizione sull’indeducibilità prevede che nella determinazione dei redditi «… non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti».

Come è facile constatare, i costi indeducibili sono quindi questi che si ricollegano a fatti (atti, attività) che danno luogo a reati: ad esempio, le spese di costituzione di una società «cartiera», finalizzata alla commissione di frodi fiscali.

Nulla invece è stato stabilito in ordine ai costi derivanti da altre tipologie di illecito (civili, amministrative), a fronte della loro imponibilità ex art. 14, quarto comma . Trascegliendo entro una serie vastissima di ipotesi, quindi, può essere tassato il provento riveniente dalla cessione di un immobile costruito abusivamente, ma non potrebbe essere negato il riconoscimento fiscale dei relativi costi inerenti.

Ferma restando la regola asimmetrica della tassabilità per tutti gli illeciti e della deducibilità per i soli costi connessi a illeciti amministrativi e civili, occorre valutare l’ulteriore questione della rilevanza delle sanzioni, le quali solo in senso lato possono intendersi come «costi» connessi a una determinata attività.

Beninteso, appare evidente che detti costi potranno assumere rilevanza solamente all’interno di uno «schema» analitico di determinazione del reddito, come quello che contraddistingue il reddito di impresa, oppure, in termini attenutati, quello di lavoro autonomo (tipologie reddituali alle quali meglio corrispondono, dal lato dell’accertamento, le tipologie analitiche e analitico-induttive)(1).

Alcuni problemi collegati ai costi in presenza di reati tributari

Un’altra questione che è opportuno esaminare, con riguardo alla problematica dei costi da reato indeducibili, afferisce alla tipologia dei reati, ossia alla loro natura penale «pura», ovvero penal-tributaria.

Nella seconda ipotesi, la fattispecie sanzionata dall’ordinamento sorge infatti generalmente nell’ambito di un’istruttoria avviata come indagine di polizia tributaria, finalizzata anche alla ricostruzione di basi imponibili ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA e all’applicazione delle correlate sanzioni amministrative. In tale contesto, la notizia di reato si inserisce come un atto incidentale, in un percorso che conduce all’eventuale qualificazione del fatto come reato da parte dell’A.G.

Occorre a tale riguardo considerare le ulteriori problematiche collegate al doppio (o triplice) binario tra le vicende del procedimento di accertamento in sede amministrativa e quelle dei procedimenti giurisdizionali tributario e penale. In tale contesto, il costo semplicemente indeducibile per difetto di inerenza potrebbe risultare ugualmente indeducibile (in astratto) perché correlato a una fattispecie di rilevanza penale (ad esempio, al reato di dichiarazione infedele).

Sembra tuttavia ragionevole escludere l’applicazione letterale della norma in presenza di reati dichiarativi, i quali (a eccezione delle soglie di rilevanza penale) corrispondono anche a ipotesi di comportamenti sanzionati in via amministrativa: tale opzione contrasterebbe, evidentemente, con la prassi di riconoscere i c.d. «costi neri», cioè i componenti reddituali negativi correlati all’«evasione fiscale» (prassi indotta dall’esigenza di evitare la doppia imposizione e ritenuta corretta anche dall’Amministrazione nella prospettiva della miglior sostenibilità dei recuperi a imposizione).

In verità, si può concordare o meno rispetto all’intento sanzionatorio che ha guidato il legislatore nel prevedere la norma di indeducibilità (il comportamento penalmente illecito è infatti già sanzionato nella sede propria, e il provento del reato soggiace alla confisca): la sanzione indiretta però, sovrapponendosi alle sanzioni già previste, non può – e lecito ritenere – causare la moltiplicazione delle sanzioni come in un gioco di specchi.

Appare quindi difficile l’accostamento tra la norma sanzionatoria penale tributaria (che già si aggiunge a quella tributaria amministrativa) e l’indeducibilità del costo «da reato»: da un lato, perché talune ipotesi (ad esempio, l’indebita deduzione di costi relativi a operazioni inesistenti), autonomamente sanzionate dal D.Lgs. n. 74/2000, già comportano l’indeducibilità dal reddito di impresa; dall’altro, perché l’indeducibilità ex L. n. 537/1993 entra in contrasto con l’esigenza di pervenire a una ricostruzione verosimile del reddito in base ai principi informatori dell’imponibile di impresa.

È dubbio, infine, che possa configurarsi come un costo «riconducibile» a un reato il componente reddituale negativo che si collega a una violazione tributaria, anche se tale violazione è sanzionata da norme penali (ad esempio, l’infedele dichiarazione in presenza di imposta evasa – con riferimento alle singole imposte – a euro 103.291,38, nonché di elementi attivi sottratti a imposizione superiori al 10% dell’attivo dichiarato, o in ogni caso ad euro 2.065.827,60).

Si tratta infatti di violazioni penali derivate, a costruzione complessa, nell’ambito delle quali il «costo» non è funzionale alla commissione del reato, ma rappresenta piuttosto un elemento intrinseco dell’oggetto (la base imponibile dell’imposta) la cui presenza è presupposta dalla norma sanzionatoria.

I costi neri negli accertamenti bancari/finanziari secondo il recente indirizzo della Cassazione

Nella recente ordinanza n. 23873 della Corte di Cassazione, sezione tributaria, i giudici di legittimità hanno preso in esame un contenzioso innescato da un accertamento bancario, in seno al quale i giudici di merito – CTP e CTR – avevano riconosciuto doversi ridurre forfettariamente del 50% il maggior reddito accertato in capo al contribuente, considerando «quanto corrisposto ai fornitori, le spese familiari, gli stipendi dei collaboratori e comunque i costi propri dell’attività e ciò per non sconfinare anche in casi come quello in esame in una realtà diversa da quella effettiva».

La Cassazione sottolinea sul punto (cfr. la precedente Cass. 26.2.2009, n. 4589) che «è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti».

Alla presunzione legale relativa, che opera in materia di indagini bancarie/finanziarie ex artt. 32 D.P.R. n. 600/1973 e 51, D.P.R. n. 633/1972, deve quindi contrapporsi non una presunzione semplice, né un’affermazione di carattere generale, bensì una «prova» (si intende, non presuntiva)(2).

Contrariamente all’orientamento espresso dai giudici di merito, secondo la Corte, non è possibile tenere conto in misura forfettaria di oneri deducibili: diversamente argomentando, infatti, la presunzione legale relativa dovrebbe considerarsi «vinta» attraverso il ricorso non a un «fatto», bensì a un’altra presunzione.

«Del resto vige, nell’ordinamento tributario, il principio di tipicità degli atti di accertamento, per il quale, fatta eccezione per i provvedimenti adottati in via di discrezionale autotutela o su richiesta di rimborso, non sono previsti provvedimenti, in relazione ai quali, l’Amministrazione sia tenuta a ricercare di sua iniziativa circostanze idonee a comportare la riduzione del debito d’imposta del contribuente».

Questo, per riaffermare con forza che – operante la presunzione legale – spetta sempre al contribuente, e non all’ufficio, di svelare, comprovare, documentare, la natura dei versamenti (ricavi?) e dei prelevamenti (costi?), per ogni singola operazione (cfr. Cass. 21.3.2008, n. 7766; 24.8.2007, n. 18013; 27.7.2007, n. 16720; 13.6.2007, n. 13819).

Sulla base delle predette considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza, rinviandola ad altra sezione della CTR affinché si conformi ai principi enunciati.

Considerazioni di sintesi

Sembra a chi scrive che la questione dei «costi neri» non possa essere facilmente liquidata: infatti, anche se in base al testuale disposto normativo, per lo meno nell’ambito del reddito di impresa, «le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico dell’esercizio di competenza» (art. 109, c. 4, TUIR), occorre riconoscere che il reddito imponibile deve essere un reddito reale, e non meramente ipotetico. Sempre nel contesto del reddito di impresa, tale principio risulta confermato dal disposto della lettera b, ultimo periodo, del predetto quarto comma dell’art. 109, laddove è stabilito che «le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi,, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi».

Come è stato rammentato, inoltre, nell’ambito dell’accertamento bancario/finanziario funziona un principio di equivalenza tra versamenti e prelevamenti, i quali vengono unitariamente considerati «ricavi» se non sono contabilizzati o se non viene fornita la dimostrazione della loro irrilevanza reddituale (o dell’avvenuto concorso alla determinazione dell’imponibile).

In tale contesto, il riconoscimento dei «costi neri» da parte delle Corti di merito, più che supportarsi su un chiaro e riconoscibile contesto normativo di riferimento vale a temperare la severità della presunzione legale relativa (prelevamenti = ricavi), sulla base della presupposizione che l’entità da recuperare a tassazione (i ricavi occultati, che vengono fatti corrispondere a redditi non dichiarati) non può essere immaginata, alla luce delle consuete categorie concettuali che presiedono alla determinazione del reddito di impresa (se il reddito è = ricavi – costi, è difficile concepirlo come somma di ricavi e di costi).

Il problema, esorbitando dall’ambito dei controlli bancari/finanziari per investire una questione che involge l’intero sistema del reddito di impresa, risiede, si ritiene, nel carattere «certo e preciso» – e non presuntivo – che l’elemento reddituale negativo deve possedere per poter essere riconosciuto.

Deve comunque essere evidenziato che i controlli ex art. 32 del TUIR non si limitano a disconoscere i costi (limitando la rettifica ai presunti ricavi, che sono fatti equivalere a redditi non dichiarati), «raddoppiando» le cifre attraverso la presunzione prelevamenti = ricavi.

Note

1) Nella prospettiva invece di un accertamento sintetico (ad esempio), il «costo» illecito non potrà rilevare come tale, ma semmai come giustificazione dell’indisponibilità del reddito astrattamente imputabile al contribuente.

2) La Corte richiama, ancora, Cass. 5.12.2007, n. 25365; 5.10.2007, n. 20858; 27.7.2007, n. 16720; 13.6.2007, n. 13819; 21.3.2007, n. 6743; 8.9.2006, n. 19330; 23.6.2006, n. 14675; 9.9.2005. n. 18016; 17.5.2002, n. 7267; 5.7.2001, n. 9103.

12 gennaio 2011

Fabio Carrirolo