Attività d’impresa e regimi fiscali di favore: alcune casistiche

I momenti e le condizioni nelle quali l’accesso al «regime d’impresa» (ovvero il suo mantenimento), con il relativo corollario di norme di sistema orientate alla tassazione analitica, è subordinato all’esercizio effettivo – ossia non meramente formale – dell’attività industriale-commerciale.

Pex, CFC, dividendi esteri

Soprattutto dall’angolo visuale delle imposte sui redditi, sembra a chi scrive che il sistema tributario italiano assuma una configurazione triplice, con una diversificazione graduata dell’onerosità fiscale, che viene a modularsi secondo quelle che al legislatore sono apparse come posizioni di differente «meritevolezza», rispetto all’obbligo generale di contribuzione e ai principi ex articoli 3 e 53, Cost.

In questa scala ideale, una maggior considerazione – e quindi una più tenue tassazione – viene attribuita a quelle attività, su base «volontaristica» e non lucrativa, che sostanzialmente sostituiscono l’intervento del soggetto pubblico in determinate aree di interesse sociale e assistenziale (onlus, enti non commerciali), ovvero godono di una tutela rafforzata in considerazione del loro carattere aleatorio (agricoltura).

Viene invece tassata in modo particolarmente forte la ricchezza individuale «finale», manifestata dalle dichiarazioni fiscali, che affluisce alle persone fisiche e non è orientata alla produzione di nuovo reddito, ma – semplicemente – alla disponibilità di risorse per il risparmio, i consumi o gli investimenti privati.

In questa prospettiva, il «sistema d’impresa» si situa a metà strada, perché in esso l’esigenza di tassare il reddito convive con quella di favorire (o, per lo meno, non sfavorire) le attività economiche: qui infatti il Fisco va direttamente a incidere non sull’attitudine al consumo, bensì sulle possibilità di produzione di nuovo «valore aggiunto».

Si spiega quindi il carattere sistematico, analitico e chiuso del sotto- sistema fiscale in esame, che si fonda sulla tassazione del reddito netto e non ammette gli abusi, ossia la sua strumentalizzazione per ottenere i relativi vantaggi, «mascherando» come espressioni di «impresa» delle attività che sono in realtà svolte al di fuori dell’ambito commerciale.

Ciò premesso, il presente contributo si occuperà dei momenti e delle condizioni nelle quali l’accesso al «regime d’impresa» (ovvero il suo mantenimento), con il relativo corollario di norme di sistema orientate alla tassazione analitica, è subordinato all’esercizio effettivo – ossia non meramente formale – dell’attività industriale-commerciale.

A tale riguardo, assume importanza in particolare la dimostrazione del carattere «effettivo» (oltre che, in determinati casi, principale) dell’attività.

 

 

Impresa, attività commerciale, organizzazione strumentale

Sembra a chi scrive di cogliere, nel sistema tributario italiano, una linea di confine mobile e sfumata tra le attività che sono propriamente classificabili nell’ambito dell’impresa e quelle che invece rappresentano estrinsecazione di attività di altro genere, soprattutto di lavoro autonomo (professionale-intellettuale e non).

Ad ampio spettro, considerando che il lavoro autonomo può essere ascritto, grosso modo, ai contratti di prestazione d’opera e ai contratti «d’opera intellettuale», pochi dubbi sembrano sussistere quanto alla definizione dell’impresa come attività autonomamente organizzata, finalizzata alla produzione e allo scambio di beni e servizi, includente tutte le svariate tipologie contrattuali previste dal codice ed esercitabile da persone fisiche, società personali, società di capitali, etc.

Sotto la prospettiva civilistica, sembra dirimente il carattere autonomamente organizzato dell’attività (è «imprenditore» – ex art. 2082, c.c. – «chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi»): esistono però anche delle «imprese senza azienda», cioè delle imprese individuali mancanti di beni strumentali, nonché delle «imprese» che sono tali ai soli fini tributari, in virtù della formulazione estensiva dell’art. 55 del TUIR, che include anche:

  • le attività non rientranti nell’art. 2195, c.c., purché organizzate in forma d’impresa;
  • l’attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne;
  • le attività agricole eccedenti i limiti del reddito agrario.

 

Inoltre, lo stesso art. 2195 citato prevede l’assimilazione all’ambito dell’«impresa» anche per le «attività ausiliarie», non propriamente definibili come «imprenditoriali».

A tale riguardo, è importante considerare che le SS.UU. civili della Corte di Cassazione, nelle sentenze nn. 12108, 12109, 12110, 12111 del 26.5.2009 (udienza del 12.5.2009), hanno chiaramente affermato che l’esercizio delle attività ausiliarie di cui all’art. 2195 c.c. (tra le quali rientrano quelle di agente di commercio e di promotore finanziario), alla luce della natura reale dell’IRAP, richiedono volta per volta un riscontro della sussistenza del requisito dell’«autonoma organizzazione».

È stato in tal modo valicato il muro che sembrava essere stato eretto dalla precedente giurisprudenza, tra attività d’impresa (in senso lato), che si ritenevano sempre soggette ad IRAP, e attività artistico-professionali, soggette «salvo verifica» dell’autonoma organizzazione.

In generale, però, le varie normative che richiedono una particolare sicurezza e garanzia in ordine all’esistenza di un’«impresa» e al suo concreto esercizio (società di comodo, CFC, etc.), pretendono l’esistenza di una «struttura» materialmente presente, ovvero apprezzabile mediante l’esame dei contratti stipulati o di altre evidenze.

Lo stesso criterio viene seguito nell’individuazione della stabile organizzazione, o sede fissa d’affari, come risulta evidente dall’esame delle famose sentenze «Philip Morris»1.

 

La participation exemption

L’introduzione in Italia del regime della participation exemption, originariamente fondato sull’esenzione totale dall’IRES e parziale dall’IRPEF delle plusvalenze da cessione di partecipazioni emergenti nel’ambito del reddito d’impresa, costituiva il «perno» intorno al quale ruotava la «macchina» della riforma «Tremonti» del 2001-2004.

Come è noto, la c.d. «pex» si traduceva nell’esenzione totale da imposizione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni che soddisfacessero alcune condizioni specificamente individuate dal legislatore, e la correlata indeducibilità delle minusvalenze generate dallo stesso tipo di partecipazioni.

Le successive modifiche normative del 2005 hanno ridotto l’appeal dell’istituto, rendendo parziale l’esenzione e aumentando il necessario periodo minimo di possesso della partecipazione.

Secondo l’art. 87, primo comma, lettere da a) a d), del TUIR, i requisiti generali che devono essere posseduti per poter ottenere il regime di esenzione fiscale sulle plusvalenze da cessione di partecipazioni quelli indicati di seguito:

 

Minimum holding period

ininterrotto possesso delle partecipazioni dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione, considerando cedute per prime le azioni o quote acquisite in data più recente;

 

classificazione contabile

classificazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso

 

residenza in Stato o territorio non black list

residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168-bis, o, alternativamente, l’avvenuta dimostrazione, a seguito dell’esercizio dell’interpello secondo le modalità di cui al quinto comma, lett. b), dell’art. 167, che dalle partecipazioni non sia stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori diversi da quelli individuati nel medesimo decreto

 

commercialità della partecipata

• esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’art. 55, con presunzione assoluta di «non commercialità» laddove la maggior parte dell’attivo patrimoniale sia investita in immobili che non sono né strumentali, né «merce»

• il requisito non dev’essere verificato per le partecipazioni in società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati

 

Relativamente al requisito della residenza, va rammentato che la L. n. 244/2007 – art. 1, c. 83, lettera l) – ha inteso superare il regime incentrato sulle «black list», accolto dall’ordinamento fino al 2007, sostituendolo con un nuovo sistema fondato sull’individuazione degli Stati aventi un regime fiscale conforme agli standard di legalità e trasparenza adottati dall’Unione europea («white list»).

Il concreto funzionamento del nuovo sistema attende ancora, tuttavia, l’emanazione di un decreto ministeriale (per la quale non sono normativamente previste scadenze), recante l’indicazione delle «white list».

La mancata attuazione della nuova normativa rende di fatto applicabili le regole previgenti, in base alle quali opera la «black list» degli Stati e territori «non collaborativi» o fiscalmente privilegiati di cui all’art. 167 del Testo Unico. Occorre inoltre considerare l’apporto del D.L. n. 78/2009 (convertito dalla L. n. 102/2009), il cui art. 12 ha introdotto una presunzione legale relativa in base alle quale le attività e gli investimenti costituiti in «paradisi fiscali» in violazione dell’obbligo di dichiarazione si ritengono frutto di evasione fiscale.

Quanto alla percentuale di esenzione, occorre altresì rammentare che l’art. 1, comma 33, lett. h), della L. n. 244/2007 ha ridotto la parte imponibile delle plusvalenze dal 16% (precedentemente previsto) al 5% (mentre l’aliquota IRES si abbassava dal 33% al 27,50%, amplificando l’agevolazione).

Con la modifica in parola – apportata dalla lettera h) dell’art. 1, comma 33 – le plusvalenze delle partecipazioni «esenti» ricevono un trattamento analogo a quello dei dividendi (imponibili appunto, per i soggetti IRES, limitatamente al 5% dell’ammontare).

Il comma 58 – lettera c) – del medesimo art. 1 della Finanziaria 2008 ha altresì abbreviato il «minimum holding period», ossia il periodo minimo di possesso, necessario per fruire del regime di esenzione, riportandolo da 18 a 12 mesi, come nella versione originaria uscita dalla riforma «Tremonti».

A fini di coordinamento, è stata altresì disposta la soppressione del comma 1-bis dell’art. 101 del TUIR, il quale prevedeva che il periodo di possesso minimo da considerare in caso di minusvalenze era di 12 mesi in luogo dei 18 previsti per le plusvalenze [art. 1, comma 58, lettera f), L. n. 244/2007].

 

Per quanto attiene al requisito di commercialità accolto in ambito pex, si evidenzia che la normativa di riferimento è orientata a escludere l’esenzione per le attività prevalentemente immobiliari (senza però considerare gli immobili strumentali e gli immobili-merce).

In definitiva, la pex non deve «agevolare» le gestioni di tipo immobiliare-patrimoniale, si ritiene perché queste non si traducono in una reale attività di impresa, generatrice di «valore aggiunto», bensì nella speculazione su un incremento di valore legato all’andamento del mercato immobiliare.

A tale riguardo, occorre considerare che:

 «l’esenzione della plusvalenza realizzata a seguito della cessione della partecipazione detenuta in una società immobiliare, pur sussistendo gli altri requisiti di cui all’art. 87 del TUIR, è consentita solo qualora sia ceduta un’effettiva attività d’impresa che abbia per oggetto la costruzione o la vendita degli immobili e non già la mera utilizzazione passiva degli stessi» (risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 15.12.2004, n. 152/E);

 «solo attraverso il diretto utilizzo è, […], possibile escludere l’immobile in parola dal novero di quelli che qualificano – qualora di valore prevalente rispetto al patrimonio totale e senza possibilità di prova contraria – la partecipata quale società “non commerciale”. Né può essere considerato “direttamente utilizzato” nell’attività d’impresa l’immobile in fase di “adattamento” allo scopo cui sarà destinato» (risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 9.11.2007, n. 323/E).

Si evince da tali puntualizzazioni che – fatta salva la possibilità di applicazione in ogni caso del regime in parola se la partecipata è quotata in mercati regolamentati – i requisiti di commercialità imposti dalla pex sono particolarmente stringenti, potendo venir meno semplicemente se la parte immobiliare dell’attivo patrimoniale è prevalente, sempre che detti immobili non siano «afferenti» all’attività imprenditoriale (ma, trattandosi di immobili strumentali, occorre anche il requisito del diretto utilizzo nell’attività medesima).

 

 

La questione della strumentalità degli immobili

Una gestione meramente immobiliare-patrimoniale è quindi idonea a far venire meno il requisito della commercialità, e ciò risulta evidente anche pensando alla normativa speciale in materia di società di comodo (art. 30, L. n. 724/1994, e s.m.), ambito nel quale è in verità richiesta la produzione di un ricavo minimo ritenuto «congruo», ma la presenza di beni immobili iscritti in bilancio tra le immobilizzazioni materiali svolge un ruolo particolarmente significativo nell’incrementare i valori del test di operatività2.

La Suprema Corte ha talvolta escluso il carattere della strumentalità con riferimento agli immobili detenuti da imprese svolgenti attività nel campo immobiliare, i quali vengono di fatto utilizzati come beni-merce, direttamente produttivi di proventi qualificabili come ricavi.

 

In particolare, possono essere richiamate sul punto le seguenti pronunce:

 Cass., Sez. I, 6.7.1990, n. 7158, secondo la quale il requisito della strumentalità ricorre se l’immobile è

« … inserito nel complesso dei mezzi di cui l’imprenditore si avvale per la produzione e lo scambio dei beni o servizi e, quindi, per conseguire lo scopo di lucro», mentre non sussiste se si tratta di beni « … direttamente impiegati dalla società come oggetto di scambio ricevendo dai terzi a titolo di corrispettivo della prestazione del loro godimento la controprestazione dei canoni (…)»;

 Cass., Sez. I, 3.4.1992, n. 4086; in tale sentenza, i giudici di legittimità hanno affermato che

« …l’ immobile locato dalla società immobiliare non è strumento, ma oggetto dell’ attività imprenditoriale; esso perciò produce un reddito autonomo (canoni), mentre l’immobile strumentale per l’esercizio dell’impresa, essendo inserito nel complesso aziendale, non è idoneo a creare un reddito autonomo»;

 Cass., Sez. I, 29.3.1996, 2934, secondo la quale

«non ricorre (…) tale condizione di strumentalità qualora l’immobile sia utilizzato mediante locazione, questa costituendo l’attività imprenditoriale tipica del soggetto contribuente, di guisa che l’immobile si configuri, non quale strumento, bensì quale oggetto dell’attività, come tale produttivo di un reddito (costituito dai canoni percepiti a titolo di corrispettivo per il godimento del medesimo da parte del locatario) che venga a rappresentare immediatamente e direttamente una parte del profitto di impresa».

Con specifico riferimento alla situazione degli immobili strumentali per natura, può poi essere richiamata la più recente Cass, Sez. Trib., 19.4.2007, n. 12999, la quale ha affermato che la strumentalità per natura – ex art. 40, D.P.R. 917/1986 – non dev’essere intesa come un

« … riconoscimento della strumentalità del bene a prescindere dalle caratteristiche del medesimo in rapporto con l’attività dell’azienda»,

esigendosi anche in tale ipotesi

« … la prova della funzione strumentale del bene in relazione all’attività dell’azienda».

La verifica in questione può essere evitata solamente se risulta provata « … l’insuscettibilità senza radicali trasformazioni) di una destinazione del bene diversa (da quella accertata in rapporto strumentale con l’attività aziendale)», al di là della classificazione catastale del bene medesimo.

Per quanto può essere qui osservato, si è quindi registrata l’evoluzione di un autorevole pensiero giurisprudenziale, secondo il quale la definizione della strumentalità del bene non può prescindere dal riscontro del suo diretto utilizzo da parte dell’impresa nella sua attività economica.

La questione della strumentalità dei beni immobili è stata oggetto della prassi interpretativa riguardante talune agevolazioni tributarie specificamente concesse nella prospettiva dell’incremento degli investimenti produttivi delle imprese. In particolare, con riferimento alla c.d. «Tremonti-bis», è intervenuta la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 24.12.2002, n. 393/E.

Alla luce di tale pronuncia, l’agevolazione risultava concessa in presenza di beni immobili strumentali per natura (e non anche – esclusivamente – per destinazione), trattandosi di cespiti che per le proprie caratteristiche oggettive non potevano essere diversamente utilizzati a meno di radicali trasformazioni.

Risultando quindi valorizzata la «natura» strumentale del bene, era esclusa rilevanza all’impiego dello stesso nell’ambito dell’attività produttiva dell’impresa. Poteva pertanto trattarsi anche di un bene produttivo di ricavi (canoni locativi), eventualmente iscritto contabilmente tra le rimanenze anziché tra le immobilizzazioni.

Si tratta di un orientamento nettamente difforme rispetto ai cennati orientamenti della S.C., presumibilmente indotto dall’esigenza di rispettare la ratio agevolativa della norma, evitando di frapporre presunzioni e vincoli potenzialmente nocivi al suo funzionamento.

Occorre altresì considerare che l’impresa può locare l’immobile strumentale senza per questo causarne l’«estromissione» dal regime dei beni d’impresa: esso può pertanto essere temporaneamente utilizzato da un’impresa terza, attraverso un contratto di locazione, per poi tornare nella piena disponibilità dell’impresa (già) locatrice.

È comunque evidente che il beneficio non può essere fruito due volte (sia in capo al locatore che in capo al conduttore); si imponeva pertanto una scelta, che per la locazione «ordinaria» è avvenuta in senso opposto rispetto alla locazione finanziaria (sicuramente, in considerazione del carattere prospetticamente «traslativo» del leasing finanziario, in base al principio substance over the form).

 

I costi esteri

A norma dell’art. 110, c. 10, del Tuir, non sono ammessi in deduzione le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti o localizzate in Stati o territori diversi da quelli individuati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis.

Tale deduzione è però ammessa per le operazioni intercorse con imprese residenti o localizzate in Stati dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al citato decreto. A tale riguardo, va precisato che la versione dell’articolo vigente dal 1° gennaio 2008, è quella che risulta dalle modificazioni normative introdotte dall’ultima legge Finanziaria (L. n. 244/2007), e prevede la sostituzione del regime delle black list – che precludeva la deducibilità dei costi sostenuti con soggetti residenti in determinati Paesi fiscalmente «privilegiati» o non collaborativi – con quello fondato su specifiche white list.

L’inserimento del Paese estero della società partner nelle white list consentirebbe la deducibilità dei costi esteri, ma – allo stato – non è stato ancora emanato alcun decreto attuativo, e per tale ragione continua ad applicarsi la previgente normativa, che va coordinata – quanto all’individuazione degli Stati e territori fiscalmente “cattivi” – con i decreti ministeriali 21.11.2001, 23.1.2002 e 27.12.2002.

Ai sensi del c. 11 del predetto art. 110 del Tuir, il vincolo alla deducibilità dei costi non risulta applicabile se le imprese residenti in Italia forniscono la prova che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione.

Inoltre, le spese e gli altri componenti negativi in tal modo deducibili devono essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi.

La prova richiesta può essere fornita, alternativamente:

  • in sede di controllo fiscale, dimostrando nel contraddittorio che le imprese estere non sono finalizzate alla sottrazione di risorse all’erario italiano;
  • in via preventiva, ottenendo una risposta positiva da parte dell’Agenzia delle Entrate a una specifica istanza di interpello nelle forme di cui al sopra menzionato art. 21, L. n. 413/1991 (interpello antielusivo).

Dev’essere rammentato che, per espresso disposto del c. 12 dell’art. 110, «le disposizioni di cui ai commi 10 e 11 non si applicano per le operazioni intercorse con soggetti non residenti cui risulti applicabile gli articoli 167 o 168, concernente disposizioni in materia di imprese estere partecipate».

Pertanto, nel caso in cui sussista un rapporto di controllo o collegamento con l’impresa estera, nei termini stabiliti dal Testo Unico, tale circostanza prevale sulla presenza di «costi esteri», risultando quindi eventualmente applicabile lo speciale interpello in materia di società controllate e collegate estere (CFC), che segue la procedura dell’art. 11 della L. n. 212/2000.

La ricorrenza dei requisiti prescritti dalla norma, in presenza dei quali non dovrebbe applicarsi la regola dell’indeducibilità dei costi, può consistere nella dimostrazione – in sede di interpello – dei seguenti presupposti (in via alternativa):

  • effettivo esercizio dell’attività (come propria attività principale) nello Stato o
    territorio estero da parte dell’impresa estera fornitrice;
  • concreta esecuzione delle operazioni e loro rispondenza a un effettivo interesse economico.

Si richiede pertanto, in primissima istanza, l’esercizio effettivo (e non semplicemente formale) dell’attività, e il suo carattere principale.

In alternativa alla prova riguardante lo svolgimento effettivo di attività economica da parte del fornitore estero, può essere dimostrata la sussistenza di un effettivo interesse economico all’effettuazione di ciascuna operazione intrattenuta con detti fornitori.

La circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/E del 26.1.2009 ha rammentato che la disciplina di indeducibilità può essere disapplicata fornendo le prove necessarie, nell’ambito del procedimento di accertamento, che le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che hanno avuto concreta esecuzione.

Dette prove non devono essere fornite in caso di positivo esperimento dell’interpello ex art. 11, c. 13, della L. n. 413/1991.

In relazione alla documentazione di prova necessaria a consentire la disapplicazione, l’Agenzia richiama la propria circolare n. 29/E del 23.5.2003 e alle altre conformi pronunce di prassi in materia di CFC. Inoltre, a proposito della condizione esimente riconducibile all’effettivo interesse economico, secondo le indicazioni fornite dalla risoluzione n. 46/E del 16.3.2004, l’Agenzia ha ritenuto necessaria l’acquisizione di «tutti i documenti utili per poter risalire alla logica economica sottesa alla scelta di instaurare rapporti commerciali con un fornitore residente in un Paese a fiscalità privilegiata».

La scelta imprenditoriale dev’essere sorretta secondo l’Agenzia da una valida giustificazione economica a vantaggio della specifica attività imprenditoriale, in relazione all’entità del prezzo praticato, alla qualità dei prodotti forniti e alla tempistica e puntualità della consegna.

 

Le disposizioni in materia di CFC

Le disposizioni di contrasto ai fenomeni elusivi tramite CFC (società controllate e collegate estere), anteriori alla «riforma IRES» del 2004, sono state messe a punto secondo uno schema imperniato sull’imputazione al soggetto controllante italiano dei redditi conseguiti dai soggetti controllati (in base a una nozione sostanziale, e non meramente formale, di controllo), ovvero delle società semplicemente collegate, residenti nei Paesi inclusi nella black list di cui al D.M. 21.11.2001, pubblicata nella G.U. n. 273 del 23.11.2001 (artt. 167 e 168 del TUIR).

La normativa sulle CFC risulta applicabile anche nel caso in cui il soggetto residente detenga, direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, una partecipazione non inferiore al 20% agli utili di un’impresa, di una società o di altro ente, residente o localizzato in Stati o territori con regime fiscale privilegiato; tale percentuale di partecipazione si riduce al 10% se relativa agli utili di società quotate in borsa.

La norma non si applica invece per le partecipazioni in soggetti non residenti in tali Stati o territori relativamente ai redditi derivanti da loro stabili organizzazioni assoggettati a regimi fiscali privilegiati (l’esclusione parziale riguarda la stabile organizzazione, la quale, ove presente, basta da sé ad escludere la presunzione di “strumentalità” in capo al soggetto partecipato, poiché essa – ove riconosciuta – comporta l’esercizio di un’attività effettiva nel «tax haven»).

Il mercato di insediamento e le attività generatrici di passive income L’art. 13 del D.L. 1.7.2009, n. 78, convertito dalla L. 3.8.2009, n. 102, ha apportato, ai fini di evitare gli arbitraggi fiscali e nell’ottica del coordinamento con gli altri ordinamenti europei (con particolare riferimento ad operazioni infragruppo), le seguenti modificazioni all’art. 167 del TUIR:

 la lettera a) del quinto comma, ove è stata prevista la dimostrazione dell’effettivo svolgimento di attività commerciale nello Stato estero, è integrata puntualizzando che l’attività deve anche svolgersi «nel mercato dello stato o territorio di insediamento», mentre per le attività bancarie, finanziarie e assicurative la medesima condizione si intende soddisfatta

« … quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento»;

 dopo il quinto comma, è stato inserito un nuovo comma 5-bis in forza del quale la previsione di cui alla lett. a) del quinto comma (relativa, appunto, alla dimostrazione del requisito dell’attività nello Stato o territorio estero) diviene inapplicabile

« … qualora i proventi della società o altro ente non residente provengono per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari»;

 dopo l’ultimo comma, sono stati aggiunti i nuovi commi 8-bis e 8-ter, per effetto dei quali – salva la facoltà di esercizio dell’interpello speciale a norma del quinto comma – i vincoli in materia di CFC vengono applicati anche se i soggetti controllati sono localizzati in stati o territori diversi da quelli black list, qualora ricorrono congiuntamente le condizioni della soggezione a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti se residenti in Italia e del conseguimento di proventi derivanti per oltre il 50%

« … dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari»3.

Secondo le osservazioni formulate in sede di tavolo interassociativo tra ABI, ANIA, Assonime e Confindustria (documento «note e studi» Assonime n. 15/2009), il riferimento al «mercato» estero dovrebbe essere inteso in senso meramente rafforzativo dell’esimente già precedentemente prevista (svolgimento effettivo di attività commerciale nel Paese estero), intendendosi quindi

« … quale risposta alla più generale necessità che la controllata sia integrata economicamente nel territorio ed eserciti la propria attività avvalendosi di una struttura organizzativa e di una dotazione patrimoniale effettive ed adeguate»4.

Peraltro, considerando le finalità di penetrazione e sviluppo commerciale espresse da molte partecipate estere, occorrerebbe intendere il riferimento al «mercato» di insediamento come riferito all’intera «area», anziché al singolo Paese (ad esempio, il Middle East, l’Europa, etc.)5.

Il comma 5-bis dell’articolo introduce invece la problematica dei «passive income», cioè dei redditi che non sono prodotti da una vera e propria attività, discendendo piuttosto da situazioni «contrattuali» intercorrenti tra la casa madre e la CFC (nonché tra questa e altri soggetti «correlati»).

Se l’innovazione normativa comportasse una presunzione assoluta di inesistenza di effettiva attività industriale o commerciale, riferita alla produzione di «passive income» e di per sé idonea a rendere applicabile il regime CFC, sarebbe necessario – sempre secondo le conclusioni del tavolo interassociativo – adottare un’interpretazione sistematica e puntuale di ciò che dev’essere considerato «passive income», con particolare riferimento ai servizi infragruppo (considerando che i servizi «estero su estero», in sé considerati, non danno necessariamente luogo a erosione della base imponibile nazionale).

 

Gli utili CFC

Per espresso disposto dell’art. 47, quarto comma, del Tuir, concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile gli utili provenienti, direttamente o indirettamente, da società residenti in Paesi o territori a regime fiscale privilegiato, di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 167, quarto comma, del Testo Unico, salvo nel caso in cui gli stessi non siano già stati imputati al socio ai sensi del primo comma dello stesso art. 167 o, se ivi residenti, sia avvenuta dimostrazione, a seguito dell’esercizio dell’interpello previsto dal quinto comma, lett. b), dello stesso articolo, del rispetto delle condizioni indicate nella lett. c) dell’art. 87, c. 1.

In campo IRES, il trattamento di esenzione fiscale del 95% è accordato anche agli utili distribuiti da soggetti esteri (art. 89, c. 3, del Tuir), ma a condizione che non si tratti di società ed enti commerciali residenti in Stati o territori fiscalmente privilegiati, nel qual caso la tassazione grava sul 100% degli utili medesimi.

L’unica esimente può essere fornita, in sede di interpello (nelle forme dell’art. 11 della L. n. 212/2000), con la dimostrazione che non vi è stata allocazione di redditi in Stati o territori «black list».

Si rammenta che l’art. 2, c. 2, lett. b), n. 1), del D.Lgs. n. 247/2005 aveva modificato l’art. 47, quarto comma, del Tuir (relativo alla percezione dei medesimi utili da parte di persone fisiche non operanti nel regime d’impresa), prevedendo il concorso integrale alla formazione del reddito degli utili «corrisposti», e non più anche «provenienti», da società con sede in Stati o territori a fiscalità privilegiata. Attraverso tale modifica, era divenuto possibile fruire dell’esenzione parziale se gli utili erano distribuiti da una società intermedia non residente ubicata in uno Stato a fiscalità ordinaria (da una società, cioè, interposta tra la partecipata sita nel paradiso fiscale e la società «madre» residente).

Il D.L. n. 223 del 2006, convertito dalla L. n. 248 dello stesso anno, è nuovamente intervenuto ripristinando la formulazione previgente dell’inciso, e quindi eliminando la possibilità di fruire dell’evidenziata «scappatoia» alle norme CFC.

Dalla ricostruzione appena effettuata trapela che la condizione da soddisfare per ottenere – in sede di interpello speciale – l’esenzione parziale per gli «utili CFC» in capo alla madre italiana è costituita non già dalla commercialità della CFC [art. 87, primo comma, lett. d)], bensì dalla non-delocalizzazione dei redditi in Stati o territori nei quali essi siano soggetti a regimi fiscali privilegiati [art. 87, primo comma, lett. c)].

 

L’attività economica non sussiste se mancano gli «introiti stabili»

Nella sentenza del 6.10.2009, in esito alla causa C-267/2008, la seconda sezione della Corte di Giustizia Europea (CGCE) si è pronunciata in ordine al trattamento IVA delle attività pubblicitarie svolte da una sezione del partito socialdemocratico austriaco del Land della Carinzia.

Alla luce di quanto è sottolineato dai giudici comunitari, le norme IVA comunitarie ricomprendono nella nozione di attività economica tutte le attività di produzione, commercio, prestazione di servizi, oltre alle operazioni di sfruttamento economico orientate alla produzione di entrate stabili.

Secondo i riscontri giurisprudenziali citati dalla Corte, tale disposizione si applica solo alle attività aventi carattere economico6.

Affermando che le operazioni poste in essere dall’organizzazione in parola consistono in prestazioni di servizi, la Corte osserva altresì che « … la base imponibile di una prestazione di servizi è costituita da tutto ciò che è ricevuto quale corrispettivo del servizio prestato e che una prestazione di servizi è, pertanto, imponibile solo quando esista un nesso diretto fra il servizio prestato e il controvalore ricevuto».

La prestazione viene quindi effettuata «a titolo oneroso» ai sensi dell’art. 2, n. 1, della sesta direttiva, e configura pertanto un’operazione imponibile, solamente quando tra il prestatore e l’utente intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, nel quale il compenso ricevuto dal prestatore rappresenta il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente7.

Su tale base, e riaffermando che gli «introiti» in gioco devono avere un carattere stabile, la Corte ha osservato che, nel caso di specie, le prestazioni pubblicitarie fornite dall’organizzazione territoriale non posseggono tale carattere (al contrario delle entrate pubbliche sotto forma di contributi, che rappresentano la forma ordinaria di finanziamento per il partito).

L’attività che era oggetto della causa principale non poteva quindi costituire un’attività economica secondo i criteri comunitari.

La pronuncia della Corte di Giustizia pone in evidenza il collegamento esistente tra la nozione di «attività economica» accolta in ambito IVA e l’effettuazione di operazioni dalle quali si originino introiti stabili, ossia non occasionali.

Tale nesso si ricollega alla questione della rilevanza generale – nell’ambito del sistema dell’imposta, salve alcune eccezioni – delle operazioni compiute a titolo oneroso.

Le conclusioni espresse dai giudici comunitari, combinandosi con i principi generali, consentono di individuare una nozione di attività economica (più ampia rispetto a quella di attività d’impresa, in quanto includente anche le attività libero- professionali) che si qualifica come tale in quanto:

  • onerosa (cioè prevedente una controprestazione;
  • caratterizzata dalla cessione/prestazione di beni/servizi;
  • stabile nel tempo (duratura).

 

Considerazioni di sintesi

Le considerazioni fin qui esposte consentono di ravvisare una nozione estesa di impresa commerciale, suscettibile di generare diversi effetti soprattutto sotto il profilo del trattamento fiscale. Si evidenzia a tale riguardo che l’esercizio effettivo dell’attività imprenditoriale-commerciale è la condizione per ricevere un trattamento consono alle esigenze della relativa gestione, nell’ottica della tassazione analitica che richiede la considerazione puntuale dei componenti reddituali negativi che sono stati impiegati nella produzione della nuova ricchezza.

Analogamente, per la tenuta del sistema dell’IVA è necessario che l’imposta a monte venga riconosciuta in detrazione, subordinatamente alla sua afferenza a un’attività che effettivamente si è tradotta nella produzione di valore aggiunto.

Occorrerebbe a tale riguardo riproporre e sviluppare correttamente il canone dell’inerenza, che dovrebbe costituire il punto di riferimento costante nell’interpretazione dei fenomeni fiscalmente rilevanti che interessano le imprese e le attività economiche in generale.

 

12 ottobre 2010

Fabio Carrirolo

 

 

NOTE

1 Cfr. Cass., Sez. Tributaria, 20.12.2001 nn. 3367, 3368, dep. il 7.3.2002, 7682, dep. il 25.5.2002, 10925, dep. il 25.7.2002: le pronunce richiamate hanno valorizzato le strette relazioni esistenti tra la dirigenza della capogruppo, le società estere del gruppo e il management delle società italiane.

2 Tale normativa, di chiaro tenore antielusivo, è d’altronde orientata al contrasto dei fenomeni di «mera gestione» di beni sostanzialmente privati mascherata da gestione d’impresa per ottenere dei vantaggi fiscali.

3 Secondo quanto è stato affermato nella nota del tavolo interassociativo ABI, ANIA, Assonime e Confindustria (documento «note e studi» Assonime n. 15/2009), il riferimento al «mercato» estero dovrebbe essere inteso in senso meramente rafforzativo dell’esimente già precedentemente prevista (svolgimento effettivo di attività commerciale nel Paese estero), intendendosi quindi « … quale risposta alla più generale necessità che la controllata sia integrata economicamente nel territorio ed eserciti la propria attività avvalendosi di una struttura organizzativa e di una dotazione patrimoniale effettive ed adeguate». Secondo quanto rimarca il documento in esame, la modifica normativa «normativizza» qui un preciso orientamento di prassi dell’Agenzia delle Entrate (manifestato nella risoluzione 18.11.2008, n. 427/E).

4 Secondo quanto rimarca il documento in esame, la modifica normativa «normativizza» qui un preciso orientamento di prassi dell’Agenzia delle Entrate (manifestato nella risoluzione 18.11.2008, n. 427/E).
5 Cfr. B. Santacroce – D. Avolio, «Mercato esteso per le cfc», Il Sole 24 ore 3.3.2010, pag. 36.

6 In particolare, la CGCE fa richiamo alle sentenze 26.6.2007, causa C284/04, causa TMobile Austria e a., Racc. pag. I5189, punto 34, e causa C369/04, Hutchison 3G e a., Racc. pag. I5247, punto 28.

7 Oltre alla giurisprudenza di cui alla sup. nota 5, la CGCE fa riferimento alla sentenza 3 marzo 1994, causa C16/93,
Tolsma, Racc. pag. I743, punti 13 e 14.

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