Compensi agli amministratori indeducibili

Il dibattito sui compensi agli amministratori passa dalla congruità dei compensi alla indeducibilità totale degli stessi…

I compensi agli amministratori

Il dibattito sui compensi agli amministratori non accenna fermarsi, passando però dalla congruità dei compensi alla indeducibilità totale degli stessi con l’ultima ordinanza della Corte di Cassazione.

Il quadro sulla congruità

deducibilità dei compensi degli amministratoriLa sentenza n. 28595 del 30 ottobre 2008, dep. il 2 dicembre 2008, della Corte di Cassazione aveva battuto un colpo a favore dei contribuenti, affermando che l’ordinamento tributario non accorda all’Amministrazione finanziaria alcun sindacato sulla congruità della quantificazione e determinazione del compenso devoluto agli amministratori di società che, quale componente negativo, deve intendersi integralmente deducibile dal reddito d’impresa nel rispetto dei presupposti stabiliti dalla disciplina degli artt. 60 e 109 del Tuir.

Il principio affermato dalla Corte è il seguente:

in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’Amministrazione Finanziaria, allo stato attuale della legislazione, non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 62 (Cass. n. 6599 del 2002; Cass. n. 21155 del 2005)”.

L’orientamento

è basato sulla considerazione che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 62, nella sua nuova formulazione introdotta dal T.U., non prevede più il richiamo ad un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l’interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l’inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l’attività svolta”.

In ogni caso, viene osservato che

il giudice a quo, pur aderendo a tale indirizzo, ha comunque compiuto una valutazione in ordine alla congruità del compenso e che tale giudizio integra una ratio decidendi del tutto autonoma, in grado di per sè di sorreggere la statuizione impugnata, con l’effetto che il ricorso, che non propone censure sul punto, appare sotto tale profilo inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 2273 del 2005; Cass. n. 5902 del 2002)”.

Il dibattito sulla congruità ha preso le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 12813 del 17.5.2000, depositata il 27.9.2000, che ha ritenuto il compenso agli amministratori soggetto alla valutazione di “congruità”, in rapporto alle dimensioni dell’impresa, da parte dei funzionari del Fisco. Per i Giudici Supremi, infatti, la riconosciuta deducibilità fiscale

“non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall’invalidità di tali atti sotto il profilo civilistico”,

in presenza di elementi certi, precisi e concordanti, e non mere presunzioni semplici, tali da permettere all’ufficio “un sindacato di legittimità”.

E pertanto,

“una volta ritenuta la correttezza dell’esercizio dei poteri valutativi istituzionalmente attribuiti all’ufficio finanziario e l’incensurabile motivazione della sentenza di merito sul punto, resta superfluo il ricorso ad accertamenti (da compiersi incidenter tantum) riservati ad altri giudici, quali quello sulla validità di negozi giuridici”.

 

Successivamente, la stessa Corte di Cassazione – sentenza n. 13478 del 10.11.2000, depositata il 30.10.2001 – ha riconfermato il proprio pensiero:

“l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”.

Di diverso avviso, invece, si è posta la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 6599 del 9.5.2002 e confermata dalla sentenza n. 21155/2005, secondo cui in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’attuale legislazione non consente all’Amministrazione finanziaria di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone.

Per la Corte,

la mancanza, poi, nel sistema di una clausola generale antielusiva è di ostacolo al riconoscimento, nell’attualità, di un potere dell’Amministrazione a fare questo tipo di valutazione per questi comportamenti (l’art. 37 – bis del D.P.R. n. 600/1973 prevede, infatti, ipotesi tassative tra le quali non si può comprendere quella in esame) né, per superare questi ostacoli, può farsi ricorso al meccanismo dell’interposizione di persona di cui al comma 3 dell’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973, poiché nella fattispecie in esame si discute solo di deducibilità o meno per un soggetto di costi (che all’Amministrazione sono apparsi eccessivi), e non di imputazione di reddito ad un soggetto piuttosto che ad un altro (i costi che risultano sostenuti dalla società risultano nella stessa misura reddito per altri soggetti, per cui non vi è una interposizione…; né, per riconoscere il potere di valutazione, può farsi riferimento alla disciplina dell’inerenza … poiché in questa materia (dell’inerenza) a fini impositivi rileva tendenzialmente il profilo della qualità del costo piuttosto che quello della quantità, proprio perché l’ordinamento riconosce all’imprenditore la libertà di impostare la sua strategia d’impresa.

Orbene, il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile poter dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese”.

 

L’ultima ordinanza della Corte di Cassazione

Con ordinanza n. 18702 del 13 agosto 2010 (ud. del 9 giugno 2010), la Corte di Cassazione ha escluso la deducibilità dei compensi degli amministratori nelle società di capitali.

I giudici prendono le mosse da un precedente pronunciamento – sentenza n. 24188/06 – secondo cui l’art. 62 del T.U. n. 917/86 escludendo

l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore di società di capitali: la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione “.

La sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la deducibilità del relativo costo,

è dunque ispirata ad un erroneo principio di diritto, non perchè i compensi degli amministratori di società di capitali siano deducibili nel solo anno in cui sono corrisposti, ma perché non sono affatto deducibili“.

 

Brevi considerazioni

La sentenza che si annota appare sicuramente forte, poichè supera i precedenti pronunciamenti che si limitavano a disquisire della congruità del compenso, a volte effettivamente sproporzionato.

Il pensiero espresso dalla Cassazione, volto a negare la deducibilità totale dei compensi agli amministratori, peraltro, non era neanche stato avanzato dalla Amministrazione finanziaria, tant’è che la controricorrente aveva depositato una memoria, contestando la possibilità di decidere la causa sulla base di una questione non dedotta, superata però dalla stessa Corte: la circostanza che tale interpretazione non sia stata mai dedotta dall’Ufficio, segnatamente in sede di accertamento, non appare vincolante per il Giudice, alla luce di quanto dedotto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 30055/08, secondo cui

affermare, infatti, che nel giudizio tributario l’amministrazione finanziaria (e, adesso, l’Agenzia delle Entrate) è attore e che la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato vuoi dire riconoscere che l’erario aziona una specifica pretesa impositiva – e cioè accerta un determinato debito tributario in capo al contribuente e ne richiede il pagamento – e che il processo che nasce dall’impugnativa dell’atto autoritativo è, si, delimitato nei suoi confini, quanto a petitum e causa petendi, dalla pretesa tributaria, ma solo nel senso che il fondamento e l’entità di questa non possono avere latitudine diversa da quanto dedotto nell’atto impositivo“.

In pratica, il rilievo è stato modificato dalla Cassazione, partendo dalla contestazione comunque del costo effettuata dall’ufficio in ordine all’anno di deducibilità.

 

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7 settembre 2010

Francesco Buetto