L'odissea della deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori qualora giudicati eccessivi

la deducibilità dei compensi agli amministratori societari dal reddito d’impresa può generare contenziosi con il Fisco: in questo articolo analizziamo la recente sentenza di Cassazione (sia pro contribuente che pro fisco) e proviamo ad estrapolare i corretti principi di comportamento da seguire per rendere il compenso deducibile evitando contestazioni

SpesometroI compensi corrisposti agli amministratori di società che risultino eccessivi e spropositati rispetto al bilancio sociale non sono deducibili anche se sono stati regolarmente deliberati: l’Amministrazione finanziaria può infatti sindacarne la congruità e l’inerenza quantitativa, verificando l’attendibilità economica dei dati indicati nelle deliberazioni societarie.

Il principio statuito dalla sentenza della Cassazione 24379/2016

La Cassazione con sentenza della Sezione V del 30 novembre 2016, n. 24379 ha riaffermato il proprio orientamento maggioritario secondo il quale il Fisco può entrare nel merito delle scelte dell’imprenditore e, in particolare, spetta al contribuente provare non solo l’effettività dei componenti negativi, ma anche la loro inerenza alla produzione di ricavi concorrenti alla formazione del reddito d’impresa.

Il Caso

In conseguenza di un PVC della Guardia di finanza, l’Agenzia delle Entrate ha notificato ad una S.r.l. un avviso di accertamento ai fini IRES, IRAP e IVA. Più in dettaglio, l’Ufficio ha contestato alla contribuente l’assenza di inerenza di una quota di costi relativi a compensi che la società aveva corrisposto ai suoi amministratori. Secondo l’Ufficio accertatore, tale importo risultava sproporzionato rispetto all’ammontare del volume di affari e dei ricavi dichiarati nel medesimo anno d’imposta ed aumentato in modo spropositato rispetto ai compensi dell’anno precedente nel quale i ricavi conseguiti dalla società erano di gran lunga superiori.

Ne è seguito un contenzioso che sia in CTP che in CTR ha accolto le doglianze della società ricorrente ritenendole fondate, in quanto l’art. 95, co. 5 del TUIR pone come unica condizione per la deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori che gli stessi siano stati corrisposti (regime di cassa per i compensi in forma fissa). La corresponsione deve essere autorizzata in forza di delibera assembleare. Le commissioni di merito, hanno sottolineato che non può esistere danno erariale nel caso di specie, in quanto alla deducibilità fiscale degli stessi in capo alla società erogante si contrappone specularmente la tassazione ordinaria degli stessi in capo agli amministratori percettori.

Contro la sentenza della CTR, l’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, lamentandosi che la Commissione tributaria regionale aveva erroneamente deciso che all’Amministrazione finanziaria non era consentita alcuna valutazione in ordine alla congruità dei compensi corrisposti agli amministratori e che i manager avevano comunque versato maggiori imposte in ragione dei più elevati compensi percepiti. Ad onor del vero, nel testo di legge non esiste, alcuna possibilità di sindacato da parte degli Uffici finanziari; mentre unica condizione richiesta per i compensi in forma fissa è che gli stessi siano stati pagati nell’anno di deduzione fiscale.

La Corte di Cassazione, nonostante l’inesistenza di un potere discrezionale dell’Agenzia delle Entrate normativamente stabilito, ha ritenuto fondato il ricorso promosso dall’Agenzia, riformando la decisione dei giudici tributari.

Orientamento giurisprudenziale pro-contribuente

Secondo un primo orientamento, l’Amministrazione finanziaria non ha alcun potere di valutazione di congruità rispetto ai compensi. Tale tesi, come già sottolineato in precedenza, trova il proprio fondamento nell’art. 95, c. 5 (ex art. 62), D.P.R. 917/1986 nel quale si prevede unicamente che «I compensi spettanti agli amministratori (…) sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti» e ciò in ragione della mancanza in tale articolo del riferimento a limiti massimi di spesa per i compensi, superati i quali se ne esclude la deducibilità. Non esiste secondo questo orientamento giurisprudenziale, a differenza di quanto si ritrovava nel previgente art. 59, co. 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 in cui era previsto, al co. 3, che i compensi corrisposti dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice ai soci amministratori sono deducibili nei limiti delle misure correnti per gli amministratori non soci, elemento quest’ultimo che comproverebbe la tesi secondo la quale l’Amministrazione non può sindacare sulla congruità dei compensi, ma ha solo la possibilità, in presenza di importi eccessivi e spropositati, di ricorrere alle figura della simulazione e dei negozi in frode alla legge.

In altri termini, secondo tale primo orientamento, stante la mancanza, nell’attuale normativa, di riferimenti a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti contenenti limiti massimi di spesa per i compensi da corrispondere agli amministratori di società (limiti che, se superati, escludono la deducibilità totale o parziale degli importi indicati), il Fisco non sarebbe legittimato a sindacarne la congruità: tali compensi sarebbero pertanto deducibili dal reddito societario per il solo fatto di essere stati deliberati, senza possibilità per l’Amministrazione di sindacarne congruità ed inerenza (cfr. Elisa de Pizzol e Carlo Callin Tambosi in Amministratori: stop ai compensi eccessivi, in Guida alla Contabilità e Bilancio n. 1/2017, pag. 6 e ss. ).

Orientamento giurisprudenziale pro-Fisco

Un secondo orientamento della giurisprudenza, più recente e maggioritario, prevede invece che l’assenza di riferimenti nel vigente art. 95, c. 3, D.P.R. 917/1986 a tabelle o comunque ad indicazioni che pongano dei massimali di spesa nella determinazione del compenso per gli amministratori non rappresenta una condizione sufficiente per derogare alla normativa generale in materia di indeducibilità dei costi. Ciò significa che, la mancata previsione di limiti all’erogazione di compensi ai manager non consente alla società di derogare alle regole fondamentali di determinazione del reddito d’impresa, tra le quali, in primo luogo, l’inerenza dei costi sostenuti, costi che devono essere valutati anche in termini di proporzione, congruità ed adeguatezza.

Pertanto, rientra nei poteri del Fisco la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa. Conseguentemente, sebbene la disciplina fiscale disponga espressamente che i compensi spettanti agli amministratori delle società di capitali ed enti assimilati sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti ove determinati nello statuto oppure con una specifica delibera dell’assemblea, il Fisco non è vincolato alla misura indicata nelle delibere sociali: spetta all’Amministrazione finanziaria la verifica dell’attendibilità economica dei dati indicati e l’eventuale contestazione della congruità del compenso corrisposto all’amministratore. L’esposizione di un costo non congruo e privo di valide ragioni che ne giustifichino l’ammontare, non è vincolante per il Fisco che sarà legittimato a negarne la deducibilità totale o parziale (Elisa de Pizzol e Carlo Callin Tambosi in Amministratori: stop ai compensi eccessivi, in Guida alla Contabilità e Bilancio n. 1/2017, pag. 6 e ss. ).

Il contenuto della sentenza

La Cassazione, ribaltando completamente le decisioni della Ctp e della Ctr umbre aderenti all’orientamento minoritario, ha ribadito il proprio indirizzo maggioritario chiarendo che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, rientra nei poteri dell’Ufficio finanziario la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non sono state ravvisate irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa. Ne consegue la possibilità per l’Ufficio finanziario di negare la deducibilità di un costo ritenuto inesistente o spropositato, non essendo lo stesso vincolato ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali. L’Ufficio, infatti, può verificare l’attendibilità economica di tali dati anche in presenza di una contabilità formalmente corretta, consentendo comunque al contribuente di fornire la prova non solo dell’effettività dei componenti negativi (ossia che essi non sono inesistenti), ma anche della loro inerenza in senso quantitativo alla produzione di ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito (art. 109, D.P.R. 917/1986). Tuttavia, se il contribuente non è in grado di giustificare l’ammontare di un compenso sproporzionato e irragionevole, l’Ufficio potrà negarne la deducibilità totale o parziale.

La sentenza 24379/2016 in commento, ha affrontato il caso specifico di un’azienda che ha previsto per i propri amministratori un compenso sproporzionato rispetto al volume di affari e ai ricavi dichiarati per quell’anno (450 mila euro a fronte di un fatturato di 600 mila euro) e quasi triplicato rispetto ai compensi dell’anno precedente (150 mila euro) nel quale i ricavi conseguiti dalla società erano di gran lunga superiori. Considerato che la S.r.l. non aveva fornito alcun elemento giustificativo a supporto del considerevole aumento del compenso amministrativo (a fronte addirittura di una mancata crescita aziendale), la Corte ha accolto il ricorso dall’Agenzia delle Entrate, rinviando così a nuova sezione della Ctr gli atti.

In definitiva, i compensi agli amministratori soggiacciono alla regola (non scritta da nessuna parte) della congruità rispetto al volume di ricavi dichiarati dalla società, pur avendo rispettato la stessa tutti gli adempimenti formali richiesti.

I precedenti giurisprudenziali

La giurisprudenza della Suprema Corte, ancora una volta, cambia orientamento, creando (e lo diciamo sommessamente) un evidente disorientamento negli operatori che si sono uniformati alle disposizioni di legge. Di seguito vengono segnalati alcuni precedenti giurisprudenziali sul tema [Elisa de Pizzol e Carlo Callin Tambosi in Amministratori: stop ai compensi eccessivi, in Guida alla Contabilità e Bilancio n. 1/2017, pag. 6 e ss.].

Orientamento minoritario (pro contribuente)

  • Cass, Sez. Tri. Civ. 10.12.2010, n. 24957: In via di principio l’Amministrazione finanziaria non può sindacare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori di una società di capitali che pertanto sono totalmente deducibili dal reddito societario stante la mancanza, nell’attuale normativa di cui all’art. 95, D.P.R. 917/1986, di riferimenti a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti contenenti limiti massimi di spesa. In ogni caso, esistono nell’ordinamento norme antielusive cui fare ricorso nel caso di compensi insoliti o sproporzionati.

  • Cass. Sez. Tri. Civ. 9.5.2002, n. 6599: In tema di determinazione del reddito d’impresa, allo stato attuale della legislazione l’Amministrazione finanziaria non ha il potere di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone, per cui tali compensi sono deducibili come costi ai sensi dell’art. 62 (ora art. 95, co. 5), D.P.R. 917/1986.

  • Orientamento maggioritario (pro Fisco)

  • Cass. Sez. VI Civ. ord. 14.11.2013, n. 25572: La deducibilità dei compensi degli amministratori di società non implica che gli Uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, competendo ai medesimi la verifica dell’attendibilità economica dei predetti dati.

  • Cass. Sez. VI Civ., ord. 15.4.2013, n. 9036: In tema di determinazione dei redditi d’impresa, rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, ancorché non risultino irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa; ne consegue che la deducibilità, ai sensi dell’art. 62 (ora art. 95), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dei compensi degli amministratori delle società (nella specie una S.r.l.) non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, competendo all’Ufficio la verifica dell’attendibilità economica dei predetti dati.

  • Cass. Sez. VI Civ., ord. 11.2.2013, n. 3243: In tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente «l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986; e che, poiché rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei medesimi ».

  • Cass. Sez. Tri. Civ. 30.10.2001, n. 13478: Rientra nei poteri del Fisco valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere alla rettifica di queste ultime, sebbene non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con conseguente negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa; pertanto, la deducibilità, ai sensi dell’art. 62 (ora art. 95), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dei compensi degli amministratori delle società (nel caso di specie: società di capitali) non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o in contratti.

Cass. Sez. Tri. Civ. 27.9.2000, n. 12813

L’Amministrazione finanziaria è legittimata a compiere una valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e a procedere alla loro rettifica, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa; pertanto, la deducibilità ex art. 62 (ora 95), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 dei compensi dei manager, soci e non soci, delle società in nome collettivo non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti.

Nel caso di specie, in applicazione di tale principio, la Cassazione ha confermato la decisione di merito che, ritenuta ingiustificata la nomina ad amministratori di cinque soci ed eccessivo l’importo dei compensi, aveva affermato la legittimità della riduzione, operata dall’ufficio, del compenso riconoscibile a ciascun amministratore.

Conclusioni

Ancora una volta il tema della deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori esce dal vaglio giurisprudenziale della Suprema Corte opaco e sottoposto ad una discrezionalità dell’Agenzia delle Entrate, che non si rileva da nessuna parte nel testo dell’art. 95, comma 5 del TUIR. La discrezionalità che la Suprema Corte conferma con la Sentenza n. 24379/2016 a favore dell’Agenzia delle Entrate, non è contenuta da nessuna parte nel testo di legge. E allora perché la Suprema Corte continua nelle ultime sentenze sul tema ad assumere un atteggiamento apparentemente pro-Fisco? Si, apparentemente, perché la definizione di compensi agli amministratori che rappresentano componenti negativi del reddito della società, se comporta da un lato la riduzione della base imponibile IRES della società che nel 2016 è del 27,50%, dall’altro lato comporta una tassazione in capo agli amministratori di un reddito sottoposto (proprio nel caso trattato dalla sentenza) ad un aliquota marginale del 43%. Insomma, un harakiri, a danno del fisco italiano, oltrechè una decisione che presenta una distanza siderale dal testo normativo, che confonde gli operatori e che risponde ad una logica poco chiara. Certo, la definizione di compensi che azzerino o addirittura rendano negativo il reddito della società è poco plausibile, ma non danneggia sicuramente le casse erariali e resta rispettosa della norma che, a giudizio di chi scrive, è l’aspetto più importante da sottolineare.

3 febbraio 2017

Enrico Larocca