Nel codice di autodisciplina delle società quotate vi è peraltro una chiara distinzione tra consiglieri non esecutivi ed esecutivi, essendo quindi escluso che l'intero CdA possa avere compiti esecutivi.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4400 del 20/02/2020, è nuovamente intervenuta sulla controversa questione della deducibilità dei compensi degli amministratori e relativi limiti.
Compensi amministratori il caso sotto la lente dei giudici
Nel caso di specie, la società contribuente aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, la quale ne aveva respinto l'appello contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, che aveva parzialmente respinto il ricorso contro l'avviso di accertamento, emesso ai sensi dell'art. 41 bis Dpr. 600 del 1973, con cui veniva ripreso a tassazione, per l'anno 2003, l'importo di euro 60.000, a titolo di remunerazioni aggiuntive attribuite a due dei quattro amministratori delegati della società stessa.
La società in questione aveva infatti quattro consiglieri di amministrazione (che erano anche soci), e tutti e quattro erano stati nominati amministratori delegati, con un compenso di 10.000 euro annui ciascuno.
Due dei quattro amministratori delegati avevano, invece, ricevuto, nell'anno in contestazione, il compenso di 40.000 euro ciascuno, con la giustificazione che così era stato deliberato in virtù dell'attribuzione ad essi di compiti particolari.
L'ufficio aveva allora recuperato a tassazione non il compenso agli amministratori delegati, ma la speciale remunerazione, attribuita a due di essi, e quindi l'importo di 60.000 euro (i 30.000 euro che ciascuno dei due ha ricevuto, in aggiunta alla retribuzione "ordinaria" degli amministratori delegati).
La CTR, rigettando l'appello, aveva quindi confermato la ripresa a tassazione di tale importo, partendo dal presupposto che non fosse consentita la nomina ad amministratori delegati di tutti i membri del consiglio di amministrazione.
La contribuente impugnava infine la pronuncia di secondo grado, deducendo, per quanto qui di interesse, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2381, comma secondo, c.c., dell'art. 2389 c.c. e dell'art. 109 del