Una sentenza della sezione penale della Cassazione conferma la pericolosità di un comportamento assai frequente nella prassi aziendale, quello dei prelievi effettuati dall’amministratore, che in fase di crisi dell’impresa rischiano di portare a processi e condanne per bancarotta.
I crediti verso gli amministratori: profili fiscali
Tra gli addetti ai lavori, è abbastanza frequente trovarsi una società nella cui contabilità siano presenti dei crediti verso gli amministratori, relativi a prelevamenti fatti purtroppo con troppa facilità.
Analogamente, valori del conto “cassa” sproporzionati rispetto all’attività svolta sono spesso all’ordine del giorno negli studi con clienti un po’ “leggeri”.
E’ poi vero, però, che spesso ci si soffermi ad osservare la situazione esclusivamente dal lato fiscale, ambito nel quale sono tantissime le sentenze tributarie che vertono sulle conseguenze di tali operazioni degli amministratori.
E’ noto, ad esempio, che in caso di accesso dell’Agenzia entrate in azienda, e riscontro dei summenzionati valori di cassa eccessivamente alti, o per meglio dire inverosimili, o ancora meglio non coerenti con la effettiva disponibilità di denaro in cassa, la legge permette la contestazione della inattendibilità della intera contabilità (conseguenza del tutto ovvia, posto che nessuno si fiderebbe di una contabilità con tale vizio nel conto “cassa”), con la conseguente possibilità di applicare l’accertamento induttivo c.d. “puro”, con buona pace del diritto di difesa del contribuente, che deve affrontare la situazione con armi decisamente spuntate.
Ma, come dicevo, l’aspetto fiscale è senz’altro quello meno pericoloso.
I prelievi dell’amministratore ed i reati fallimentari (bancarotta)
In ambito penale, infatti, la giurisprudenza di legittimità si è più volte ripetuta sulle conseguenze di tali comportamenti, soprattutto nei casi in cui tali prelievi sono stati effettuati in un momento finanziariamente difficile della società.
In una delle sue ultime, la n. 39674 del 2023, la Corte ha avuto modo di affermare (e confermare) che, ai fini del delitto di bancarotta per distrazione, è assolutamente rilevante la circostanza che, in un momento in cui gli utili conseguiti dalla società risultavano molto esigui, si operasse un drenaggio di liquidità in danno del conto cassa della società poi fallita con motivazioni del tutto generiche (prestito, giroconto, prelevamento) per le singole operazioni; operazioni prive di supporto documentale, esplicativo delle reali finalità dei prelievi, e tradotte in ripetuti e costanti prelievi annuali, in sostanza del tutto privi di causa.
Il caso: prelievi poco prudenti a due anni dal fallimento
Il caso all’esame era quello di una società nella quale l’amministratore preleva dalla cassa aziendale, anche se in quel momento la società è in utile, salvo poi fallire circa due anni dopo.
L’indice di fraudolenza sta nell’esistenza di un conto “creditori diversi” che ha consentito prelievi di liquidità ingiustificati, i quali devono essere considerati quantomeno “poco prudenti” in un momento in cui sono comunque modesti i risultati raggiunti dalla società.
Non è difficile immaginare che oggi siano tante le società che non versino in acque tranquille dal punto di vista finanziario, che abbiano importanti “scoperti” in banca, ad esempio.
La situazione appena illustrata, quindi, non è nemmeno posta in salvo dall’utilizzo del conto crediti (piuttosto che dalla mancata contabilizzazione del prelievo), sicché per un professionista – e pensiamo non solo ai commercialisti, ma anche e soprattutto ai sindaci – è d’obbligo ammonire gli amministratori sulla pericolosità penale, prima ancora che fiscale, di tali comportamenti assolutamente leggeri.
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A cura di Danilo Sciuto
Mercoledì 18 ottobre 2023