L’inflazione del 2022 e la sua tendenza a restare alta anche nel prossimo futuro potrebbe indurre i proprietari di immobili a rivedere i loro piani e porre in essere valutazioni sulla convenienza della cedolare secca.
La tassa piatta, pur avendo una aliquota di applicazione bassa, non consente l’aumento dei canoni.
In alcuni casi potrebbe convenire la revoca dell’opzione, da effettuare nei termini di legge.
Cedolare secca o Irpef: aspetti da valutare
Il regime opzionale della cedolare secca – disciplinata dall’art. 3, Dlgs 14 marzo 2011, n. 23 – ha rappresentato per anni una valida alternativa alla tassazione ordinaria dell’Irpef.
Tra le valutazioni fatte nel passato, per decidere se applicare o meno la tassa piatta, si è tenuto di molteplici fattori.
Tra di essi:
- la natura dei redditi posseduti dal locatore. Se quest’ultimo era mono-reddito, probabilmente ha preferito la tassazione ordinaria, al fine di godere della possibilità di fruire di oneri deducibili (dal reddito complessivo) e di oneri detraibili (dall’Irpef);
- il fatto che la cedolare secca, oltre a sostituire l’Irpef, consente di non versare (sul reddito fondiario) le addizionali regionale e comunale all’Irpef;
- il fatto che l’opzione per la cedolare secca consente di fruire dell’esenzione dalle imposte di registro e di bollo relative al contratto di locazione (circolare, agenzia delle Entrate 1° giugno 2011, n. 26/E, paragrafo 5);
- l’impossibilità di adeguare il canone di locazione.
Cedolare secca: ambito soggettivo
Non tutti i locatori hanno avuto la possibilità di fare queste valutazioni: secondo la prassi dell’Amministrazione finanziaria (circolare 26/E/2011), l’opzione per il regime della cedolare secca è riservata ai soli locatori (proprietari o titolari di altro diritto reale di godimento sull’immobile) che siano una persona fisica (art. 1, provvedimento agenzi delle Entrate 7 aprile 2011, n. 55394)[1] e che effettuino la locazione – da cui derivi un reddito fondiario[2] – al di fuori dell’esercizio di imprese, arti e professioni.
Secondo il paragrafo 1.2 della menzionata circolare 26/E/2011, anche il conduttore deve agire al di fuori dell’esercizio di imprese, arti e professioni.
Secondo il pensiero del Fisco, sarebbero esclusi dall’opzione gli immobili locati a conduttori che esercitano attività d’impresa o di lavoro autonomo, ancorché l’unità immobiliare venga poi utilizzata da persone fisiche per finalità abitative (es. l’appartamento ad uso foresteria per i dipendenti di una impresa)[3].
Per completezza di trattazione ricordiamo che l’opzione per il regime della cedolare secca è ammessa, in presenza delle altre condizioni di legge, anche se le unità immobiliari abitative sono:
- locate ad una cooperativa edilizia ovvero ad un ente senza scopo di lucro a condizione che (art. 3, comma 6-bis, Dlgs 23/2011) l’unità abitativa venga sublocata a studenti universitari ovvero[4] venga data a disposizione dei Comuni;
- locate per il tramite di un intermediario immobiliare, con o senza rappresentanza[5].
Ambito oggettivo
La cedolare secca può essere applicata alle locazioni[6] di immobili abitativi: a tal fine rileva il dato catastale[7].
Il regime opzionale può essere esteso alle pertinenze dell’unità abitativa, ancorché di categoria catastale “strumentale”, purché la locazione avvenga “congiuntamente all’abitazione” (art. 3, comma 2, Dlgs. 23/2011 e art. 1, punto 1.2 del provv. Agenzia delle Entrate 7 aprile 2011 n. 55394).
Invero, secondo la circolare 26/E/2011, paragrafo 1.2 la locazione della pertinenza può avvenire anche con un contratto successivo e separato da quello dell’abitazione, purché il contratto stipulato intercorra tra le medesime parti che hanno contratto l’accordo per l’abitazione e che nello stesso venga fatto riferimento al contratto di locazione dell’abitazione, evidenziando l’esistenza del vincolo di pertinenzialità rispetto all’abitazione già locata con esso.
Non rileva la tipologia contrattuale. Pertanto, il regime della cedolare secca è applicabile ai contratti di locazione:
- liberi (quelli aventi durata di 4+4 anni), stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge 431/1998;
- a canone concordato (aventi una durata di 3+2 anni), stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 3, legge 431/1998 (Dm 16 gennaio 2017);
- aventi natura transitoria (es. quelli per soddisfare le esigenze abitative degli studenti) universitari), stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 3 e dell’art. 5, comma 2 e 3, legge 431/1998;
- disciplinati dal codice civile (articoli 1571 e seguenti);
- di locazioni brevi (art. 4, Dl 24 aprile 2017, n. 50)[8] e di sublocazioni brevi, ancorché in quest’ultima ipotesi il canone generi, in capo al locatore, un reddito diverso (e non un reddito fondiario)
Aliquote e condizioni contrattuali
In linea generale, la tassa piatta prevede un’aliquota del 21%, ridotta al 10% solo in determinate ipotesi, come nel caso di:
- contratti di locazione di immobili in comuni con carenze di disponibilità abitative (art. 1, comma 1, lett. a) e b), Dl 551/1988) e in comuni ad alta densità abitativa (individuati dal CIPE);
- contratti stipulati a canone concordato sulla base di appositi accordi tra le organizzazioni della proprietà edilizia e degli inquilini, di cui all’art. 2, comma 3, legge 431/1998 e all’art. 8 della medesima legge[9].
Un basso livello di tassazione ha fatto scegliere a molti la tassa piatta: basti pensare che l’aliquota del 21% è del tutto analoga alla tassazione ordinaria, ma solo c