Criptovalute e reato di autoriciclaggio

Sussiste il reato di autoriciclaggio nel caso in cui siano state impiegate parte delle somme distratte dalla società in operazioni speculative mediante acquisto di criptovalute.
Tali operazioni sono infatti concretamente idonee ad ostacolare l’individuazione della provenienza illecita del denaro.

La Corte di Cassazione, Sez. Penale, ha risolto un contenzioso in tema di autoriciclaggio e criptovalute.

 

Bancarotta, autoriciclaggio e criptovalute: il caso di Cassazione

criptovalute autoriciclaggioNel caso di specie, il Tribunale di Roma aveva rigettato la richiesta di riesame avanzata per l’annullamento di un decreto di sequestro preventivo di conto corrente bancario intestato all’indagata, disposto dal G.I.P. in relazione ai reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e di autoriciclaggio.

Il ricorso lamentava in particolare l’omesso esame delle deduzioni difensive in ordine alla sussistenza del fumus commissi delicti, avendo l’indagata cessato di ricoprire da tempo la carica di amministratore unico della società, e contestandosi comunque il ruolo di amministratore di fatto, alla medesima attribuito in relazione al periodo successivo alla cessazione della carica e la provenienza delle somme investite in criptovalute dalle distrazioni contestate.

Affermava la ricorrente che si trattava, in ogni caso, di somme percepite legittimamente come dimostrato dai documenti prodotti già in sede di riesame e ingiustamente ritenuti dal Tribunale non idonei perché privi di data certa.

In particolare si evidenziava che la somma di euro 440.000,00, proveniente dalla vendita di un immobile, risultava versata sui conti societari e poi destinata al pagamento delle retribuzioni, del Tfr, di imposte e tasse, laddove, in ogni caso, la movimentazione di tali somme, successiva alla fuoriuscita della indagata dall’amministrazione societaria ed imputabile quindi al nuovo amministratore, non poteva essere alla medesima riferibile.

La ricorrente contestava poi l’omessa motivazione in ordine al periculum, non avendo in particolare il Tribunale fornito risposta in ordine alla circostanza, evidenziata dalla difesa, secondo la quale gli investimenti finanziari (e non la trasformazione di denaro) da parte della indagata erano già intervenuti anche in epoca antecedente alla perquisizione disposta dal P.M. e non solo pochi giorni dopo di essa, non potendo quindi dedursi il pericolo in mora dal comportamento tenuto dalla stessa indagata dopo la perquisizione.

 

Il sequestro finalizzato alla confisca

Quanto al sequestro finalizzato alla confisca, si contestava anche la confiscabilità del denaro senza prova della sua pertinenzialità rispetto al reato ipotizzato, necessaria allorquando le somme non provengono direttamente dal reato, laddove, nel caso di specie, le somme che si assumevano oggetto di distrazione erano di provenienza lecita, in quanto frutto di attività lavorativa.

Secondo la Suprema Corte, per quanto di interesse, il ricorso era innanzitutto inammissibile, essendo ammesso il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.

Nel caso di specie, tuttavia, a differenza di quanto si assumeva in ricorso a sostegno della tesi dell’apparenza motivazionale, il Tribunale si era confrontato diffusamente con le deduzioni difensive asseritamente non valutate, ritenendole infondate o non dimostrate.

In particolare, il Tribunale del riesame, con motivazione niente affatto apparente, aveva non solo indicato le ragioni per le quali i versamenti delle somme rivenienti dai conti societari e confluite su quello intestato alla indagata non potessero ritenersi giustificati, ma aveva anche ricostruito l’intero contesto in cui essi erano intervenuti, evidenziando come, nella sostanza – di là di un ruolo effettivo di amministratore della società rivestito anche successivamente alla cessazione della carica – fosse acclarato:

  • che l’indagata aveva dolosamente condotto la società al fallimento, prima gravandola di ingenti debiti, soprattutto verso l’erario, svuotandola della sua consistenza patrimoniale in favore di altre società di famiglia e infine trasferendola all’estero ed “abbandonandola” nelle mani di un terzo (subentrato nella carica di amministratore), ormai indebitata per circa tre milioni di euro (la società una volta svuotata e cancellata dal registro delle imprese, era stata trasferita all’estero, in Slovacchia, e ceduta, con la nuova denominazione, ad un cittadino ungherese, risultato irreperibile alle ricerche del curatore);
     
  • che il drenaggio delle risorse era iniziato quando la società era ancora amministrata, anche formalmente, dalla indagata, con la cessione di immobile della fallita (risultante residenza dell’indagata) ad una società di famiglia – intervenuta meno di un mese prima della cessazione della carica – e col dirottamento all’estero di fondi presenti nei conti correnti italiani della società, in gran parte frutto dell’accredito del corrispettivo della vendita del detto immobile (sicchè il denaro, a differenza di quanto si assumeva in ricorso, come evidenziato dal Tribunale, non era stato affatto destinato al pagamento dei dipendenti, bensì dirottato su conti esteri);
     
  • inoltre, che la indagata aveva comunque continuato a svolgere un ruolo attivo nella società fallita anche dopo la sua formale cessione, come dedotto anche dal fatto che il completamento dello svuotamento della società fallita, iniziato durante la sua (formale) amministrazione, era proseguito anche dopo la cessazione della sua carica, sempre in favore di società riconducibili al suo nucleo familiare;
     
  • e, infine, che le somme distratte erano poi in parte confluite proprio sul conto della indagata – e poi dalla medesima investite in criptovalute -, circostanza questa che, chiudendo il cerchio, suggellava il pieno coinvolgimento della stessa nell’operazione (poco cambiando se tutto ciò fosse accaduto in virtù di un ruolo di amministrazione di fatto, o per sua specifica istigazione).

 

Dal fallimento all’autoriciclaggio

Quanto poi al reato di autoriciclaggio, commesso mediante impiego, da parte dell’indagata, di parte delle somme distratte dalla società in operazioni speculative, in particolare mediante acquisto di criptovalute, si osservava che il Tribunale, con motivazione congrua e quindi non affatto apparente, aveva ritenuto che tali operazioni fossero concretamente idonee ad ostacolare l’individuazione della provenienza illecita del denaro, evidenziando come circa 264.000 euro distratti dalla fallita fossero pervenuti, mediante passaggi intermedi intervenuti attraverso società, anche estere, riconducibili sempre alla famiglia della indagata, sul conto corrente della stessa, che ne aveva poi disposto l’investimento su una piattaforma di trading di moneta virtuale, uno dei più grandi Exchange di criptovalute mondiali (di dubbia origine ed operatività, afferma la Cassazione), e ciò peraltro pochi giorni dopo l’esecuzione della perquisizione presso l’abitazione della stessa indagata, ad ulteriore riprova del dolo di trasformazione del denaro per impedirne la identificazione e quindi la provenienza delittuosa.

Anche tale censura era pertanto infondata, anche considerato che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza (cfr., tra le tante, Cassazione, n. 36121 del 24/05/2019).

Infondate erano anche le contestazioni attinenti il periculum, laddove il provvedimento impugnato dava puntualmente conto delle ragioni per le quali doveva ritenersi sussistente il pericolo di aggravamento del reato, facendo riferimento, tra l’altro, oltre che alla tempistica del reinvestimento del denaro di cui già detto, anche alle modalità con cui il denaro – attraverso vari passaggi intermedi depistanti – era confluito sul conto della ricorrente ed era stato poi reinvestito in criptovaluta, per ulteriormente cercare di cancellare le tracce.

Tutte circostanze evidentemente ritenute indicative della capacità di mistificazione dell’indagata, che non solo aveva dato prova di sapersi destreggiare nel drenaggio di fondi societari in suo favore, ma che non aveva poi esitato, all’indomani della perquisizione, a trasformare il denaro in criptovaluta.

Pericolo ritenuto dunque sussistente dal Tribunale in relazione ad entrambe le ipotesi delittuose e ad entrambe le ipotesi del disposto sequestro (impeditivo e funzionale alla confisca), evidenziando come il denaro sul conto – profitto del reato di bancarotta – potesse essere definitivamente sottratto o disperso, anche mediante altre operazioni di impiego o trasferimento, come quelle disposte anche dopo la perquisizione.

Tanto premesso in ordine alo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue.

 

La giurisprudenza di Cassazione sul reato di autoriciclaggio

Come già affermato dalla Corte di Cassazione, in caso di trasferimento tramite bonifici in euro, anche tramite prestanome, di proventi frutto di attività illecite a società estere incaricate di cambiare la valuta in criptovalute, si realizza un ostacolo alla identificazione del beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare delle stesse criptovalute e si integra pertanto il reato di autoriciclaggio (cfr., Cassazione, n. 2868 del 25.01.2022).

Operazioni come quelle in esame pongono del resto un serio ostacolo alla identificazione del beneficiario finale delle transazioni ed effettivo titolare delle criptovalute, soprattutto laddove l’operazione di trasferimento si effettui servendosi di società estere che effettuano professionalmente il cambio di valuta, inserendo pertanto così nel circuito economico-finanziario gli euro di provenienza illecita, poi utilizzati per l’acquisto delle valute virtuali.

E dato che all’attività di cambio della valuta deve essere attribuito carattere finanziario (tanto che tale attività è specificatamente regolamentata dall’art. 155, comma 5 del D.lgs 385/1993), ne consegue anche che la condotta rientra a tutti gli effetti tra quelle punite dalla norma incriminatrice, rendendo altresì irrilevante verificare quale sia poi stato l’utilizzo delle criptovalute, essendo il reato di autoriciclaggio già integrato dalla preliminare operazione di cambio.

In conclusione, il riciclaggio (a differenza dell’autoriciclaggio) richiede necessariamente il coinvolgimento di soggetti terzi estranei al delitto principale (da cui provengono i profitti), laddove la difficoltà da parte dell’accusa, spesso, risiede proprio nel provare la consapevolezza del terzo della provenienza delittuosa di tali beni/utilità.

L’autoriciclaggio risolve invece la difficoltà di provare il consapevole coinvolgimento del terzo nella “ripulitura” delle somme illecite, essendo infatti lo stesso soggetto che ha commesso il delitto principale (da cui derivano i beni e le utilità) a trasferirle, investirle, impiegarle ecc.

Rispetto al riciclaggio è richiesto comunque un ostacolo all’identificazione della provenienza non generico, ma concreto, laddove, proprio in tema di operazioni bancarie, si è comunque già affermato come rientri tra le operazioni consapevolmente volte ad impedire in modo definitivo, od anche a rendere difficile, l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, la condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita, poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con denaro pulito (cfr., Cassazione, n. 52549 del 20/10/2017).

Quanto al tema poi della identificazione della concreta capacità dissimulatoria della condotta punibile a titolo di autoriciclaggio, le valutazioni debbono essere sempre orientate da un criterio di idoneità ex ante (cfr., Cassazione, n. 35260 del 23.09.2021).

Il Giudice deve cioè collocarsi al momento del compimento della condotta e verificare, sulla base degli elementi di fatto di cui dispone, se in quel momento l’attività posta in essere abbia un’idoneità dissimulatoria, e ciò indipendentemente dagli accertamenti successivi e dal disvelamento della condotta illecita.

 

Fonte: Corte di Cassazione, Sez. Penale, Sentenza n. 36027 del 23.09.2022.

 

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A cura di Giovambattista Palumbo

Venerdì 18 novembre 2022

 

Criptovalute, Nft e Metaverso: aspetti giuridici e fiscali

Evento in collaborazione con ODCEC Trani
Corso Online in Diretta
 

Quando: giovedì 24/11/2022, ore 15.00-19.00

Accreditamento: in fase di accreditamento per Commercialisti.

L’acquisto include: accesso al corso in diretta, accesso alla registrazione per 365 giorni. 

Chiusura iscrizioni: ore 13:00 del 24/11/2022.

L’evento sarà trasmesso in diretta dalla sede dell’ODCEC di Trani.

 

Programma
  • Introduzione alle novità
  • Gli aspetti giuridici relativi agli Nft e al Metaverso
  • La detenzione di criptovalute e Nft per le imprese: rilevanza contabile e conseguenze reddituali
  • La rilevanza Iva degli Nft e delle “operazioni” che avvengono nel Metaverso
  • Tassazione delle criptovalute e degli Nft per le persone fisiche
  • Eventuali adempimenti legati al quadro RW

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