Quello che mi piace dei (probabili) indicatori della crisi di impresa

A breve saranno svelati gli indicatori della crisi di impresa predisposti dai Commercialisti.
Già dalle prime bozze appare evidente che tali indicatori daranno utili informazioni non solo per quanto riguarda la crisi di impresa, ma anche per quanto riguarda la consulenza gestionale per migliorare i risultati aziendali.

Ancora prima che sia loro conferita l’ufficialità, che probabilmente avremo nel prossimo Convegno Nazionale del 25 Ottobre, gli indicatori della crisi di impresa sono già stati oggetto di critiche, rilievi nel merito e persino di fantasiose smentite.

Preferirei, per una volta, lasciare da parte le polemiche e concentrarmi piuttosto sui segnali positivi che emergono da una prima lettura di quanto riportato dagli organi di stampa.

Il sistema dovrebbe funzionare così: l’azienda è tenuta ad attivare la procedura di allerta ogniqualvolta il patrimonio netto scende al di sotto dello 0 oppure il Debt Service Coverage Ratio a sei mesi è inferiore a uno, circostanza che implica l’impossibilità di far fronte ai propri impegni finanziari con i flussi di cassa operativi prospettici.

 

Indicatori della crisi di impresa

In caso di impossibilità di calcolo del DSCR, a cui dedicheremo un successivo intervento, si possono utilizzare 5 ulteriori indicatori e su questi mi vorrei soffermare.

  1. sostenibilità degli oneri finanziari, in termini di rapporto tra gli oneri finanziari ed il fatturato;
  2. adeguatezza patrimoniale, in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali;
  3. ritorno liquido dell’attivo, in termini di rapporto da cash flow e attivo;
  4. liquidità, in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine;
  5. indebitamento previdenziale e tributario, in termini di rapporto tra indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo.

Quando tutti e 5 sono negativi l’azienda è in crisi. E altrimenti? Verrebbe da dire, ma abbiamo promesso che le polemiche le lasciamo ad altri (o ad altri articoli)

Premesso che occorrerebbe leggere le note metodologiche, al momento riservate, per comprendere quali tipi di calcoli e considerazioni andranno effettuati, è interessante notare come l’attenzione si stia sempre più spostando sul profilo finanziario.

Abbiamo cominciato ad abituarci al concetto e all’importanza dei flussi di cassa con l’obbligo (ahimé solo per pochi) del rendiconto finanziario e in questi indicatori traspare che la dimensione reddituale non è fine a se stessa ma una delle determinanti i flussi di cassa.

A mio avviso gli indicatori della crisi di impresa, che come mi faceva notare questa mattina un collega andrebbero chiamati “segnalatori”, dovrebbero servire a segnare una strada. Il passaggio non è banale.

Si tratta di non considerarli più soglie oltre la quale non è possibile spingersi e al di sotto delle quali “va tutto bene Madama la marchesa” ma, piuttosto, moniti per orientare le scelte strategiche operative organizzative dell’impresa.

Il nuovo art. 2086 del codice civile (di cui gli indicatori sono figli legittimi) non suggerisce solo di cambiare il modo di fare amministrazione e contabilità, ma impone che qualsiasi impresa, a prescindere dalle dimensioni, si doti di una strategia, di un modello di business e di piani operativi ricordandosi che le scelte non possono o non dovrebbero peggiorare la probabilità di default dell’impresa.

 

Vediamo allora quali preziose indicazioni ci fornisce il gruppo di lavoro del Consiglio Nazionale in merito agli indicatori della crisi di impresa.

• Sostenibilità degli oneri finanziari, in termini di rapporto tra gli oneri finanziari ed il fatturato.

Basta col dire il fatturato a tutti i costi! Esiste un fatturato buono e uno che è meglio evitare, l’ago della bilancia tra i due è rappresentato anche dall’onerosità finanziaria: un fatturato che aumenta meno di quanto costi finanziariamente sostenerlo peggiora il rischio di impresa.

È quello che gli anglosassoni chiamano Return On Debt (ROD) e che viene utilizzato come elemento di confronto con il Return On Investment (ROI).

• Adeguatezza patrimoniale, in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali.

Le aziende traggono le loro fonti dai soci (Patrimonio Netto), dai finanziatori volontari (le banche) e da quelli involontari (gli altri creditori). Il rapporto tra il Patrimonio netto e i Debiti rappresenta la proporzione tra i soci e i finanziatori; essere troppo sbilanciati sui secondi significa spostare il controllo dagli stockholder agli stakeholder: in poche parole dipendere dagli altri.

Del resto, l’indice è parente stretto (al punto che da un indice si può ricavare l’altro) con la leva finanziaria (Tot.Attivo/PN), uno dei vertici del triangolo di Dupont del ROE ed è una delle componenti dello Z-Score di Altman per le imprese non quotate.

Vale la pena di osservare che questo segnalatore influenza direttamente il primo: se mi indebito aumento gli oneri finanziari e a sua volta ne è influenzato: se aumentano gli oneri finanziari diminuisce il Patrimonio Netto, creando così una sorta di circolo vizioso (o virtuoso a seconda dei casi).

• Ritorno liquido dell’attivo, in termini di rapporto da cash flow e attivo.

Il cash flow la fa da padrone: non solo è chiaramente citato in forma prospettica nel DSCR ma appare come numeratore in questo segnale: finalmente cash is king!

Aspettando di chiarirci le idee su quali elementi restino inclusi o esclusi (come dobbiamo considerare il leasing?) è interessante notare le assonanze tra questo indice, il ROI e l’indice di rotazione dell’attivo o asset turnover.

La differenza la fa solo il numeratore: mentre nel ROI abbiamo il reddito operativo e nell’asset turnover il fatturato, qui troviamo il Cash Flow; è interessante notare come l’attenzione si sposti dal fatturato e dal mero reddito, che potrebbe essere dovuto anche da volontari o involontari, dolosi o colposi incrementi di talune voci dell’attivo circolante, al cash flow, il quale altro non è che il reddito monetario, al netto proprio dell’incremento del working capital (reale e fittizio).

• Liquidità, in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine.

L’indice di liquidità secondaria o current ratio misura la capacità di coprire con le attività a breve le passività a breve. Il modo per tenere sotto controllo l’indice è semplice (anche se a volte non facile) basta che le passività a breve non crescano più delle attività a breve.

Attenzione però, alcune attività a breve fanno lievitare l’indebitamento, si tratta delle componenti non liquide: crediti e rimanenze che dovrebbero essere costantemente monitorati e contenuti entro i limiti della crescita percentuale del fatturato sia a livello globale (bilancio) che di singola posizione (controllo di gestione).

• Indebitamento previdenziale e tributario, in termini di rapporto tra indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo.

Verrebbe da dire finalmente! Finalmente si distingue tra finanziatori consapevoli e inconsapevoli. Il fisco appartiene alla seconda categoria. Per troppo tempo però è stato sostituito in certi casi alle banche.

Non pagare 50.000,00 di imposte costa meno se mi ravvedo in tempo e soprattutto non richiede istruttorie di fido: me li prendo e basta.

Peccato però che se tale scelta (in ogni caso sconsigliabile) non è nemmeno supportata da una pianificazione finanziaria attenta, rischia di abbattersi sulla malcapitata azienda come un boomerang dagli effetti devastanti: le banche richiederanno anche l’istruttoria ma non arrivano a chiedere il 40% di quanto concesso, Equitalia, pardon Agenzia Entrate Riscossione, sì, e tutto ciò semplicemente perché non ci è stato concesso niente, ce li siamo presi.

Senza chiedere.

Visto così il quadro degli indicatori della crisi di impresa mi è sembrato più organico e persino pedagogico per la scarsa cultura della prevenzione del rischio finanziario che abbiamo nelle aziende italiane.

Mi sarebbe piaciuto però trovare anche qualche indicatore legato all’analisi andamentale (pensiamo alla Centrale rischi), vero fulcro del merito creditizio nella maggioranza dei casi; vi era l’occasione di educare finanziariamente un po’ di più gli imprenditori e talvolta i loro consulenti.

I segnali indicano la strada e più sono chiari meglio ci si muove ma a guidare deve essere l’imprenditore e a guidare l’imprenditore deve essere la strategia.

È del tutto evidente che, accanto ai KPI per evitare la procedura di allerta, dovranno trovar spazio una serie di indicatori strategici personalissimi e diversi per ogni azienda, che indicheranno alla governance non solo i divieti da non infrangere, ma la via da seguire e dovranno saper esclamare in tempo il fatidico: “ricalcola”.

Possibilmente prima di far perdere del tutto la strada.

 

30 settembre 2019

Alessandro Mattavelli

 

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