I problemi del saldo di cassa legittimano il ricorso all’accertamento analitico-induttivo

se il saldo del conto cassa è negativo il Fisco può legittimamente considerare la contabilità inattendibile e procedere ad accertamento analitico-induttivo. La giurisprudenza tributaria è oramai concorde su tale argomento…

Avvocato | Commercialista TelematicoLa rettifica della dichiarazione dei redditi ed IVA conseguente ad un avviso di accertamento fondato sulla ricostruzione della base imponibile con l’applicazione del metodo analitico-induttivo, così come disciplinato dal D.P.R. n. 600/1973 all’art. 39, comma 2, lett. d, e dal D.P.R. n. 633/1972 all’art. 55, è legittimo qualora l’inattendibilità dell’impianto contabile (presupposto normativamente necessario per l’utilizzo della citata metodologia accertativa) emerga dalla sussistenza della negatività di cassa.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 25289 del 25 ottobre 2017, consolida il proprio orientamento interpretativo in materia di saldo di cassa e verifiche induttive, affermando che l’anomala tenuta della contabilità legittima il ricorso allo strumento accertativo adottato, in quanto diretto a far emergere per via induttiva la materia imponibile, essendo stato accertato nel corso della operazioni di verifica che il contribuente ha registrato versamenti in cassa in data diversa da quella di esecuzione delle relative operazioni, allo scopo di coprire saldi passivi del “conto cassa, e che anche le scritturazioni dei conti “banca” risultavano non conformi agli estratti conto bancari; ne consegue la legittimità dell’avviso di accertamento in via induttiva, ai fini Ires, Irap ed Iva, fondato su indizi gravi, precisi e concordanti, nonché la rideterminazione del maggior reddito mediante calcolo induttivo dei ricavi, basato sui costi del personale e dell’energia, nonché sul fatturato.

In altre parole, secondo la Cassazione:

  • in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Ires e Iva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo;

  • la dottrina ragionieristica e, con essa, la giurisprudenza della Corte hanno chiarito che, siccome la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo.

Sul punto, vengono inoltre richiamate alcune precedenti statuizioni del medesimo avviso interpretativo; in particolare le sentenze nn. 11988/2011, 27585/2008 e 24509/2009.

Nelle sentenza n. 11988, la Cassazione afferma che le movimentazioni finanziarie riportate nel conto cassa sono il riflesso delle gestione economica aziendale, sicchè, se il mastro di cassa presenta un saldo negativo, vuoi dire che dalla cassa è uscito più denaro di quanto ne sia entrato, il che è possibile solo se non siano stati registrati tutti gli incassi e dunque tutti i ricavi e costituisce riprova di ricavi non dichiarati pari allo scoperto di cassa; l’onere della prova s’inverte dovendo la società contribuente offrire prove contrarie merce la dimostrazione di ulteriori componenti positive del reddito, a titolo di prestiti e/o conferimenti, corrispondenti al suddetto saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati.

Allo stesso modo, nella sentenza n. 27585, la Suprema Corte ribadisce che “poichè la chiusura ‘in rosso’ di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degl’introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo.

Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo.”

D’altra parte occorre evidenziare che le “vicende” dello stato della cassa rilevano anche quando il pur fisiologico saldo positivo sia “incongruente” in relazione all’esposizione debitoria, da parte del medesimo contribuente, verso gli istituti di credito, in modo da far ritenere “antieconomica” la condotta di quest’ultimo e, quindi, legittimare la presunzione di maggiori ricavi tramite una ricostruzione induttiva dalla base imponibile.

In tal senso si esprime, infatti, la stessa Corte di Cassazione nella sentenza n. 1530 del 20 gennaio 2017. A detta della Suprema Corte, l’eccesso di scopertura dei conti bancari, l’esorbitanza del conto cassa, unitamente ai finanziamenti operati dai soci, costituiscono pesante indizio di occultamento di ricavi, si da legittimare il ricorso alla procedura induttiva, con inversione dell’onere della prova ed onere per il contribuente di fornire la prova contraria; quanto precede in ragione del fatto che la prova presuntiva dei maggiori ricavi, idonea a fondare l’accertamento con il metodo analitico-induttivo, può essere desunta da una condotta commerciale anomala del contribuente.

In altre parole, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, non si può escludere la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.

Nel caso di specie, infatti, emergeva un’ampia e cospicua movimentazione del conto cassa la cui origine era asseritamente derivante dal finanziamento dei soci, i quali, peraltro, mentre ricevevano rimborsi continuavano, contestualmente, ad effettuare nuovi versamenti; la società, inoltre, pur a fronte della elevata liquidità disponibile (ed infruttifera, dunque senza costi aggiuntivi), aggravava l’esposizione bancaria, accollandosi anche un nuovo mutuo, in sè fonte di oneri ed interessi passivi.

In conclusione “l’esistenza di un conto cassa con saldo positivo, pertanto, costituisce una evenienza fisiologica, ma, assolvendo alla finalità di assicurare (e ricevere) pagamenti immediati di limitato importo, non è altrettanto fisiologico che il suo ammontare sia elevato e che, anzi, costituisca il vettore di flusso per rilevanti operazioni dell’impresa”.

 

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27 novembre 2017

Nicola Monfreda