partendo da una sentenza della Corte di Cassazione, vediamo quali sono le metodologie di accertamento tributario ed in quali casi sono utilizzabili
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18232 del 16.9.2016, ha chiarito alcune questioni in tema di metodologie di controllo accertativo.
Nel caso di specie, sulla base delle risultanze di distinti p.v.c. della Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate faceva notificare ad una società di costruzioni quattro avvisi di accertamento, a mezzo dei quali rettificava le dichiarazioni fiscali della parte per gli anni 2003 e 2004, recuperando a tassazione costi indeducibili e l’IVA indebitamente detratta in relazione ad operazioni considerate oggettivamente inesistenti.
Riuniti avanti a sé gli appelli di entrambe le parti avverso le opposte sentenze di primo grado, la CTR accoglieva il gravame della contribuente e respingeva quello dell’erario, ritenendo che “gli accertamenti operati dall’ufficio appaiono non sufficientemente motivati”.
In particolare, era convinzione del giudice d’appello che, basandosi il recupero della materia imponibile su controlli e riscontri eseguiti nei confronti delle ditte fornitrici e delle ditte che avevano usufruito delle prestazioni della società, tale modus operandi violasse il disposto dell’art. 39 del D.P.R. 600/73, laddove esso precisa che le inesattezze e le falsità, oltre che eventuali irregolarità debbano risultare da un esame effettuato sulla documentazione della ditta sottoposta a controllo.
E perciò, atteso l’onere probatorio che, di fronte alla corretta contabilizzazione delle operazioni, compete all’Amministrazione che ne assuma l’inesistenza e fermo che nella specie non vi era alcuna prova offerta a sostegno di tale tesi, limitandosi l’ufficio a recepire le sommarie informazioni raccolte dalla Guardia di Finanza, riteneva la CTR che gli atti oggetto dei giudizi violassero sia la norma dell’art. 39, non essendovi stato un riscontro diretto sulla contabilità della ditta, sia l’art. 43, realizzando il non aver offerto ulteriori elementi a sostegno della tesi erariale un vizio di motivazione.
Avverso tale decisione l’Amministrazione Finanziaria proponeva ricorso per cassazione, lamentando la violazione degli artt. 39, comma primo, lett. c) e d) e 43 D.P.R. 600/73, in quanto, contrariamente all’assunto fatto proprio dal giudice d’appello, è principio in materia che “l’amministrazione può disconoscere la detrazione IVA e può rettificare il reddito di una società senza esaminare la contabilità della medesima se l’inesistenza soggettiva delle operazioni risulta direttamente da ispezioni presso terzi” (primo motivo) e “non è affetto da motivazione insufficiente o inidonea l’avviso di accertamento che, anziché esaminare anche la contabilità (formalmente corretta) della società sottoposta a verifica, motiva il disconoscimento dell’1VA e la rettifica del reddito di una società con la inesistenza delle operazioni risultante direttamente da ispezioni presso le società terze fornitrici” (secondo motivo).
L’Agenzia eccepiva inoltre la violazione dell’art. 2697 c.c., laddove il giudice di merito aveva ritenuto che la prova della fittizietà delle operazioni incombesse all’ufficio, mentre, al contrario, “la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente” e non può essere costituita “dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento”, a fronte dei molteplici elementi indiziari allegati a riprova della fittizietà delle operazioni, e laddove lo stesso giudice aveva “ingiustificatamente ignorato le prove fornite dall’ufficio, affermando che la metodologia utilizzata dall’ufficio non fosse stata accompagnata da altri elementi di supporto”, competendo invero alla parte “provare in altro modo l’effettività dei rapporti commerciali” documentati contabilmente.
Tutti i sopradetti motivi, secondo la Corte, erano fondati.
Evidenziano infatti i giudici di legittimità che, a mente delle disposizioni recate dagli artt. 32, 37 e 39 D.P.R. 600/73 e 51e 54 D.P.R. 633/72, a cui si correlano le disposizioni in tema di accessi, ispezioni e verifiche di cui agli artt. 33 D.P.R. 600/73 e 52 D.P.R. 633/72, l’azione accertatrice del fisco in ordine al corretto assolvimento degli obblighi tributari da parte dei contribuenti si vale di un ampio ventaglio di strumenti istruttori e conoscitivi, che, oltre ad individuare il singolo contribuente quale necessario interlocutore delle attività di verifica (artt. 32, comma primo, nn. 1, 2, 3 e 4 D.P.R 600/73 e 51, comma secondo, nn. 1, 2 e 3, D.P.R. 633/72), mostra di ricorrere in larga misura alle informazioni attingibili presso i terzi, che, in ragione dei rapporti intrattenuti con il contribuente, vengono a costituire, per mezzo dell’incrocio dei dati contabili rinvenuti presso ciascuno, strumento di immediata verifica della fedeltà fiscale del soggetto verificato.
In particolare i poteri che l’Amministrazione è chiamata ad esercitare si indirizzano quindi in prima battuta nei confronti di categorie di terzi scelte in base alla loro qualifica professionale, all’attività svolta, o alle informazioni rilevanti ai fini di verifica di cui siano comunque in possesso, senza comunque trascurare qualsiasi terzo che al contribuente risulti legato da una pregressa attività, potendo invero l’Amministrazione, in forza dell’art. 32, comma primo, n. 8 bis), D.P.R. 600, “invitare ogni altro soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, atti o documenti fiscalmente rilevanti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente e a fornire i chiarimenti relativi” e così, in forza dell’art. 51, comma secondo, n. 4, D.P.R. 633/72, “invitare qualsiasi soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, documenti e fatture relativi a determinate cessioni di beni o prestazioni di servizi ricevute ed a fornire ogni informazione relativa alle operazioni stesse”.
Ne discende perciò, conclude la Corte, un sistema che, nel concorso anche degli altri poteri istruttori di cui l’ordinamento la provvede, vede l’Amministrazione depositaria di un ampio potere conoscitivo, che, in piena discrezionalità e con i soli limiti imposti dal rispetto dei diritti costituzionali, le consente di organizzare le attività di controllo in modo particolarmente capillare e secondo modelli operativi in grado di assicurare una conoscenza tendenzialmente completa ed esaustiva della posizione fiscale del contribuente e di evidenziare, se del caso, le irregolarità al medesimo ascrivibili anche al di là di una contabilità formalmente corretta.
Se dunque è legittima la determinazione dei ricavi effettuata in modo analitico-induttivo, anche in presenza di una contabilità formalmente corretta, ma di cui sia provata, in base ad “altri dati e notizie” raccolti nei modi prescritti dagli artt. 32 D.P.R. 600/73 e 51 D.P.R. 633/72, l’intrinseca inattendibilità, non bisogna altresì dimenticare il disposto dell’art. 39, comma primo, lett. c), D.P.R. 600/73, che “consente di procedere alla rettifica del reddito anche quando l’incompletezza della dichiarazione risulta dai verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti” (cfr 25643/15; 9210/11; 28342/05).
Nondimeno, una volta che l’esistenza di attività non dichiarate sia desumibile anche sulla base di presunzioni semplici originate dagli accertamenti condotti presso terzi e dai dati e dalle notizie che l’amministrazione abbia appreso all’esito degli stessi, tale procedura genera gli effetti propri della prova per presunzioni della condotta evasiva, rispetto alla quale non solo non è oppostamente invocabile la regolarità formale della contabilità tenuta dal contribuente, ma neppure è sostenibile che l’amministrazione debba assolvere un onere probatorio ulteriore, essendo invece il contribuente, in ossequio alle regole che governano la ripartizione dei compiti probatori, tenuto a dare la prova dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa erariale.
Nel caso di specie, in conclusione, era dunque evidente che, laddove il giudice d’appello aveva disconosciuto la fondatezza della pretesa, in quanto tutte “le argomentazioni svolte con gli atti di accertamento … sono basate su riscontri non riconducibili direttamente alla ditta sottoposta a controllo” ovvero perché “tutto il recupero della materia imponibile è basato sui controlli e riscontri eseguiti nei confronti delle ditte fornitrici e delle ditte che avevano usufruito delle prestazioni “, altresì rilevando che “le operazioni contestate sono state regolarmente contabilizzate e la ditta ha fornito tutta la documentazione … relativa alle transazioni economiche intercorse con clienti e fornitori”, egli aveva espresso il proprio giudizio in dissonanza con i sopra riportati principi.
In conclusione, ancora una volta, la Cassazione conferma la discrezionalità in capo agli Uffici dell’Amministrazione finanziaria nell’utilizzo delle diverse metodologie di controllo fiscale previste dal DPR 600/73, nonché dei criteri concreti di rilevazione degli elementi più significativi della contabilità.
Ovviamente il limite intrinseco a tale discrezionalità, e che consente alla stessa di non tramutarsi in arbitrio, è rappresentato dal rispetto del principio della riserva di legge in materia tributaria nonché dal suo principale corollario, ossia il principio del contraddittorio.
In questo senso, è dato ritenere che l’Ufficio possa far uso del tipo di controllo che ritiene più adatto in sede di accesso/verifica purché metta il contribuente in condizione di interagire e difendersi in ordine alle singole contestazioni mosse.
La legittimità della contestazione dipenderà comunque anche dal tipo di accertamento prescelto dall’Ufficio accertatore, potendosi in casi del genere procedere sia ad un accertamento induttivo “puro” (in particolare in presenza di contabilità inattendibile), che ad un accertamento analitico induttivo.
L’ufficio potrà in particolare determinare il reddito d’impresa con accertamento induttivo “puro”, prescindendo in tutto o in parte dalle scritture contabili ed avvalendosi di presunzioni semplici, anche non gravi, precise e concordanti:
• se il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione;
• se dal verbale d’ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto, o ha sottratto all’ispezione, una o più scritture che era obbligato a tenere, o se le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;
• se le irregolarità formali, le omissioni, falsità e inesattezze delle scritture risultanti dal verbale d’ispezione sono così gravi, ripetute e numerose da rendere inattendibili le scritture stesse nel loro complesso.
La differenza tra l’utilizzo di un metodo o l’altro di accertamento risiede del resto, sostanzialmente, nella diversa forza delle presunzioni richieste a sostenerne la legittimità, laddove l’accertamento analitico-induttivo può essere esperito soltanto attraverso l’impiego di presunzioni c.d. “qualificate”, ovvero dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, mentre l’accertamento induttivo puro, in presenza dei presupposti che lo consentono, può essere invece fondato anche su presunzioni sprovviste dei predetti requisiti, ovvero su quelle generalmente indicate come presunzioni “semplicissime” o “supersemplici”.
20 maggio 2017
Giovambattista Palumbo